Questo è un film che ti obbliga a confrontarti con il vuoto – e credo che ci sia riuscito non bene, benissimo 

di Marco Giacosa / Marcello Gallucci / Maria Campanaro – Claudia De Carlo

SU HABITAT

di Marco Giacosa

Ho visto Habitat – Note personali al Torino Film Festival del 2014, non conoscevo Emiliano Dante, era uno spettacolo delle 14 e finii in sala quasi per caso, incuriosito dal titolo e dalle poche righe con cui sul programma veniva raccontato il film; e subito me ne innamorai.

Da quel giorno l’ho visto tre volte, ogni volta incantato come la prima. Dovendo dire perché ci si innamora – di qualcuno, di un’opera – sono convinto sia inutile parlare dei massimi sistemi, perché quando ci si innamora di qualcuno o di un’opera questo accade sempre per dei dettagli.

1 – Habitat – Note personali parla di persone: Paolo, Roberta, Alessio, Gemma, Antonio, Sabrina, Valentina, Emiliano. Il pittore, il venditore di case, la commessa, qualcuno più sorridente, qualcuno più crepuscolare. Siccome il girato copre qualche anno, la storia delle persone non è una fotografia ma è un flusso: c’è un inizio e un “come è andata a finire”. Parlare del terremoto facendo raccontare alle persone l’impatto del terremoto sulle loro vite, in un’ottica dinamica: così si rende universale il particolare.

2 – Il bianco e nero. «Una volta in immagine i colori della natura esprimono una serenità che io non sento affatto. La serenità del verde delle piante, del blu del cielo. No, il nostro non è un dramma della natura, il nostro è un dramma urbano», dice il regista. Per questo usa i colori bianco e nero e grigio. C’è un immagine, potentissima, delle gru nel cielo dell’Aquila, che è un cielo grigio piombo, perso, che mi ha evocato certe fotografie dei grandi reporter di guerra quando documentano un istante archetipico sul campo di battaglia: l’Aquila come un paesaggio post bellico, in comune la colpa dell’uomo, che non è tanto quella di aver reso macerie – quanto può l’uomo di fronte al terremoto? – quanto quella di non averle tolte; le gru significano un palazzo diroccato che ogni tanto viene abbattuto e un palazzo nuovo che ogni tanto spunta, a caso.

3 – Silvio Berlusconi. In un filmato trasposto sul film, il presidente del consiglio dice che avrebbero donato biancheria con le iniziali, tempo di fare la conoscenza e avrebbero fatto trovare sui letti delle famiglie che si insediavano nelle case del Progetto C.A.S.E. questo regalo di benvenuto, le inziali del nome e del cognome sulla biancheria. I terremotati aquilani sono i primi  d’Italia a non passare per i container, perché i container non sono dignitosi. Dante rileva le conseguenze di un inappuntabile giochetto logico: se i container non sono dignitosi, e nei container fai la figura del terremotato, per essere dignitoso non devi essere quello che sei. «Ognuno di noi è un frammento lontano», disperso nei blocchi sparsi a raggio attorno alla città dell’Aquila, a una quindicina di chilometri dal centro. Anime in movimento, sempre al volante, che non sono mai da nessuna parte.

4 – Il centro commerciale. «Comunità è la possibilità di incontrarsi casualmente», dice il professor Ciccozzi, antropologo, comunità è avere dei percorsi da fare a piedi. Emiliano va al centro commerciale «non per comprare qualcosa, ma per vedere qualcuno». La depressione è una cosa comune alle persone che si raccontano nel film: più o meno diagnosticata, più o meno latente, offre agli uomini e alle donne traumatizzate un ventaglio di sfumature, dall’istinto suicida a un’implacabile inquietudine (che porta, ad esempio, ad andarsene dall’Aquila e al tornare, in movimentazioni compulsive senza apparente motivazione).

5 – La speranza. Agli aspiranti produttori che chiedevano al regista di mettere “speranza”, nel film, perché senza speranza ben difficilmente si sarebbero trovati patrocini e fondi, Emiliano Dante ha sempre risposto che la speranza non la vedeva, per cui non la metteva. Ma poi un giorno l’ha trovata, proprio al centro commerciale, e l’ha messa. Se gli uomini e le donne del film sono, dopo il terremoto, una somma di solitudini, due di quelle solitudini si sono elise ed è nata una coppia: Emiliano e Valentina, che si sono conosciuti proprio lì, al centro commerciale; e oggi sono marito e moglie.

