Da sempre la parola “follia” ha evocato ed evoca mondi mentali misteriosi, inconoscibili, che provocano disagio e smarrimento

di Anna Maria Giancarli 

Suscitò enorme interesse, nel 1977, il libro di Giuliana Morandini “… E allora mi hanno rinchiusa”, con prefazione di Franca Ongaro Basaglia. Si trattava di testimonianze dai manicomi femminili, di voci autentiche che tutte concludevano il racconto della loro vita con il leit motiv che dette titolo al libro.

Dalle narrazioni balzava evidente la “doppia oppressione” sofferta dalle donne, sia dall’istituzione manicomiale, sia da una cultura che, per secoli, le aveva considerate soprattutto “corpi” da espropriare e controllare, attraverso ruoli prestabiliti e regole da rispettare. E proprio la ribellione, il disadattamento prodotti da queste “norme” in molte avevano avuto come conseguenza l’internamento.

Reportage di Antonio Gasbarrini

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Veniva, così, svelata e documentata una realtà crudele, vera, condivisa e amplificata dalla elaborazione collettiva del movimento femminista, che lottava per la liberazione della donna da tutti quei retaggi che le impedivano, tranne che in alcuni rari casi, di manifestarsi e realizzarsi come soggetto storico-sociale.

Riporto all’attenzione quegli eventi per sottolineare e collegare l’importanza della pubblicazione, dopo decenni, di Assunta Signorelli, dall’enunciato estremamente parlante Praticare la differenza, che affronta la problematica della differenza di genere riportando, come si suol dire, esperienze concrete, praticate nel contesto della sofferenza psichica.

E’ quella di Assunta Signorelli una narrazione complessa, che descrive la sua lunga formazione come allieva e poi collaboratrice di Franco Basaglia, con cui condivise l’obiettivo dello smantellamento dell’istituzione manicomiale e la costruzione di un’alternativa a quel luogo di negazione e di separazione.

Non v’è dubbio che si trattò di una lunga battaglia, di una conquista storica, di una rivoluzione che ebbe come approdo l’introduzione, nel 1978, della legge 180, che cambiò completamente la mentalità dominante, ribaltando anche la funzione della psichiatria, attraverso la restituzione ai malati ed alle malate della normalità quotidiana, della libertà personale, dei diritti fino ad allora espropriati quali lo studio, il lavoro, la formazione, l’uso del proprio denaro.

Assunta Signorelli fu artefice, in prima linea, di questi mutamenti epocali ed alla prassi consolidata, nei processi di cura, sostituì un approccio di relazione e di complicità con le persone sofferenti, lavorando in profondità sulle loro differenze, ovviamente in primis su quelle di genere.

Da sempre la nostra autrice aveva avuto uno sguardo “altro” nel rilevare la diversità dell’essere uomo o donna nelle nostre società, ma la sua attenzione si fece più viva quando si accorse che, persino in un contesto avanzato come quello in cui operava, nella pratica non si teneva conto di questa fondamentale differenza.

Spesso, nella sua attività di psichiatra, smascherò e denunciò diagnosi che tendevano a medicalizzare atteggiamenti femminili di resistenza o di rifiuto ai vari condizionamenti sociali e storici, che trovavano il loro principale alimento all’interno della famiglia.

Era lì, anche a suo avviso, che si riproducevano “identità coatte”, attraverso la silenziosa imposizione dei ruoli che generavano conflitti e malesseri dividendo, con conseguenze inevitabili, la psiche ed il corpo delle donne.

Fu per questi motivi che, nel 1990, a Trieste, si arrivò all’attuazione di un servizio pubblico separato, sotto la sua direzione.

Il Centro Donna-Salute Mentale ebbe soltanto operatrici donne, era aperto dodici ore al giorno e divenne un polo di aggregazione sulle tematiche femminili, anche grazie alla presenza dell’associazione “Luna e l’altra”.

Per Assunta Signorelli ragionare per differenze, alla luce della legge 180, come si diceva, era il fulcro del cambiamento di un’istituzione nella quale si intrecciavano e si confondevano le storie individuali ma, proprio in questa ottica, la differenza di genere era questione centrale per affrontare la sofferenza psichica come riconoscimento di specificità e valorizzazione delle diversità, oscurate fino ad allora dalla psichiatria istituzionale.

