L’andamento della mostra è costruito sulla contrapposizione tra superfici piane e curve, suoni gravi e acuti, che si rincorrono tra le pareti della galleria sotto forma di vibrazioni e deviazioni
di Isabella Indolfi
Spazio e tempo, scultura e musica, onde plastiche e sonore. Arte liquida, fatta di intrecci disciplinari, dimensioni percettive e curve sinusoidali, questi sono gli elementi che compongono la mostra FLUSSI.
Protagoniste sono le sculture di Licia Galizia, artista abruzzese che dagli inizi degli anni ’90 si muove tra forma e materia con abile manualità e senso dell’equilibrio.
La sua ricerca affonda le radici nell’Arte concettuale e nell’Arte povera, con l’influenza diretta di Fabio Mauri e Pizzi Cannella, e si rende da subito autonoma e del tutto particolare con una scultura astratta fatta di segni, leggerezza, minimalismo e movimenti futuristici.
Dal 2005, a seguito dell’incontro con il compositore Michelangelo Lupone, la ricerca scultorea di Licia Galizia acquista una nuova dimensione potenziando il dialogo con lo spazio e con il pubblico; prosegue il legame con la materia ma si rafforza lo slancio verso l’interazione con l’ambiente umano e architettonico, in un atto di libertà finalizzato ad un allargamento dei confini della ricerca artistica, verso nuove risposte e nuovi stimoli.
È iniziata così la collaborazione tra Licia Galizia e il Centro Ricerche Musicali di Roma, con uno spirito squisitamente rinascimentale, fatto di scambi disciplinari che ci restituiscono al pensiero olistico e a nuove forme e valori espressivi.
Grazie ai Planofoni®, tecnologie originali di diffusione del suono create al CRM nel 1997, è stato possibile realizzare opere interattive e adattive, in cui la scultura di Licia Galizia vive in simbiosi con la musica elettronica di Michelangelo Lupone e Laura Bianchini, integrando forme, suoni e nuove tecnologie in un unico corpo scultoreo ibrido, sensibile e complesso, in grado di rispondere agli stimoli esterni – siano essi il calore del sole o le vibrazioni di una mano che ne sfiora la superficie.
FLUSSI è un progetto espositivo site-specific che racconta, con un ritmo fatto di movimenti e pause, una storia ideale sulle infinite forme visive e sonore dell’acqua: mare, sorgente, pioggia o fontana, l’acqua ha diverse nature e racchiude in sé una coscienza e una memoria che travolge.
“Onde segnate con il piegarsi di lastre che affiorano, si sovrappongono, e sempre più si innalzano dal fondo, da basse e taglienti, si fanno sempre più ampie, lunghe e sporgenti fino a cadere a terra”. Con queste parole Licia Galizia descrive “Mare Oscuro” l’opera che inonda la prima sala della galleria e arriva a “bagnare” i piedi dei visitatori, costretti, come si fa con le onde del mare sulla battigia, a giocare nello spazio e scappare o rincorrere la spuma bianca. Oscuro come il destino dei migranti che attraversano il Mediterraneo in cerca di una nuova vita, il mare di Licia Galizia ci “parla” con la musica di Michelangelo Lupone ed invita i visitatori ad immergersi in esso e navigarne le superfici. I flussi migratori umani si intrecciano idealmente con i flussi elettronici dei dati e i flussi sensoriali del pubblico, dando vita ad un suono cupo e tragico che si leva dalle onde del mare come un grido di sofferenza, come un lamento profondo che vibra nell’aria e fa ribollire la materia.
L’andamento della mostra è costruito sulla contrapposizione tra superfici piane e curve, suoni gravi e acuti, che si rincorrono tra le pareti della galleria sotto forma di vibrazioni e deviazioni.
