Una nuova fenomenologia dell’esistenza sembra associarsi, con considerevoli trasformazioni non solo della comunicazione interpersonale ma anche di quella estetica, alle fasi più recenti dei rapporti tra il soggetto e i media elettronici
di Matteo D’Ambrosio
- Nella società contemporanea l’individuazione di nuove pratiche estetiche deriva dalle trasformazioni delle tradizioni segniche istituite dal regime della comunicazione sociale. I meccanismi di espansione di tale campo semiotico (interna, per complicazione morfologico-strutturale, ed esterna, per accrescimento delle occasioni di consumo) hanno accelerato i tempi di degradazione dei sistemi culturali predisposti dalle culture storiche, intensificando, con l’aiuto delle trasformazioni tecnologiche, la praticabilità di nuovi progetti di ricerca, che cooptano forme di produzione estetica un tempo ritenute irrimediabilmente distinte.
Questo processo ha portato alla costituzione di campi espressivi di configurazione completamente inedita:
Nella cultura di massa i processi di ‘contaminazione’ tra gli universi segnici … si realizzano a una altissima frequenza e velocità, legati come sono alle dinamiche dei modi di produzione industriale dei beni, che sono gli stessi modi della produzione dell’arte[1].
Anche i rapporti tra letteratura e tecnologia (in precedenza sostanzialmente limitati alla presenza della seconda tra gli apparati tematici della prima)[2] sono stati sensibilmente trasformati dalla progressiva diffusione delle apparecchiature di registrazione e trasmissione della parola, del suono e dell’immagine.
«Il campo espressivo denominato ‘poesia’ si è dimostrato il più disponibile all’uso di norme e modelli tipici dei più diversi settori della comunicazione di massa»[3] e dei loro dispositivi di significazione. Le ricerche di poesia elettronica[4], caratterizzate dall’uso del video e del computer, sono da considerare come un ulteriore contributo, sul versante della creatività, al dibattito sulla crisi del logocentrismo e sulle forme di sostituzione della scrittura lineare[5] e sequenziale. Un’accentuata attenzione per tipologie testuali dal caratteristico assetto plurilinguistico e multimediale è stata ampiamente testimoniata dalle poetiche dei movimenti d’avanguardia del Novecento, che hanno riformulato le nozioni di segno poetico – recuperandone in particolare gli aspetti plastico-iconici e acustici, intesi nella loro materialità – e di poesia, fino a farla coincidere, nelle forme avanzate, con un’arte generale del segno e della scrittura, che ha alla base un atto performativo. Nel corso del tempo, tali progetti sono diventati operativi nelle forme della loro praticabilità disposte dai linguaggi gestiti. Tutta la tradizione delle avanguardie è stata attraversata dall’utopia di un’arte totale, capace di esprimere – almeno metaforicamente – il progetto antropologico elaborato da un’ideologia estetico-letteraria, e di prefigurarne proiezioni future. Gli artisti contemporanei, usando apparecchiature come il video e il computer, sono oggi in grado di realizzare, di solito inconsapevolmente, alcune aspirazioni delle avanguardie storiche[6] (e soprattutto dei futuristi[7] e di Dada)[8] e delle neoavanguardie del primo dopoguerra; ad esempio, la creazione 1- di un’opera d’arte in cui interagiscano simultaneamente elementi linguistici appartenenti a sistemi linguistici e codici differenziati e 2- di nuove forme espressive, in cui la dimensione temporale funzioni come elemento di ampliamento della rappresentazione spaziale. Con l’istantaneità della trasposizione e la coincidenza sincronica di emissione e fruizione – Paul Virilio ha parlato in proposito di «ubiquità istantanea dell’audiovisivo» –[9], «i mezzi elettronici, consentendo di registrare i valori sonori, gestuali, visivi, di mimica, di comportamento, consentono il riscatto di tutti gli aspetti dell’esperienza verbale che riguardano il corpo e le sue manifestazioni»[10].
Letteratura elettronica e Videopoesia appartengono ad ambiti laboratoriali del lavoro creativo, minoritari e di collocazione inevitabilmente marginale; i loro centri di produzione e i loro circuiti di diffusione e consumo, le loro riviste e la loro critica specializzata hanno coinvolto soltanto un segmento dell’audience delle videoarti e del pubblico della poesia. Finora ne sono stati per lo più protagonisti ristretti gruppi di operatori, indipendenti per ideologie e strategie culturali, o singoli artisti isolati, che orientano la sperimentazione all’acquisizione di competenze solo in parte ascrivibili ai tecnici della comunicazione attivi nei centri di produzione istituzionali, dove si assolve principalmente al compito di riconfermare la credibilità del mezzo restituendoci quello che abbiamo già appreso del suo funzionamento.
Per quanto riguarda il lavoro letterario, l’intuizione della praticabilità di una poesia elettronica e post-alfabetica si riscontra in Italia, nel secondo dopoguerra[11], già con il Manifesto del movimento spaziale per la televisione, sottoscritto nel 1952 da una quindicina di artisti, tra i quali Lucio Fontana e alcuni artisti in quel momento particolarmente vicini alle ultime frange del movimento surrealista, vale a dire Enrico Donati, Gianni Dova, Roberto Crippa e Cesare Peverelli:
Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d’arte, basate sui concetti dello spazio, visto sotto un duplice aspetto: il primo, quello degli spazi, una volta considerati misteriosi ed ormai noti e sondati, e quindi da noi usati come materia plastica; il secondo, quello degli spazi ancora ignoti nel cosmo, che vogliamo affrontare come dati di intuizione e di mistero, dati tipici dell’arte come divinazione. La televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti. Siamo lieti che dall’Italia venga trasmessa questa nostra manifestazione spaziale, destinata a rinnovare i campi dell’arte.
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E’ vero che l’arte è eterna, ma fu sempre legata alla materia, mentre noi vogliamo che essa ne sia svincolata, e che attraverso lo spazio possa durare un millennio, anche nella trasmissione di un minuto.
Vale la pena soffermarsi sul passaggio immediatamente successivo:
Le nostre espressioni artistiche moltiplicano all’infinito, in infinite dimensioni, le linee d’orizzonte; esse ricercano una estetica per cui il quadro non è più quadro, la scultura non più scultura, la pagina scritta esce dalla sua forma tipografica[12].
