Quando viene meno ciò che necessita ed irradia ovvero viene meno la parola e la sua alleanza con il vedere, si spalancano le porte al furore delle masse contro il pensiero
di Francesco Correggia
Tutto ciò che sembra accadere oggi nell’arte chiamata contemporanea non è altro che l’esporsi di un prodotto effimero senza consistenza storica. Il mostrarsi stesso dell’opera non è altro che il surrogato stesso di un’idea che si rende visibile; il suo porsi sempre come istantanea del presente che si mostra nella sua immediatezza, come una cartolina turistica.
Con tale pretesa l’arte si sottrae all’orizzonte poetico del suo corrispondere ad una visione del mondo che la fa essere e neppure si dona come testimonianza del proprio tempo. Così la pittura, quella considerata ufficiale dalle riviste specialistiche, quella dell’ultima Biennale di Venezia vive i suoi fasti come in uno specchio, in una specie di parodia.
Forse aveva ragione György Lukács quando scriveva che l’arte è quel momento della prassi che rispecchia la realtà in cui l’essere umano vive. Ogni interpretazione del mondo esterno non è altro che un rispecchiamento, da parte della coscienza umana, del mondo che esiste indipendentemente dalla coscienza. L’immediatezza viene sempre più fortemente soggettivizzata, sempre più viene intesa come funzione indipendente e autonoma del soggetto.
Questo fatto basilare della relazione fra coscienza ed essere vale ovviamente anche per il rispecchiamento artistico della realtà.
Dobbiamo aggiungere che l’estetica contemporanea è un campo di forze, di pulsioni passionali che si sfidano nel nome dell’immediatezza, della realizzazione orizzontale, del consenso. È la società di oggi, le persone che ne fanno parte che sono così e la politica che le rappresenta ne è il corollario. D’altra parte il mondo come manifestazione di un altrove verso cui andare, nel suo spostarsi costantemente, da una dimensione irreale ad una reale e da una reale ad una irreale, è scomparso, così come sembra scomparsa anche la parola creatrice. Rimangono le tecnologie mediali, le reti sociali, instagram, il web. Così viene anche meno la linea di demarcazione fra il sopra e il sotto, fra ciò che è e ciò che non è, il laterale e l’obliquo, il cielo e la terra, la notte ed il giorno, la memoria e il ricordo.
Tutto è reso disponibile in rete, nel tempo veloce della comunicazione di massa. Siamo tutti protagonisti di questo apparire, di questo vivere. Dimentichiamo tutto il resto, non solo l’amore per la verità ma anche l’amore per il pianeta, la madre terra, gli altri, il cosmo come lo chiamavano gli antichi. C’è chi sostiene, fra chi governa questo paese, che richiamarsi all’amore verso gli altri, alla pietas umana sia una debolezza. Così si sprecano le parole violente, che alimentano lo scontro, l’ingiustizia, la menzogna. Tutto questo circola sulle reti sociali senza alcun ritegno, senza un dubbio. La parola non è trattenuta ma sembrerebbe liberarci, renderci liberi dal momento, dalle circostanze, dalle difficoltà. Questa parola è falsa, non ci pone al riparo, né ci crea, non ci libera veramente. Il suo uso eccessivo produce una disgregazione. Essa è malevole, una diavoleria messa in giro per intrappolare l’avversario. Intanto produce danni, pensiamo di vincere il momento invece subito dopo siamo vinti da esso, dalla successione di momenti che superano il nostro assalto senza lasciarci rispondere. È una vittoria che alla fine si trasforma in sconfitta. Questo è proprio ciò che accade nei miserevoli programmi televisivi d’intrattenimento e di confronto politico. Così succede anche per la pittura di oggi che sembra confermare la dissoluzione di ogni riferimento poetico ed esistenziale e dare ragione a Lukacs. Essa è il riflesso della società, dell’economia, recita la scena muta della realtà; gira su se stessa, effettuosa e volgare, transitoria ed immediata. Basti pensare a ciò che di recente hanno detto pittori come Enzo Cucchi e Alex Katz. Essi dichiarano insieme, da una delle copertine di Flash Art, rivista ormai logora, ripetitiva e stancante che la pittura non si interessa del futuro. Allora di che cosa? Forse solo di loro stessi, di quelli che la fanno e sono in vetta alle classifiche di mercato, come spesso dichiara Politi. Sì la pittura si occupa del successo e delle vendite, questa è la novità. Miserevole cosa. È facile poter dire io sono da un’altra parte tanto che anche questa affermazione non vuol dire più niente, non tocca i pregiudizi degli addetti ai lavori né tanto meno quelli del pubblico, distratto e impotente. Bisogna quindi interrogarsi più in profondità e rispondere avendo come riferimento il senso della storia.