“HABITAT” E IL VUOTO

di Marcello Gallucci

Questo film è spettacolare. Rispetto alla maturità di Emiliano Dante, che già in Payphones era alta, questo film è straordinario. Coglie un rapporto tra emozione e macchina da presa che trasferisce in sequenze minute. Fa brillare in queste sequenze segnali che, come delle note a piè di pagina, integrano il vissuto in maniera assolutamente armonica.

Io sono debitore ad Emiliano di una lettura che credo sia stata la più lucida tra quelle proposte immediatamente dopo il terremoto: Il suo diario, pubblicato a distanza di pochissimi giorni, quando le ferite erano fresche e dolorose. Nel momento in cui tutto era più difficile da elaborare, ho trovato nelle pagine di Emiliano un’espressione di una precisione crudele. Ritrovo adesso, a distanza di anni, nel film che state per vedere, la stessa precisione trasposta nei termini di un bianco e nero entusiasmante.

Letteralmente entusiasmante. Il citare non tanto il suo lavoro cinematografico precedente, ma la scrittura ha un senso, perché questo è un film scritto. E’ una confessione dolorosa, come tutte le confessioni, in cui il film si legge. L’impressione è assolutamente personale, ma questo film non si guarda solo, perché le immagini si prestano a una lettura che è sostanza di diversi piani.

Il piano personale, la rivisitazione personale, la lettura dei vari momenti in cui si articola la storia, il modo in cui le storie si riallacciano tra di loro. Questo film è in qualche modo una proiezione di un io che diventa sempre più evanescente. Usando un termine secco direi che appartiene a quel campo che è l’ermeneutica della soggettività. L’interpretazione di se stessi.

Ed in questo si riallaccia a lavori precedenti come Payphones e The Home Sequence Series, nel momento in cui attraverso la macchina da presa Dante è la sua stanza. Oggi, però, la sua stanza non c’è più. Questa esperienza, quello che drammaticamente e in modo spietato ci costringe a guardare, che ci costringe a vivere, diventa sempre più un’esperienza del vuoto. Un vuoto strano, fatto di una raggiera che costruisce e ricostruisce nel corso del film, con indicatori di direzioni, con le frecce. Un vuoto che è forse non tanto un vuoto della città quanto vuoto dei rapporti che la città rendeva possibili. Nel film, c’è proprio un intervento di Antonello Ciccozzi estremamente preciso rispetto al vuoto sociologico che si è venuto a creare dopo il terremoto. Riflettere sul vuoto però è impegnativo. Da questa mattina mi girava per la mente una frase di cui ricordavo e non ricordavo l’autore. Quando sono riuscito finalmente a ritrovarla devo dire che un po’ mi tremavano le gambe: «E poi, trovandomi assolutamente sprovvisto e vuoto di qualsiasi altra materia mi sono offerto da me a me stesso come argomento e soggetto». Questo è Montaigne in apertura dei suoi saggi. E’ chiaro che come parallelo diventa vertiginoso. Però di fronte al vuoto Dante diventa soggetto a se stesso, in una drammaturgia filmica che è in realtà molto articolata, ritmata molto bene.

E’ una storia che si racconta da sola e che esiste nel vuoto. L’autore entra come soggetto e poi scompare. Quindi questo soggetto che si offre a se stesso per un racconto è qualcosa di evanescente. Fatto sta che ogni volta che uno dei protagonisti delle sue storie entra in contrasto con la città, con i non luoghi della città, scompare, è trasparente. L’ha costretto a diventare translucido. Ha fatto in modo che le rovine e l’ossessività dei non luoghi lo permeassero. Lo attraversassero.

Questo è un film che ti obbliga a confrontarti con il vuoto – e credo che ci sia riuscito non bene, benissimo. Per un mistico il vuoto è la condizione per un’esperienza religiosa. L’ateo ti dice che, per poter avere l’esperienza mistica, è necessario estinguere anche quella parvenza di scintilla divina. L’ateo è quello che non si preclude l’esperienza mistica, ma che mette l’esperienza mistica all’interno di una dimensione ancora più acuta del vuoto. Quando il nulla è assoluto, allora può nascere una visione diversa. E a me sembra che questo contenga la chiave di lettura del film. Che non è un film pessimistico. E’ coraggioso. E per essere coraggioso deve farci vedere da un punto di vista molto particolare qual è il segreto (non il senso, il segreto) della realtà che stiamo vivendo. La scelta del bianco e nero, a questo punto, era l’unica possibile. La scelta di avere questo accavallamento in cui i tempi si mischiano, in cui la carrellata del viaggio in macchina diventa un attraversamento di epoche diverse è molto sottile e, direi, molto wellesiano. Tra le tante cose che ho visto sul terremoto io credo francamente che questa sia la migliore. Ed è quella che mi obbliga a fare i conti con me stesso.