Vi si prefigura dunque quell’espansione dei linguaggi della creatività che aveva già iniziato a realizzarsi nei decenni successivi. Il Manifesto si conclude con la seguente dichiarazione, caratteristicamente “tecnofila”:
Noi spaziali ci sentiamo gli artisti di oggi, poiché le conquiste della tecnica sono ormai a servizio dell’arte che noi professiamo[13].
Dal canto suo, Marshall Mc Luhan aveva prospettato, nel 1966, l’esigenza di un adeguamento artistico alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie:
Of course, in this electric age of computers, satellites, radio and television, the writer can no longer be someone who sits up his garrett pounding a typewriter[14].
Simili sollecitazioni, nelle filosofie estetiche integrate impegnate nella ridefinizione del concetto di “creatività artistica”, restano frequentemente accompagnate dalla constatazione delle modifiche sopravvenute, nei modelli della visione e nelle abitudini percettive della comunità, sotto l’effetto degli apparati formali istituzionali.
I processi transculturali hanno infatti modificato non solo la produzione e la trasmissione dell’arte, ma anche la sua ricezione e il suo consumo. L’uso di un particolare veicolo di informazione estetica comporta delle specificità che investono «non … soltanto lo stile, l’impatto ed anche il contenuto ma, in modo più pregnante, i modi e la programmazione di accesso dell’utente»[15].
Paolo Fabbri ebbe a sottolineare l’affinità (l’omologia) riscontrabile tra la progressiva affermazione dei modelli di lettura non contenutistica del testo poetico e la fruizione dell’immagine televisiva: nella lettura del primo la ricostruzione dell’organizzazione formale e l’individuazione delle relative correlazioni
costituiscono una specie di linguaggio secondo, paradigmatico, indipendente dalla linearizzazione dei contenuti. […] Succede esattamente così nella lettura delle immagini, specie nel caso della televisione […] contano le relazioni ritmiche, plastiche, configurative, cromatiche[16].
Dismisura e incommensurabilità sono caratteristiche primarie dei sistemi di comunicazione post-industriali. Nei media elettronici, l’accelerazione della trasmissione dei messaggi ha prodotto una «abbreviazione radicale del contenuto dell’informazione»[17], giunta fino alla non percepibilità dell’intervallo[18]; la proliferazione di immagini instabili, «la cui sola durata è data dalla persistenza retinica»[19], ha provocato «una trasmutazione delle rappresentazioni»[20] e una progressiva «derealizzazione del mondo sensibile e della sua esperienza»[21]: in questa dissipazione semantica, «ciò che scorre in modo sempre più veloce si percepisce in modo sempre meno preciso»[22]. Segni e figure del discorso visivo sono innumerevoli, e molto complesse le loro combinazioni. Anche nel lavoro creativo i nuovi media portano l’attività combinatoria «a un livello di potenza che lo spirito umano non è capace di attingere»[23]. La velocità e l’intensità dei meccanismi di fruizione che essi impongono sono sconosciute al nostro rapporto con la natura esteriore, ma si può ormai considerare come irreversibilmente sedimentata una cultura della fruizione estetica dell’immagine instabile (il cui ‘tempo di sensibilizzazione’ notoriamente «sfugge alla nostra coscienza immediata»[24] quando viene superata la soglia dei 20 millesimi di secondo), che Virilio ha definito «estetica della sparizione»[25]: «La fine della delimitazione … di ogni estensione fisica, a vantaggio della commutazione istantanea»[26], ha promosso un regime dell’incertezza percettiva e istituito una conseguente, drammatica limitatezza delle relative pratiche metalinguistiche.
Cospicue modificazioni antropologiche derivano dalla nostra sempre più massiccia esposizione a linguaggi dotati di una loro caratteristica autonomia. Una nuova fenomenologia dell’esistenza sembra associarsi, con considerevoli trasformazioni non solo della comunicazione interpersonale ma anche di quella estetica, alle fasi più recenti dei rapporti tra il soggetto e i media elettronici[27], in cui si realizzano una progressiva marginalizzazione del primo e la centralità culturale e ambientale dei secondi: il corpo del soggetto non sembra più definibile autonomamente, e per eccesso prossemico si colloca in questo campo semiotico come dato residuo, come protesi del mezzo elettronico, capace di deprivare il soggetto della memoria e dei suoi sistemi pragmatici, lasciandogli il compito dell’attivazione del proprio funzionamento, in condizioni di evidente dipendenza. Il medium sembra avviarsi così a diventare la sola presenza indispensabile a questo scenario, in cui uomini sempre più isolati si adeguano progressivamente alla loro massificazione solitaria, alla partecipazione coatta, secondo alcuni fino ad essere “programmati” dalle immagini tecniche.
A partire dal secondo dopoguerra i risultati dell’attività di laboratorio degli artisti, soprattutto per quanto riguarda le ricerche multimediali, sono stati spesso utilizzati dagli apparati della comunicazione sociale. Negli Stati Uniti la sperimentazione video è stata sponsorizzata con larghezza di mezzi, sin dall’inizio degli anni Sessanta, dalle istituzioni pubbliche e dalle reti televisive private[28], e in particolare dai gruppi decisionali e gestionali avanzati, disposti a confrontarsi con nuove proposte d’uso dei media perché resisi conto che avrebbero potuto con profitto riconvertire almeno una parte della produzione degli artisti ad altre economie di comunicazione[29].
Mentre le comunicazioni di massa si sono trasformate con accelerazione crescente, accentuandone l’egemonia sul sapere comunitario, mentre le modalità di circolazione degli oggetti estetici hanno subito una progressiva regolamentazione mercantile, dalle prime esperienze Fluxus[30] ad oggi si è affermata sempre più, nei ristretti ambiti della ricerca estetica avanzata, la figura del “poliartista”[31], che utilizza abitualmente mezzi, veicoli, supporti e linguaggi espressivi diversi, passando senza soluzione di continuità dal libro d’artista alla fotografia, dall’uso dei media di massa al cinema e alla performance, prospettando sempre nuove ipotesi creative e manifestando la continua esigenza di manipolare nuovi linguaggi, di sperimentare nuove scritture, di assicurarsi nuovi supporti[32].