È da questa sconfitta umana prima che artistica e non del singolo uomo, che nasce per il pittore la necessità di scrivere. Lo ha sempre fatto, solo che questa necessaria pratica è stata messa da parte proprio con l’arte moderna e contemporanea e l’evolversi della critica d’arte. Sebbene con l’Action painting e l’espressionismo astratto ma anche dopo con J. Kosuth e Ad Reinhardt l’artista abbia continuato a scrivere testi teorici sulla propria opera, la medesima dimensione sembra si sia smarrita, congedata dalle più recenti pratiche curatoriali da parte di sempre più sedicenti ballerini di ciò che è rimasto della critica. Scrivere sarebbe liberare la parola dal transitorio, dalla sua maledizione, ma anche liberare il visivo, dal suo legame con l’immagine. Questo sarebbe il compito di chi scrive o di chi fa arte, scrivere sui confini della storia, sulle teorie del dopo la fine dell’arte come direbbe Arthur Danto, ma sarebbe soprattutto la responsabilità di chi fa pittura. Dire che la pittura non si interessa del futuro sarebbe come dire che essa è niente o meglio ancora una volta, la locuzione sembrerebbe insensata, prende lo stomaco, è ancora una forma spettacolare e diretta della comunicazione, un modo per far colpo. Con questa affermazione si vuole intendere che il tempo della storia è abolito, che non c’è trascendenza, memoria, ma solo l’esaltazione di se stessi, l’immediatezza della dichiarazione, l’istinto. La realizzazione di questo processo che appunto riflette la realtà in cui viviamo si mostra senza alcuna oggettivizzazione proprio perché esso appare, è ovunque. Il mondo così come la pittura, non hanno futuro poiché non se ne ha più esperienza, esistenza, Erlebnis, esperienza vissuta, come scrive Dewey, senza che io, in effetti, debba muovermi da dove mi trovo. Il darsi dello spazio nel tempo diventa un moltiplicarsi di eventi che il presente costantemente duplica, è la presentificazione dell’adesso ripetuto all’infinito che fa ombra allo stesso infinito.
Immagini
Ciò che chiamiamo arte contemporanea non solo è lo specchio del presente ma vive la sua estensione radicale nel suo essere ovunque in una luce sempre più abbagliante che tutto illumina. Il tutto è esposto in contemporanea, senza spazio di sottrazione in una rete pulviscolare che assorbe ogni cosa senza rimandare ad alcunché. Il mondo che prima suggeriva, nell’orizzonte del suo apparire, confini ed attraversamenti ora è abolito, al suo posto troviamo la meraviglia tecnologica illuminata sempre a giorno, lo schermo reticolare o il gigantismo con cui l’immagine contemporanea vive i suoi fasti. Viviamo in un’epoca di tecnocrati che si occupano del territorio e in fondo di noi, come scriveva Paul Virilio, siamo pervasi dalla dromologia scienza che studia la velocità. La tecnocrazia censura, accetta infatti solo di vedere la positività del suo oggetto e dissimula senza posa ogni incidente, ogni naufragio, ogni disastro, perfino chiude gli occhi davanti ai cambiamenti climatici, ai virus che ci minacciano.