Era assurdo, infatti, per lei rispondere in modo uguale ad un diverso tipo di sofferenza. A tal fine anche le donne operatrici nel Centro subirono un processo di trasformazione, iniziando ad interrogarsi sulla “loro” differenza, per non omologarsi al modello maschile.

A questo punto, va anche evidenziato che in questi anni le politiche sull’uguaglianza e le lotte del movimento femminista hanno sicuramente rafforzato la soggettività delle donne, ma sul terreno resta, a causa di resistenze storiche ad un vero cambiamento, la diffusione del disagio femminile e l’aumento della violenza maschile contro di esse, sempre come mezzo di dominio, di potere sui loro corpi, ancora minacciati e considerati oggetti su cui esercitare il controllo, fondato sulla negazione della loro autonomia e libertà, prima di tutto di quella sessuale.

La stessa Assunta Signorelli legge in questo modo la realtà contemporanea e suggerisce la strada della “relazione” nella quale mettere in gioco le proprie e le altrui certezze, al fine di perseguire il riconoscimento dei diritti e dei doveri di tutte e di tutti.

Tutto ciò a me sembra improrogabile in questo presente minacciato dall’omologazione e dalla svalorizzazione di ogni forma di dissenso e di complessità di analisi, limiti questi che appannano la capacità di discutere e confrontarsi riconoscendosi diversi, seppur ugualmente coinvolti, nel costruire risposte molteplici ed articolate insieme a pratiche rispettose dell’altro/altra da sé.

Purtroppo, ancora oggi, la storia delle donne intessuta di modelli precostituiti va riconsiderata e letta come un’antica storia di sottomissione al potere maschile.

Una donna come Assunta Signorelli, pertanto, ha avuto il grande merito di aver combattuto con coraggio questa mentalità, anche nel suo difficile ambito, sempre con la finalità di affermare il valore della differenza di genere e di tutte le differenze come arricchimento, accumulo prezioso di esperienze umane e sociali, come patrimonio comune da cui attingere risorse per una convivenza armonica e rispettosa, unico approdo possibile in una dimensione di civiltà futura.

Vittorie, conquiste, frustrazioni e sconfitte hanno attraversato la sua vita, ma ella ha sempre tenuto fede ai suoi princìpi, pur subendo traumatiche vicende come quella dell’Istituto Papa Giovanni di Serra D’Aiello, in Calabria, dove nel 2007 aveva assunto prima il coordinamento e poi l’amministrazione giudiziaria per la direzione sanitaria.

Con lei, il Papa Giovanni era divenuto un luogo aperto ma, con il concorso di varie istituzioni, nel 2008 cinquecento poliziotti in tenuta antisommossa circondarono l’Istituto e deportarono tutte le persone accolte in RSA della provincia.

E’ sempre difficile, in ogni ambito, volare alto, ma è necessario per raggiungere mete avanzate.

Assunta Signorelli, con la sua acuta intelligenza e la sua lucida pratica, non si è sottratta ai rischi per fondare nuovi rapporti e nuovi confronti, oltre che pratiche realizzate come beni collettivi da tutelare e coltivare per migliorare l’umanità intera.

[Assunta Signorelli. Praticare la differenza, edizioni Ediesse, Roma 2015]

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Collemaggio è uno dei siti più belli della città dell’Aquila, è un esteso parco verde con una flora pregiata che si dispiega tra aiuole, viali e vialetti e tra edifici di antico sapore.

Un luogo, quindi, da tutelare e da proteggere da appetiti speculativi; ed è, infatti, per scongiurare questa fine, che il comitato 3e32 – attraverso CaseMatte – è divenuto il presidio per la sua salvaguardia.

Per gli aquilani è stato, nel tempo, il luogo del manicomio, tanto da identificare il suo nome con la “pazzia”. Mai, però, con esso c’è stata distanza, o separazione, o rifiuto da parte della gente, abituata a considerare, semplicemente, che nella vita esiste anche la malattia mentale.

Per lo meno è quello che ho introiettato e percepito fin da adolescente ed ancor di più dopo, quando con il fantastico professore Arturo Conte, mi recavo all’ospedale psichiatrico per assistere ai suoi incontri con i malati.