2. Nella Videopoesia[33], settore esemplare della produzione creativa post-alfabetica[34], è stata prospettata l’integrazione – organica[35], più che per interferenza – del linguaggio video con i linguaggi e i codici propri del testo verbale di riferimento (solitamente di riconoscibile valore strettamente letterario), nonché della parte musicale e degli eventi fisici e spazio-temporali registrati[36].
Literary video differs from other video art in its base of a text … conceived within the traditions of literature and a contemporary sense of verbal possibilities. […] In literary video, the author becomes an artist, exploiting the … possibilities of the new medium. […] Literary video draws upon both literary materials, and video possibilities, and integrates them, rather than keeping them separate, so that word complements image and vice versa. The video medium itself is closer to books than film, because the television screen is small and perceptually distant, like the printed page, rather than large and enveloping, like the movie screen; and literary video is customarily “read” like a book, in small groups or alone. […] Literary video will not supersede the printed page but will become yet another possibility for heightened language[37].
Tra gli esempi di videopoesia per tali ragioni definita “derivativa” sono da ricordare Inferno di Tom Phillips, rivisitazione del poema dantesco prodotta da Channel Four, la videoinstallazione Room for St John of the Cross di Bill Viola[38], Film spectators are quiet vampires di Jordi Torrent e Walzer di GáborBódy[39].
L’espansibilità linguistica del mezzo video nell’intreccio tra «parola a densità forte della letteratura e dinamica complessa dell’immagine»[40] è stata esplicitata da Jean-Paul Fargier, autore tra l’altro di una nota opera dal titolo Joyce digital[41]:
L’energia della parola letteraria, della sua polisemia, può profondersi in immagini che stabiliscono delle relazioni salde come un testo (un testo letterario, per intenderci). […] L’immagine diventa metafora della parola. Ma la parola guida sempre la vita dell’immagine.
Uno dei primi videopoemi italiani è The Missing Poemis the Poem (1973) di Maurizio Nannucci, in cui si osservano due mani battere sulla tastiera di una vecchia macchina da scrivere; il foglio non raccoglie frasi, ma lettere e spaziature, tra arresti e sovrapposizioni. Al termine di ogni foglio una mano interviene all’interno del video (ma dall’esterno rispetto allo spazio dell’evento) e scrive, su di uno schermo interno (supporto di una scrittura riferita ad una pratica di scrittura che non produce un testo, the missing poem) il primo elemento del titolo: the; a questo punto ritorna l’azione di scrittura, fino al completamento dell’enunciato. Alla fine ci si accorge che mentre la camera inquadrava una registrazione video dell’azione di scrittura, lo spazio esterno permetteva di intervenire sul suo schermo.
Del 1975 sono Cancellazioni e Diario pubblico e segreto di Luigi Viola. In entrambi – ebbe a scrivere l’autore – «il tempo del video, pur agendo dall’esterno su una situazione determinata, registrandola, consente un approccio di ordine analitico con essa, introducendo un elemento di distanza critica rispetto all’evento, e consentendo la permanenza di un comportamento precario ed altrimenti concluso, come quello di tracciare segni o compiere gesti emblematici tra la folla o nel silenzio delle valli deserte»[42].
Le prime opere di videopoesia sono state prodotte, non solo in Italia, in maniera del tutto artigianale[43]: il primo periodo della storia della videoarte[44] si è sviluppato del resto all’insegna del “video povero”, amatoriale e anti-spettacolare. Un’ideologia della tecnologia leggera e “dolce”, democratica e alla portata di tutti[45], si è espressa nel gusto del documento e di un’estetica della “bassa definizione”. Non secondari i rapporti col Cinema d’artista, di cui il video sembrava raccogliere l’eredità sperimentale.
Negli anni Settanta rapporti privilegiati sono stati invece intrecciati con le nuove forme artistiche in quel periodo affermatesi: Happening, Performance, Body art, installazioni e Environmental Art, arte concettuale, linea analitica. Contemporaneamente si è registrata la nascita delle prime raccolte, di punti di diffusione, di centri specializzati, di sezioni e sale di museo, di un circuito di incontri e festival specifici.
Successivamente, mentre la sperimentazione veniva travolta dall’espansione del cinema elettronico, della videoregistrazione domestica e della grafica computerizzata, sono state introdotte tecnologie sempre più sofisticate; tra l’altro, l’uso del computer ha reso possibile la rappresentazione tridimensionale dell’immagine sintetica digitale, e il realismo virtuale delle strategie di simulazione (soprattutto il trattamento – analisi, scansione, combinazione – delle immagini, l’elaborazione delle variazioni e la risoluzione dei rapporti tra i codici formali e cromatici, e tra immagini e sonoro, la cui interazione programmata potenzia notevolmente l’efficacia comunicativa) produsse un sostanziale miglioramento qualitativo della produzione, permettendo di superare gli effetti di semplice giustapposizione e di istituire precise corrispondenze[46].
Ma già «alla fine degli anni Settanta l’impressione che la ricerca video fosse destinata … a una rapida obsolescenza era molto diffusa. […] A suffragare tale opinione valevano due dati: il progressivo declino delle ricerche metalinguistiche (dalla Body Art alla Performance) e ipertestuali (l’Arte Concettuale) a cui l’Arte Video era stata costantemente associata, e l’inarrestabile ritorno della “pittura per immagini”»[47]. Alla fine degli anni Ottanta si è potuto così affermare:
È possibile che l’innalzamento delle sofisticazioni video precluda in un futuro molto prossimo l’accesso degli artisti alla libera sperimentazione dei linguaggi dell’immagine elettronica[48].
Attualmente è condivisa l’impressione che la videoarte abbia consumato il suo effimero successo, fallendo il tentativo di affermarsi come forma artistica autonoma. La sua intrinseca fragilità l’ha portata ad uscire sconfitta dal confronto con i sistemi di comunicazione e con le esigenze del mondo dell’arte, nello stesso periodo radicalmente rinnovatesi. In più, è evidente che un ruolo non secondario nella sua espansione è stato appannaggio della sua capacità di attirare, ricaricandoli e sottoponendone a nuove verifiche logiche, procedimenti generali e campi espressivi (come la letteratura, e la poesia in particolare) certamente in corso di trasformazione, ma non estraniabili dalle proprie sedimentazioni storiche.