In questo senso il pianeta che prima era mondo e si mostrava tra il visibile e l’invisibile, l’orizzonte e l’infinito, ora è totalmente esposto, piegato alla logica umana della distruzione. Riusciamo comunque a percepire solo la sua ombra, ciò che la luce proietta sulla parete. Siamo di nuovo in una specie di antro, forse di nuovo in una caverna platonica, da dove l’uomo guarda ciò che gli sembra reale, senza percepirne la consistenza, scoprendo di fatto la propria inadeguatezza a sostenere l’esperienza di una visione che è anche illuminazione, svelamento, verità. Con ciò si scopre che il tendere verso qualcosa, senza mai spostarsi da dove già si è, ha un carattere derealizzante che ci consegna ad un piccolo mondo individuale e refrattario ad ogni alterità. Tornare alla caverna tra gli incatenati è meglio che lo svelamento, l’apertura alla luce della verità. La luce del sole è accecante, si fa fatica a distinguere ciò che è da ciò che non è, come lo è la verità nel suo essere svelatezza. Per tale ragione è meglio tornare incatenati con i nostri compagni di prigionia, invece che vedere per davvero. Lo spazio umano senza la possibilità di scoprire ciò che è nascosto si riduce ad essere tempo dell’immediatezza, abitato da una logica inversa al tempo della storia, da un tempo, cioè, senza il suo sole.
Il presente dice Sant’Agostino è sempre pervaso dal tempo dell’anima che abita il mondo, da un amore che trasforma il passato in presente che scorre dandogli la sua natura di essere tempo nel suo passare, non tempo passato ma tempo abitato dall’anima che rimemora, riconosce e vive la presenza. Non una presenza qualsiasi fatta d’immediatezza ma quella trascendente dell’alterità, dell’altro che mi guarda e mi interroga, quell’altro che si coniuga dal singolare al plurale. È questo il tempo del futuro che ci dice il futuro come aspettativa, il passato come memoria e il presente come percezione. D’altra parte esso è intrecciato con il passato e ci fa essere nel presente, con altri. Lo spazio che mi divide così è anche plurale, avvicina cioè al dialogo, alla comprensione. L’essere si fa soggetto nella sua immanenza, accogliendo e comprendendo l’altro da sé. In senso proprio, lo spazio del presente non può coincidere con il punto inesteso o con la semplice presenza poiché quel che manca, che è carente è proprio il tempo della storia ma anche il futuro di cui non si deve parlare se non come promessa generosa e che appare come in una specie di faglia nascosta. Quando viene meno ciò che necessita ed irradia ovvero viene meno la parola e la sua alleanza con il vedere, il che è anche saper riconoscere, si spalancano le porte al furore delle masse contro il pensiero.
Il senso del nostro vivere che è diventato un sottovivere svela un’inattesa duplicità verso cui tendiamo: un processo di possibilità infinite che irrora il presente, nell’illusione di una vita di guadagno immediato e un senso di risentimento verso il sapere, verso la conoscenza, verso la verità. Questo sapere deve solo ridursi ad una riconoscibilità immediata che serve a qualcosa, ad un’economia, una produzione. L’odio verso tutto ciò che fa riflettere che costa fatica, storia, non si è mai mostrato con tanta chiarezza come ora. Da qui la riduzione dell’arte a propaganda, seduzione a meta turistica, della filosofia a divulgazione televisiva, in rete.
È la parola che scandisce il tempo del nostro vivere quotidiano. Quando essa viene pronunciata lo spazio della rimemorazione si apre, il tempo dell’anima concede i suoi preziosi frutti nel presente. Ogni cosa torna al suo posto e si riverbera pur nel fluire del dire, dal detto all’interdetto, dalla visione alla pittura. Nella mancanza di spazio la parola e la pittura annunciano il futuro che è già qui nel presente basterebbe saperlo cogliere questo futuro. Solamente, scrive Maria Zambrano se è insieme pensiero, immagine, ritmo e silenzio, la parola può recuperare l’innocenza perduta ed essere quindi azione pura, parola creatrice. Noi aggiungiamo pittura che guarda al futuro.
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