Portfolio (Emiliano Dante, “L’Aquila Mandala” – Mostra fotografica virtuale)

Questo slideshow richiede JavaScript.

CINEMA URBANO (Intervista a Emiliano Dante)

di Maria Campanaro e Claudia De Carlo

D – Qual è secondo te il rapporto tra cinema e città?

E. D. – Un certo cinema di un certo periodo storico ha chiaramente forgiato l’immaginario della città e il modo in cui la città si è percepita. Pensate Fellini con Roma, in La Dolce Vita. Chiaramente il cinema che nel mio piccolo faccio non ha questo tipo di potere. Non riguarda l’immaginario collettivo – o comunque casomai lo subisce, non lo forgia. Chiaramente l’immaginario collettivo è dato dalla collettività – e quindi è legato alla distribuzione. Il mio cinema non può creare immaginari. Può riflettere, quello sì. Spero che lo faccia. Che rifletta sulla città – o meglio che rifletta sull’esistenza. Sullo spazio che si abita in un dato momento storico.

D – Tu quindi fai cinema già sapendo a chi ti rivolgi? 

E. D. – Beh, sono consapevole di non rivolgermi a platee enormi, da cinepanettone. E’ inevitabile. Il documentario con più pubblico ha meno pubblico di una fiction media. 

D – Come può la città diventare parte della narrazione di un film? Come può essere attrice?

E. D. – Nel caso di Habitat è inevitabile. Sono aquilano e ho fatto un film su L’Aquila post sismica. Chiaramente la città ha un ruolo enorme nella formazione del sé, della propria percezione del mondo, dell’identità individuale. Anche parlando solo di persone, senza occuparsi di urbanistica, la città diventa comunque il dato centrale del film. E io parlo solo di fatti personali, nel mio film. Ma è chiaro che i nostri fatti personali sono in strettissima relazione con il nostro habitat. E’ un habitat che è sia storico, come vissuto, che materiale, come realtà che sei costretto a vivere. Il cuore è capire in che misura l’habitat ti condiziona e in che misura riesci ad emancipartene, a rielaborarlo. 

D – Il cinema può influire sulla percezione che noi abbiamo della città?

E. D. – Assolutamente sì. Il cinema come qualsiasi altra cosa, come un libro o un servizio fotografico. Può far riflettere. Se invece pensi all’immaginario collettivo, credo che non ti puoi rivolgere al cinema contemporaneo, come ho detto. Il cinema contemporaneo non forgia immaginari, piuttosto li subisce. Questo se non altro perché non ha più la dimensione collettiva che aveva il cinema del Novecento. Il cinema non filtra più verticalmente in tutti gli strati della società. Non ha più lo stesso valore sociale. In questo il cinema è stato rimpiazzato da facebook, da youtube, da queste cose.

D – Quindi il cinema è stato sorpassato dagli altri media?

E. D. – Non direi sorpassato, perché credo che il cinema non sia sorpassabile, per certi aspetti. E non credo che un gattino su YouTube valga Berry Lyndon, anche se fa più spettatori. Il cinema sta ridefinendo i propri orizzonti, ecco.

D – Spesso i registi sono un po’ negativi nell’immaginare la città del futuro. Tu come la pensi? Come la immagini?

E. D. – Questa è la domanda di un architetto, giusto?

D – Sì.

E. D. – Il regista tende a non porsi nell’ottica di chi costruisce una città, ma di chi costruisce una narrazione. Il regista tende a vedere la città per immagini. Quindi la visione della città del futuro che tende a vedere un regista – e immagino un regista più importante di me – è tendenzialmente una città letteraria e bidimensionale. Ed è una città del futuro che serve a descrivere le latenze del presente. 

D – Abbiamo notato che gli architetti vedono la cosa in modo più concreto e tendono ad essere più ottimisti, mentre i registi tendono a vederla in termini catastrofici. 

E. D. – Con tutti i limiti di un discorso che evidentemente tende alla generalizzazione, credo che faccia parte del mestiere. Se un architetto volesse fare l’architetto portando avanti l’idea di un futuro catastrofico e terribile, evidentemente avrebbe qualche problema ad esercitare la professione e tenderebbe a sminuire l’importanza del proprio lavoro. Al contrario il regista è attratto dalla catastrofe, perché è professionalmente attratto dal dramma e dal conflitto. Perché lì c’è la narrazione. La città ideale per il cinema è una città conflittuale. Se vi regnasse l’utopia e l’armonia, non avresti un film. Se la Los Angeles di Blade Runner fosse un posto stupendo il film non esisterebbe.