In mancanza di dati affidabili in tal senso, è difficile stabilire se oggi tali esperienze si stiano avviando ad un irreversibile declino oppure attraversino una fase di stallo, che potrebbe essere rapidamente superata sulla base di sollecitazioni provenienti dagli sviluppi delle nuove tecnologie.
Intanto, delle videopoesia si è da tempo cominciato a parlare come di una variante interna della videoarte, o di una estensione del campo espressivo denominato poesia. In queste ricerche, un’importanza decisiva ha rivestito l’indagine e lo sfruttamento delle caratteristiche tecniche e dello specifico formale del mezzo televisivo, nonché l’investigazione delle sue peculiari, numerose e possibilità espressive[49], che concorrono ad istituire la complessità linguistica dell’opera. Come ebbe a scrivere Roman Jakobson, «è l’uso intenzionale di nuove figure del discorso a portare all’estremo il potere creativo dei linguaggi»[50].
Molti videoartisti e videopoeti hanno sottolineato nei loro scritti che la nostra frequentazione del mezzo televisivo (come avviene anche per il Personal Computer e in genere per le nuove tecnologie) ci ha portato a valutare l’uso parziale che se ne fa come l’unico possibile[51].
Del resto il segno estetico introduce sempre una critica pratica delle coercizioni implicite nella nostra cultura del mezzo e dei limiti del mezzo stesso. Il video, ad esempio, produce immagini che si possono raccogliere solo nel corso della loro trasmissione (se prescindiamo dalle possibilità di videoregistrazione); ma i modelli culturali di esposizione ne hanno ormai dichiarato l’indifferenziazione e l’intercambiabilità.
È inoltre è molto difficile, per le discipline che si occupano della descrizione, dell’analisi e dell’interpretazione della produzione estetica, intervenire su queste pratiche creative. Proprio il lavoro innovativo degli artisti impedisce alle scienze umane di continuare a utilizzare gli stessi metodi; negli ultimi decenni esse sono particolarmente progredite anche grazie alle sollecitazioni delle ricerche d’avanguardia, le cui continue innovazioni hanno contribuito alla fondazione delle discipline linguistiche e semiologiche, come ebbe occasione di riconoscere Jakobson[52].
Del resto, gli ambienti scientifici che rivolgono la loro attenzione ad esperienze artistiche avanzate sono più disponibili a modificare i propri metodi, accettando la sfida tra creatività e metalinguaggio, in cui gli artisti interpretano il ruolo di “soggetti sensibili” della comunità.
L’espansione del testo poetico, al di là della pagina stampata e in prospettiva post-alfabetica, viene dunque realizzata, nella Videopoesia, attraverso l’utilizzazione di altri linguaggi[53].
L’artista Stephen Vincent fu invitato al workshop estivo del 1976 per realizzare un’opera, intitolata The Video-Poetry Workshop / Lake Placid, che avesse come base di partenza il suo poema The Ballad of Artie Bremer; il suo intento era quello di «to take the poem and the conception of the book out into a larger space and world»[54].La realizzazione prevedeva la partecipazione di due danzatori, un uomo e una donna, che agivano nello spazio in cui coesistevano o si alternavano diverse proiezioni: della figura dell’autore, che è presente, impegnato nella lettura del testo poetico; degli spettatori, che finivano col partecipare attivamente all’azione, visto che alcune camere ne registravano e ne proiettavano istantaneamente la presenza fisica; di interviste casuali, registrate in precedenza, a persone cui si chiedeva se conoscessero il protagonista e l’argomento del poema.
The work was a combination of a whole variety of informations, many of them colliding against each other, or finding resonance or harmony, in order to create an expanded whole. The ritual of pulling together the performance, collecting the street footage, interviewing the personae of the poem, pulling together the set, working with the dancers, making the master tape, creating the whole Bremerish world, I found to be an incredible expansion of the original poem[55].
Anche alla base della seconda video-opera di Stephen Vincent, Video Poetry in the Adirondacks[56], c’è un testo poetico molto semplice[57]. Ecco la descrizione del suo “trattamento”:
Weuseditas a script. Janice [l’autrice del poema] lay down on a patterned purple, red, & blue spread. I held a Porta-Pak camera (wideangle lens) very close to her face, left side up: profile. Filled the tv screen with that image. Al [King] & Keith put another camera on a tripod, pointed it at Al. White background. Both cameras fed into a mixer. We switched Al into negative; he became a white silhouette. We superimposed the images. Added music. Worked and reworked it. Timing. The tape begins: gray screen, music with voice of woman, distant & humming low […] The image fades up: an arabesque pattern on screen left moving into Janice’s face screen right. Stillness. Her eyes open. A white figure moves out of screen left, and walks toward her, enters her face, & disappears. Same figure re-enters, same pattern repeated. At the word “god” [il testo poetico si conclude infatti con i seguenti versi: “o god, that is horror. / I push the button: / Cynic.”] her face goes negative; I move my camera closer until only her eye is left large on the screen. She never speaks the last word; it appears in her face when she says “button”; it is liquid & constantly changing in motion. It grows larger with her eye & dominates the screen; you see her eye thru it. The process is called keying; the poem/tape ends there. And that is how/where we began. We stayed with basic process for several months. Using prewritten poems as scripts and video as a mean of visually acting out or interpreting the words. Change occurred mostly in the form of additions: dance & mime, cracked mirrors, slide projections. The emphasis was on video-poetry as a group process: four to ten people working together with the poet trying to develop a shared sense of the rhythm-meaning-breathing/voice of the poem. During this process the poet was not always or only on camera but present centrally as the speaker of the poem, as the person providing the rhythm-mood from which all other activity radiated outward: poet-poem as Seed[58].
Ricostruendo le varie fasi di realizzazione di un suo progetto dal titolo Energies, il critico Charles Matz descrisse le modificazioni intervenute nei rapporti tra il testo poetico di partenza e gli altri linguaggi:
In retrospect, it appears that the text practically vanished at first, then resurfaced, and now seems destined to take a leading part in the routine. Dance, ambient sound, lighting of the performers, all overwhelmed the text. Or so it appeared. Actually, the text as a starting point was always present in the various forms to which it gave rationale: the music, the choreography, the costumes. Of course, it was never completely obliterated at any stage. Some rhythms, some partially recognizable verbal sound did remain. At one point, a large portion of the verbal structure was removed, but eventually, as it proved more constant and more vitally interesting than the other forms deriving from it (dance, music, and the like) the text was restored and the other forms modified[59].