La stessa Laudomia Bonanni, in un elzeviro sul “Giornale d’Italia” (21-22 luglio 1964) narra che “nel pacato e civile andamento cittadino svaria anche qualche pizzico di follia dei ‘pazzarelli’, che sciamano liberamente per le vie del centro, o lungo i viali fuori mano”, dove la scrittrice passeggiava in solitudine.

E’ evidente, comunque, che poco si sapeva di quel che accadeva realmente lì dentro, mentre si conosceva benissimo il significato della pazzia dagli esiti anche fisici che provocava. Si parlava anche dell’uso che si poteva fare del manicomio per allontanare dei congiunti, spesso per sempre, soprattutto donne, di cui ci si voleva liberare.

Da sempre la parola “follia” ha evocato ed evoca mondi mentali misteriosi, inconoscibili, che provocano disagio e smarrimento. In essi c’è un superamento dei limiti, un varco nell’ignoto, una vibrazione sconosciuta insostenibile, al punto da portare al rifiuto ed alla negazione dell’altro.

Francesco Proia, nel suo libro Il nido della follia, ordisce una storia di orrore che si svolge proprio a Collemaggio, nel 1956.

Durante un’ispezione con un suo superiore, il protagonista Danilo viene a contatto con una realtà di oppressione e violenza nei confronti dei malati mentali, segregati, isolati e maltrattati, spesso cavie di esperimenti vergognosi.

Attraverso la visita di quell’inferno prende coscienza di come si tenda ad escludere e condannare tutto ciò che non si capisce, di come la pazzia venga ritenuta una vergogna sociale e di come dietro di essa si celi il rifiuto delle diversità.

Per anni nelle strutture psichiatriche si è isolata ed occultata quella che viene definita la parte scandalosa della società, per creare un microcosmo con codici e regole di controllo, fino all’annientamento di ogni volontà.

Camicie di forza, elettrochoc, lobotomie, violenze fisiche e morali sono stati strumenti “di cura” per molti anni, pratiche più vicine alla tortura che alla medicina.

L’esperienza di Danilo diviene traumatica ma, un mistero che aleggia e che lui intuisce e vuole scoprire all’interno del manicomio, lo trattiene in quel posto angosciante, mentre fuori infuria una tempesta di neve che impedisce qualsiasi spostamento. Comprende, allora, che la scelta tra ciò che è considerato normale e ciò che non lo è, viene fatta in base a ciò che è meglio per chi decide e che lo stesso concetto di normalità, come è ovvio, cambia da paese a paese e da un’epoca all’altra.

Si rende conto che quegli esseri sfortunati avevano avuto soltanto il torto di essere malati, poveri, con famiglie che, rinchiudendoli, risolvevano i loro problemi.

Il racconto procede tra colpi di scena, paure, piccoli disvelamenti e sospetti, fino alla scoperta d’una terribile verità. Il manicomio era stato diretto in quegli ultimi anni da un medico che proveniva dai campi di sterminio tedeschi; un carnefice che, in Germania, assieme ai medici tedeschi, conduceva terribili esperimenti di eugenetica.

Il trattamento delle patologie mentali venne così attuato in quel luogo all’insegna del binomio “psichiatria-nazismo”.

Purtroppo questo è avvenuto in tanti altri manicomi per decenni. Bisognerà giungere alla riforma Basaglia, nel 1978, per mettere in crisi un sistema che aveva affrontato il problema delle malattie mentali con metodi che, infatti, non possono essere definiti che nazisti.

Un racconto, quindi, quello di Francesco Proia significativo nel contenuto, che si avvale d’una forma scorrevole, fluida, che calamita l’interesse del lettore, sollecitandolo a riflettere su un problema di estrema importanza e complessità, come quello della “follia” che, tuttora, attende risposte più umane e civili.

L’autore, a tal fine, ha il merito di prenderci per mano e condurci, attraverso la sua capacità espressiva, in quel territorio di atrocità, contrabbandate come “cure”, per farci provare orrore e rifiuto, quindi per mutare anche il nostro atteggiamento in un agire collettivo incanalato di vero cambiamento.

[Francesco Proia, Il nido della follia, Anfiteatro editore, 2015]

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I due libri sono stati presentati a L’Aquila con gli autori: uno, “Il nido della follia” presso la libreria Colacchi; l’altro, “Praticare la differenza” a CaseMatte, luogo occupato da cittadini aquilani che si trova proprio dentro Collemaggio, l’ex-ospedale psichiatrico della città.