D – Molti film, come La Grande Bellezza, raccontano una città difficilmente esperibile. Quindi forse esiste ancora una dimensione legata all’immaginario.

E. D. – Mi piace che tu abbia citato La Grande Bellezza, dopo che io ho citato La Dolce Vita, perché mostra tutta la differenza tra il cinema di oggi e quello del Novecento. La Dolce Vita forgia l’immaginario di Roma. Lo riflette, ma di fatto lo costruisce. La Grande Bellezza riflette La Dolce Vita. E’ l’adattamento dell’immaginario de La Dolce Vita alla Roma di oggi. E’ chiaro che è una Roma cinematografica, perché si tratta di un cinema ispirato al cinema, non alla città. E’ legittimo, sia chiaro. Un film può riflettere su quello che gli pare.

[Intervista realizzata dopo la presentazione di Habitat a Cinema Fuori Raccordo, novembre 2015]


Habitat: la partecipazione a festival internazionali

Istanbul International Architecture and Urban Film Festival, international competition (Turkey) / Annecy Festival Du Cinéma Italien, documentary competition (France) / Arquiteturas Lisboa Film Festival, International competition  (Portugal) / Guangzhou International Documentary Film Festival, international competition, Semifinals (China) / Intimate Lens Ethngraphic Film Festival, concorso internazionale (Italy) / Kisa Film Koektifi, in cartellone (Turkey) / Millennium International Documentary Film Festival, Panorama (Belgium) / 6th Salaya International Documentary Film Festival, Discovery  (Thailand) / Addis International Film Festival, in competition (Ethiopia) / Africa Architecture Film Festival (South Africa) / Ethnocineca Vienna  (Austria) / Ekurhuleni International Film Festival,  semifinals (South Africa) / Pärnu International Documentary and Anthropology Film Festival, panorama (Estonia) / Golden Apricot Yerevan International Film Festival, international documentary competition (Armenia).

Habitat: la partecipazione a festival nazionali

Torino Film Festival , Italia Doc in competition (Italy) / Genova Film Festival, Concorso Nazionale Documentari (Italy) / Premio Libero Bizzarri, Concorso Italia Doc (Italy) / Molise Cinema, Frontiere (Italy) / Festival della Lessinia, Montagne Italiane (Italy) / Clorofilla Film Festival, Concorso Documentari (Italy) / Astra Doc, selezione ufficiale (Italy) / Prospettive ai Margini della Città, selezione Ufficiale (Italy) / Incontri con la gente di Cinema, selezione ufficiale (Italy) / L’Aquila Film Festival, Officina Abruzzo (Italy) / Festival del documentario d’Abruzzo, Panorama Italiano (Italy): SPECIAL MENTION / PerSe Visioni, Selezione Ufficiale (Italy) / Visioni Fuori Raccordo, in concorso (Italy) / Wag Film Festival, in concorso (Italy) / Asti Film Festival, in concorso Asti Doc (Italy): BEST DIRECTOR / Sguardi Altrove, Altri sguardi (Italy) / Lo Spiraglio, in competizione (Italy): BEST FEATURE FILM / Video Festival Imperia (Italy).

Habitat : i Premi ed i riconoscimenti critici conseguiti

MIGLIOR FILM, LO SPIRAGLIO FILM FESTIVAL, 2016 / MIGLIOR FILM, INTIMATE LENS ETHNOGRAPHIC FILM FESTIVAL, INTERNATIONAL COMPETITION, 2016 / MIGLIOR REGIA, ASTI FILM FESTIVAL, ASTIDOC, 2015 / MIGLIOR FILM, ISTANBUL INTERNATIONAL ARCHITECTURE AND URBAN FILM FESTIVAL, INTERNATIONAL COMPETITION, 2015 / MIGLIOR DOCUMENTARIO, CLOROFILLA FILM FESTIVAL, SEZIONE DOCUMENTARI, 2015 / MENZIONE SPECIALE, MOLISE CINEMA, FRONTIERE, 2015 / MENZIONE SPECIALE, FESTIVAL DEL DOCUMENTARIO D’ABRUZZO, PANORAMA ITALIANO, 2015 / MENZIONE SPECIALE, GENOVA FILM FESTIVAL, COMPETIZIONE DOCUMENTARI, 2015.