Tali altri linguaggi sono stati privilegiati sino a giungere a collocare la verbalità in una posizione di marginalità (almeno in senso linguistico-formale e meramente comunicativa) che sfiora la virtualità assoluta. Così avveniva, ad esempio, in Chorus di Enzo Minarelli, che fu così descritta da Vittorio Fagone:
Chorus è un videopoema che rinuncia alla parola e carica la forza dei suoi significati sulla frammentazione e iterazione di immagini-ritratto dell’autore stesso moltiplicate per scorci di architettura, intervallati da segni ortografici. Soggettività di espressioni emozionate e simboliche condensazioni di figure valgono tutte insieme a stabilire un flusso di immagini modulate come parole dentro lo schema di un’unica composizione. Prova di rigorosa concezione sperimentale, Chorus si distacca coraggiosamente dai moduli più famosi della “poesia elettronica” e dialoga, semmai, con l’esperienza ormai storica di quella scrittura d’immagine che è ormai definita “poesia concreta”[60].
Tra le strategie di moltiplicazione del coefficiente di informazione estetica del testo, almeno tre sono distintamente assicurate dalle prerogative del mezzo televisivo:
1- una nuova dimensione temporale. 2- la produzione di immagini non referenziali, non riferibili ad alcun aspetto della realtà esterna, anzi esclusivamente interne ad un fittizio universo “possibile”; 3- l’esibizione di una vastissima gamma di colori artificiali, che non trovano riscontro in natura e consentono esperienze percettive non ottenibili con altro mezzo. Si consideri ad esempio Per una videopoesia – concerTesto e improvVideazione per mixer, memoria di quadro e oscillo-spettro-vector-scopio di Gianni Toti, prodotto dal Centro di Ricerca e Sperimentazione programmi della RAI-TV. L’opera, che comportava una profonda trasformazione delle strutture sequenziali dei testi, della rappresentazione lineare e delle correlazioni spaziali, si segnalò anche per i risultati tecnici raggiunti; essa proponeva un flusso di variazioni contestuali e di singolari convergenze di colori, forme e figure geometriche in movimento, di musica e scritture elettroniche; con ritmo incessante e imprevedibile, la frenetica proliferazione dei linguaggi, le continue associazioni, scomposizioni e ricreazioni letterarie, visive e sonore producevano effetti di percezione, simbolici e di senso a volte sorprendenti, decisamente insoliti per le tradizioni letterarie delle culture storiche e solo parzialmente riconducibili alle videoculture di massa. Toti è convinto che la nostra attuale condizione postmoderna, forte dei vari strumenti elettronici, ci abitua particolarmente ad esperienze improntate sulla rapidità mentale, sull’afflusso dei vocaboli, sul loro incontro e scontro a ritmi frenetici, in una specie di fertile torre di Babele che porta alla confusione e alla proliferazione dei linguaggi[61].
Scriveva Toti:
Ho tentato la transizione alla proposta di poesie televisive in quanto tali, non comunicate dal mezzo televisivo o scritte con i precedenti mezzi della letteratura, realizzate invece dal medium come télos scrivibile e visibile solo nel suo spazio-pagina elettronico, e dunque nella sua autoteleonomia». Toti definisce le sue videopoesie come «organismi telecinetici, immagini testuali ma a scrittura non sequenziale, irrealistiche, irrappresentative, prive di referenti imitativi, logici, anzi logocentrici. E tuttavia iscrivibili in successioni temporali godibili ottico-acusticamente, divertenti come “giochi linguistici di oltrepoesia” contemporanea e insieme ucronica ancora. Al di là dell’intelligenza scritturale, la poesia non soltanto esiste ma può superare la percezione comunicativa tradizionale, usurata, saturata, ormai inesprimentesi, può già spalancare altri spazi interiori, favorire la fuoriuscita dell’immaginazione compressa o inibita…[62].
Si osservi in proposito che nelle tecno-immagini la mancanza di referenzialità implica una frattura nella struttura comunicologica tradizionale, sulla base dell’avvenuto effettivo pareggiamento espressivo tra natura e artificio. In questi casi siamo di fronte ad una segnica che appartiene esclusivamente al linguaggio del mezzo: già i colori producibili dal mixer[63]erano praticamente infiniti e la loro combinatoria in massima parte (e inevitabilmente) ci sfuggiva: le tecno-immagini (autogenerate dalla tecnologia elettronica) «non significano direttamente scene del mondo di fuori, ma … un programma all’interno degli apparecchi»[64].
Queste esperienze, che rientrano tra le forme della nuova comunicazione interumana, rimandano esplicitamente, nella loro autonomia espressiva, ad un loro omologo e particolare pensiero visivo. Realizzatasi la centralità del mezzo, il video sostituisce il cogito:
Con la moltiplicazione industriale delle protesi visive e audiovisive … si assiste ormai normalmente a una codificazione sempre più laboriosa delle immagini mentali, con tempi di ritenzione in diminuzione e senza grande recupero ulteriore, dunque a un rapido crollo del consolidamento mnesico […] lo sguardo e la sua organizzazione spazio-temporale precedono il gesto, la parola, il loro coordinamento, nel conoscere, riconoscere, fare conoscere[65].
Nella transizione da una fenomenologia della comunicazione all’altra, «le immagini percepite più rapidamente dovevano sostituire le parole»; la loro proliferazione è progressivamente giunta a provocare l’assuefazione di massa a «uno stato percettivo regressivo, una sorta di sincretismo»[66] (quello della percezione sintetica industrializzata), «in cui si sviluppa la minore resistenza del testimone all’immagine fàtica»[67], a una “modellizzazione della vista”[68] che corrisponde ad una sua “dissociazione”, a uno «scarto tra il sensibile e l’intellegibile»[69] «in cui l’eterogeneo succede all’omogeneo»[70].
Tali appaiono le possibilità compositive del mezzo elettronico, che ha continuato a produrre immagini tecniche dallo statuto linguistico solo parzialmente analizzabile sulla base di una teoria dell’iconismo[71].
L’immagine elettronica ha il potere di mutare all’infinito. La metamorfosi è una sua peculiarità, come l’immediatezza. […] lo schermo fa sorgere dal caos elettronico forme, esseri e figure, apparizioni senza deposito, senza sedimentazione e residui[72].
Nei casi in cui l’intensificazione porta alla “commutazione istantanea dell’emissione/ricezione” si registra l’interruzione e la sostituzione del flusso comunicativo, caratterizzato da una minima scansione temporale, e la relazione tra i fenomeni di linguaggio sfugge alle praticabilità di una semiotica cartesiana.
[1] M. Rak, Lettura e mercato della poesia sperimentale. Una casistica toscana, in Aa. Vv., La poesia in Toscana dagli anni Quaranta agli anni Settanta, a cura di F. Manescalchi e L. Marcucci, Messina-Firenze, D’Anna, 1981, p. 201.
[2] Sull’argomento è disponibile un’ampia bibliografia. Cfr. almeno W. Sypher, Literature and Technology, New York, Vintage Books, 1968; J. Benthall, Science and Technology in Art Today, New York, Praeger, 1972; The Myths of Information: Technology and Postindustrial culture, edited by K. Woodward, Madison/Wi., Coda Press, 1980.
[3] M. Rak, op. cit., p. 202.
[4] Cfr. M. D’Ambrosio, Une sémiotique à venir pour la poésie informatique, in Art et multimédia, ”Ligeia”, XVI, n. 45/48, Paris, juillet-décembre 2003, pp. 98-104; in italiano in OLE Officina di Letteratura Elettronica. Lavori del Convegno [Napoli, PAN, gennaio 2011], a cura di L. Masucci e G. Di Rosario, Napoli, Atelier Multimediale editrice, 2011, pp. 181-193 (col titolo Per una critica semiotica della poesia informatica); in inglese ivi, pp. 194-205 (col titolo Toward a semiotic critique of Computer poetry); Id., Per una storia della Computer Poetry. Testi, poetiche e critica dei primi anni Sessanta, in Arti e tecniche del Novecento. Studi per Mario Costa, a cura di V. Cuomo e I. Pelgreffi, Tricase, Kaiak Edizioni, 2017, pp. 75-102.
[5] «Da più di un secolo si può percepire questa inquietudine della filosofia, della scienza, della letteratura, le cui rivoluzioni debbono tutte essere interpretate come scosse che a poco a poco distruggono il modello lineare» (J. Derrida, Della Grammatologia; cit. in L. Pignotti, L’immagine spaziale, nel catalogo della mostra Figura/Scrittura, Roma, Carte Segrete, 1981, pp. 18-19).
[6] «Il sogno wagneriano di un’arte totale in cui musica e arte visiva, teatro e danza, tempo spazio e suono vivono un’unica sinestetica realtà, appare oggi più prossimo di quanto poté essere immaginato dalle avanguardie espressioniste, futuriste e dadaiste» (V. Fagone, L’immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 60).
[7] «La rivelazione delle ambizioni della tecnica è data dai futuristi italiani […] si tratta di una rivelazione che definirei sublime, … positivista. È l’illusione del progresso che si rivela attraverso il Futurismo. Per Marinetti la velocità è una meraviglia, … la forma di una divinizzazione dell’uomo tecnico […] Marinetti si compiaceva del fatto che la velocità stermina il mondo, ma la sua era un’immaginazione» (P. Virilio, La macchina che vede. L’automazione della percezione, Milano, SugarCo Edizioni, 1989, pp. 168-169). Nel Manifesto futurista La Radia Marinetti proclama entusiasticamente: «Possediamo ormai una televisione di cinquantamila punti per ogni immagine grande su schermo grande»; «I futuristi italiani ritengono che gli ultimi mezzi d’azione sono al tempo stesso mezzi di rappresentazione: ogni veicolo o vettore tecnico è un’idea, una visione dell’universo più che la sua immagine. Nuova fusione/confusione della percezione e dell’oggetto che più prefigura le performance videografiche e infografiche della simulazione analogica, l’aeromitologia italiana, con l’aeropoesia … seguìta … dall’aeroscultura e dall’aeropittura, rinnova il mito tecnico delle origini, l’aereo o ancora meglio l’idrovolante che soppianta il vascello della mitologia marittima»(apparso per la prima volta sul quotidiano “La Gazzetta del Popolo” di Torino il 22 settembre 1933 e ora in Nuovi Archivi de Futurismo, II: Manifesti programmatici, teorici, tecnici, polemici, a cura di M. D’Ambrosio, Roma, De Luca Edizioni d’Arte, 2019, p. 455).
[8] «All’inizio del XX secolo, con i futuristi e Dada, … il gioco dialettico fra arti e scienze scompare progressivamente a profitto di una logica paradossale che prefigura quella, delirante, della tecnoscienza» (P. Virilio, op. cit., pp. 69-70).
[9]Ivi, p. 22.
[10] R. Barilli, in Tutte le arti tendono alla performance, V settimana internazionale della performance, Ravenna-Bologna-Reggio Emilia-Rimini-Piacenza, maggio-giugno, 1981; cit. in Perverso Controverso, a cura di M. D’Ambrosio, Milano, Shakespeare & Company, 1981, p. 103.
[11] Ma cfr. F. T. Marinetti, Il teatro aereoradiotelevisivo. Manifesto futurista a Italo Balbo (“Gazzetta del Popolo”, 15 gennaio 1932, p. 3 (ora in Nuovi Archivi del Futurismo, II: Manifesti programmatici, teorici, tecnici, polemici, cit., p. 410) e il cit. Manifesto della radio.
[12] Nostra sottolineatura.
[13] Firmato da A. G. Ambrosini, A. Burri, R. Crippa, M. De Luigi, De Toffoli, E. Donati, G. Dova, L. Fontana, G. Giancarozzi, V. Guidi, B. Joppolo, G. La Regina, M. Milani, B. Morucchio, C. Peverelli, Tancredi, V. Vianello. Il Manifesto, datato “Milano, 17 maggio 1952”, è citato tra l‘altro nel catalogo della personale di Lucio Fontana al Palazzo dei Leoni di Messina [dicembre 1986 – gennaio 1987], Milano, Mazzotta, 1986, p. 100.
[14] Cit. in R. Kostelanetz, Literary Video: A Manifesto, “Performing Arts Journal”, I, n. 1, Spring 1976, p. 62; poi ristampato in New Artists Video.A Critical Anthology (edited by G. Battcock, New York, E. P. Dutton, 1978, pp. 40-42) e, col titolo Video letterari (1975-1984), in “Lotta Poetica”, n. 1, Verona, gennaio 1987, pp. 101-105 (nuova redazione, con modifiche e integrazioni).
[15] D. de Kerckhove, Alcuni fondamenti psico-tecnici di un’estetica della comunicazione, nel catalogo Artmedia. Rassegna internazionale di estetica del video e della comunicazione, a cura di M. Costa, Salerno, Opera Universitaria, 20-25 maggio 1985, p. 27.
[16] P. Fabbri, Comunicazione sociale, telematica e nuovi linguaggi, in La città telematica. Su nuovi linguaggi e comunicazione sociale, a cura di L. Capulli, Ancona, Il Lavoro editoriale, 1983, p. 100.
[17] P. Virilio, op. cit., p. 21.
[18] Si pensi al flusso di immagini prodotto dalle telecamere ultrarapide, in grado di elaborare un milione di immagini al secondo.
[19] P. Virilio, Lo spazio critico, Bari, Edizioni Dedalo, 1988, p. 23. E a p. 35: «La durata è fatta da istanti senza durata (percettibile)».
[20]Ivi, p. 23.
[21]Ivi, p. 42.
[22]Ivi, p. 61. L’immaterialità formale dell’immagine televisiva è dovuta al fatto che il suo elemento semplice (il pixel) è privo di una propria accertata materialità, e che il tempo di durata della sua trasmissione risulta altresì impercettibile.
[23] A. Moles, Prospettiva di una cultura elettronica e creatività artistica, nel catalogo Artmedia, cit., p. 35.
[24] P. Virilio, Lo spazio critico, cit., p. 36.
[25]Cfr. P. Virilio, Esthétique de la disparition, Paris, Balland, 1980.
[26] P. Virilio, Lo spazio critico, cit., p. 59.
[27] «Gli effetti delle tecnologie non si producono a livello dei concetti e delle opinioni, ma essi modificano il rapporto dei sensi e dei modi di percezione in maniera continua senza incontrare la minima resistenza. Il vero artista è la sola persona capace di affrontare impunemente le nuove tecnologie in quanto la sua vera capacità consiste nel prendere coscienza delle modificazioni delle percezioni sensorie» (M. Mc Luhan, cit. in D. de Kerckhove, op. cit., p. 29).
[28]Cfr. The New Television: a Public/Private Art, edited by D. Davis and A. Simmons, Cambridge/Mass., The M.I.T. Press, 1977.
[29]Già R. Berger proponeva di distinguere tra “microtelevision” (l’uso artistico del video), “meso-television” (le stazioni che servono piccole comunità), “macro-television” (quelle che coprono un intero territorio nazionale) e “mega-television” (le trasmissioni via satellite) (nel suo Intermedia: Process to a Transculture, in Aa. Vv., Theoretical Analysis of the Intermedia Art Form, Experimental Intermedia Foundation at the Salomon R. Guggenheim Museum, Buenos Aires, C.A.Y.C., s.d. [ma 1979], p. 5.
[30]Cfr. almeno i cataloghi Fluxus. Selections from the Gilbert and Lila Silverman Collection, edited by C. Phillpot and J. Hendricks, New York, The Museum of Modern Art, 1988; Fluxus nella sua epoca. 1958-1978, a cura di G. Bonomi e E. Mascelloni, Colognola ai Colli, Adriano Parise, 2000.
[31] Uno dei poliartisti assiduamente partecipanti a rassegne di Videopoesia è stato lo statunitense Richard Kostelanetz (autore, tra l’altro, di Three Prose Pieces – Plateaux, di Excelsior e Recyclings – e di Openings & Closings, una raccolta di racconti formati da una sola frase).
[32] In questo senso il video realizza una vera e propria «smaterializzazione del manufatto artistico convenzionale» (V. Fagone, op. cit., p. 164).
[33] Tra i primi interventi sull’argomento cfr. E. Minarelli, Tecnica y poetica de la Videopoesia, nel catalogo della manifestazione I. Bideoaldia, Toulouse, Octubre 1987, p. 9.
[34] «Con l’orecchio e con l’occhio mobile, noi abbiamo abolito la scrittura, la metafora acustico-visiva specializzata che aveva fissato la dinamica della civiltà occidentale» (M. Mc Luhan, cit. in S. Luginbuhl e P. Cardazzo, Videotapes. Arte tecnica storia, Padova, Mastrogiacomo Editore, 1980, p. 7).
[35] In A 5’ writing (1977) di Luigi Viola, ad esempio, il video veniva utilizzato «come supporto o strumento primario di scrittura. […] Le caratteristiche del video intervengono direttamente fin dall’inizio alla formazione del testo risultando organiche ad esso. Vale a dire che le peculiarità linguistica e semantica del “testo” si legano alle caratteristiche tecniche del mezzo» (L. Viola, Forma e contenuto della poesia attraverso il corpo e il video, in Arte come impegno sociale. La poesia, a cura di S. Bernardi, S. Togni e M. G. Lutzemberger, Trento, Edizioni u. c. t., 1980, p. 71). Ecco una scheda dell’opera, cortesemente fornita dall’autore: «Quattro velocità della scrittura, associate a quattro movimenti che diventano sempre più forti. La parola ritorna ai gesti e il corpo torna a vivere. Il tempo reale della scrittura sullo schermo fa coincidere il tempo dell’azione poetica col tempo del lettore, riflettendo il ritmo biologico della vita nell’esperienza del linguaggio della scrittura» (nel catalogo Artmedia, cit., p. 92).
[36] Vanno inoltre considerati i video di documentazione, abitualmente dedicati alle azioni poetiche, che nei casi migliori partecipano «al momento creativo, impegnando un’estensione visiva e temporale del fenomeno indagato» (V. Fagone, op. cit., p. 37). Cfr. ad esempio Tra l’ardesia la poesia, a cura di E. De Miro, dedicato ad un festival di poesia svoltosi a Genova nel 1980: «Ad una prima parte, in cui si tentava di produrre direttamente un discorso poetico mediante associazioni di immagini visive, di testi verbali e di immagini sonore, seguiva una serie di interviste a poeti celebri, come Ginsberg, Orlowski, Enzensberger ed altri» (B. de Miro d’Ajeta, Esperimenti di videopoesia, nel suo La scena lo schermo e i simulacri, Foggia, Bastogi, 1984, pp. 151-152).
[37] R. Kostelanetz, op. cit., pp. 62-64.
[38] Ivi, p. 127.
[39] Cit. in V. Fagone, op. cit., p. 126.
[40] Cfr. ivi, pp. 145-146.
[41]Joyce digital è un video del 1984 su Finnegans Wake, che aveva tra gli interpreti John Cage, Merce Cunnigham e NamJunePaik, e assumeva come testo di riferimento una poesia del cantante pop Jim Morrison (cfr. “Video Congress”, n. 9, Koln, 235 Studio, 1986, p. 20).
[42]L. Viola, Forma e contenuto della poesia attraverso il corpo e il video, cit., p. 72.
[43] La nascita della video arte viene fatta coincidere con la “mostra di musica e televisione elettronica” allestita da Nam June Paik nel 1963 alla Galleria Parnass di Wuppertall.
[44] Ad essa corrispose la commercializzazione della prima telecamera portatile, il portapack Sony.
[45] Radicale in questo caso l’opposizione agli apparati istituzionali della comunicazione televisiva, divenuta forma di omologazione del consenso e strumento di organizzazione del consumo culturale.
[46]Il declino su scala internazionale della videoarte corrisponde a questa fase, caratteristicamente non più anti-televisiva, ma aperta al confronto tanto da poter essere definita come Television Art; della TV vengono in particolare ripresi i modelli narrativi.
[47] V. Fagone, op. cit., p. 157.
[48] Ivi, p. 176.
[49] M. Benedikt sottolineò come l’aspirazione al raggiungimento della spontaneità in poesia trovi un’analogia con la flessibilità del video, capace di ben soddisfare le esigenze di quell’“estetica dell’immediatezza” oggi ampiamente rappresentata anche in poesia (cfr. il suo Poetry and Video Tape: a Suggestion, in Aa. Vv., New Artists Video, cit., pp. 7-10).
[50] Cit. da G. Toti in I mixerabili, “CinemaSessanta”, XXII, n. 139, maggio-giugno 1981, p. 13.
[51] L’opera di Nam June Paik, ad esempio, costituisce nel suo complesso uno straordinario progetto di estensione e superamento dei limiti e delle frontiere convenzionalmente attribuite alle tecniche e ai linguaggi del video. Cfr. in proposito almeno il catalogo, a cura di J. Hanhardt, della sua personale (1982) al Whitney Museum of American Art di New York.
[52] «La spinta più forte ad un nuovo orientamento nell’approccio alla lingua e alla linguistica fu probabilmente almeno per me l’impetuoso movimento artistico dell’inizio del XX secolo» (R. Jakobson, Retrospect, postfazione al primo volume dei suoi Selected Writings dal titolo Phonological Studies (The Hague, Mouton, 1962); in italiano in K. Pomorska, Roman Jakobson: Lingua, arte e scienza d’avanguardia, in R. Jakobson. Magia della parola, a cura di K. Pomorska, Bari, Laterza, 1980, pp. 155-156).
[53]Cfr. S. Vincent,The Video-Poetry Workshop / Lake Placid, in The Poetry Reading. A Contemporary Compendium on Language & Performance, edited by S. Vincent and E. Zweig, San Francisco, Momo’s Press, 1981, pp. 212-216.
[54] Ivi, p. 213.
[55] Ivi, p. 215.
[56] Cfr.ivi, pp. 221-234.
[57]Ivi, p. 221.
[58]Ivi, pp. 223-224.
[59]Ch. Matz, Open-Ended Video Poetry: a report of one experience, “Testuale”, II, n. 2, Milano, gennaio 1985, pp. 52-53.
[60] V. Fagone, Brunone, Marangone e Minarelli. Tre artisti e il video, “Video Magazine”, VII, n. 45/46, 1987; poi nel suo L’immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 199. Cfr. anche la dichiarazione del videopoeta americano Dan Reeves, autore di un’opera, Amida (1983), che egli considerava «an attempt to create poetry without the use of written or spoken language» (“Video Newsletter”, New York, Electronic Arts Intermix, s.d. [ma 1984], p. 2).
[61] R. Barilli, op. cit., p. 103.
[62]Intervista a Gianni Toti, nel catalogo Ischiaperta ‘81, Ischia, settembre 1981, pp. 5-6.
[63] Nei casi risalenti agli anni Settanta si trattava di opere realizzate usando il mixer, tentando di riconoscerne e sfruttarne le molteplici opportunità linguistiche e stilistiche. Il mixer assicurava infatti particolari possibilità di orientamento, di segmentazione, di sovrapposizione e di combinazione degli elementi semplici del linguaggio visivo.
[64] V. Flusser, Testo-Immagine, riassunto della conferenza tenuta il 3 febbraio 1984 presso l’Institut Français di Napoli, dattiloscritto; per gentile concessione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, p. 7.
[65] P. Virilio, Lo spazio critico, cit., p. 23; «L’uomo è racchiuso in un regime di temporalità per il quale, al di là delle 60 immagini al secondo, la visione diventa subliminale, ciò che appare non può più essere letto perché va troppo veloce» (ivi, pp. 193-194).
[66]Ivi, p. 26.
[67] Ivi, p. 56.
[68]Cfr. ivi, p. 38.
[69]Ivi, p. 33.
[70] Ivi, p. 27.
[71] «Le immagini tradizionali sono bidimensionali, astratte dalla tridimensionalità, mentre le immagini tecniche sono bidimensionalità concretizzata a partire dalla zero dimensionalità» (ivi, p. 5). Secondo Flusser le immagini tecniche costituiscono il quarto mezzo di comunicazione visiva della comunicazione umana (dopo gli oggetti, le immagini e i testi).
[72] R. Berger, cit. in V. Fagone, op. cit., p. 174.
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