Attraversato il mare, lo sguardo del viaggiatore si eleva e il ritmo della narrazione della mostra si fa più lieve, come a simboleggiare l’auspicato approdo sulla terraferma; il racconto, tuttavia, è ancora carico del dramma dei nostri tempi, perché l’acqua, l’elemento naturale più sensibile all’inquinamento e ai cambiamenti climatici, è profondamente minacciata dall’uomo. Ci si trova così di fronte ad una sorgente dal colore vivo e abbagliante: “Fonte Gialla” è la seconda opera che viene incontro al visitatore e racconta di una terra lontana, arsa dal calore, inospitale e desolata. Qui, nella città di Dallol in Etiopia, sgorga una strana fonte di acqua gialla, resa tossica dai gas del sottosuolo. L’acqua può essere veleno anziché fonte di vita, e questa è una delle contraddizioni che riempiono di significato questo elemento primordiale. Per quest’opera, Licia Galizia ha scelto di usare solo il linguaggio della scultura che, senza l’intervento musicale, esplode in tutta la sua potenza visiva.
Proseguendo nella mostra, si viene travolti da “Diluvio”, installazione candida e violenta allo stesso tempo, che minaccia il visitatore con la sua incombenza, cadendo come una grande cascata dalla parete più alta della galleria. Anche quest’ultima è un’opera leggera e puramente scultorea, senza suono né possibilità di interazione, se non quella di lasciarsi bagnare e investire da questa prepotente dimensione spaziale.
Nell’installazione “Acqua” il processo di purificazione è rappresentato da passaggi cromatici dal nero al bianco attraverso sfumature di grigio. Cinque elementi scultoreo-musicali, quante sono le lettere che compongono la parola acqua, sono connessi tra loro digitalmente in un rimando di suoni molto particolare, in cui il dialogo tra i due musicisti si fa serrato e diretto: a Michelangelo Lupone è affidata la sonorizzazione dell’acqua inquinata, mentre a Laura Bianchini è affidato il compito di suonare la purezza. A partire dal primo elemento nero di “Acqua”, suoni gravi, sporchi e quasi indistinguibili, si intrecciano in una tessitura densa che man mano va sfibrandosi in un processo filiforme fino all’ultimo elemento, quello più chiaro, per finire con una prosodia leggera e bianca come una carezza di donna.
Portfolio (Opere di Licia Galizia)
Ogni scultura sonora in mostra ha carattere musicale proprio, a seconda di ciò che la scultura rappresenta. Masaru Emoto afferma che l’acqua ha una coscienza che risponde agli stimoli sonori; se davvero così fosse, la sua voce sarebbe quella della musica di Michelangelo Lupone e Laura Bianchini. Questi due compositori hanno viaggiato sulle onde plastiche di Licia Galizia e hanno dato vita a polifonie elettroniche inedite che non riproducono letteralmente il suono dell’acqua, ma ne restituiscono il ritmo ondeggiante.
Il concetto di musica si fa contemporaneo e viaggia attraverso cavi, schemi procedurali, microprocessori e sensori. Gli strumenti musicali sono algoritmi di sintesi del suono, capaci di imitare la realtà e produrne una nuova sublimata. Anche l’ascolto richiede regole e sintassi diverse, partendo dalla liberazione dall’idea di melodie, tonalità e timbri classici, per aprirsi ad un infinito panorama fluido di suoni.
Le opere esposte sublimano l’incontro di due percorsi di ricerca autonomamente approfonditi, che trovano il proprio compimento l’uno nei canoni della scultura e l’altro della musica contemporanea. Il connubio e la perfetta sintesi tra scultura e musica, è reso possibile dalle più recenti ricerche tecnologiche che animano ciò che altrimenti sarebbe inerte; invisibili dispositivi attivano migliaia di cellule musicali che si compongono in un delicato equilibrio. Una pelle scultorea avvolge, protegge e nasconde un insieme di cavi, sensori, schede madri e altoparlanti che altro non sono che un complesso sistema di controllo e diffusione del suono messo a punto dal CRM.
La tecnologia è qui al servizio dell’arte e non viceversa, come spesso avviene in un approccio sempre più frequente dell’arte contemporanea che parte concettualmente dalla riflessione sul mezzo tecnologico e su di essa basa la forma finale dell’opera. Mettere in mostra una tecnologia nuda e funzionale ha poco a che fare con la creatività, bensì con una nuova estetica legata al fascino di macchine sempre più complesse, sempre più simili a corpi umani, che tutti vorremmo vedere “dal di dentro” con un certo voyeurismo.
Il pericolo, però, è che divenga più sottile la linea di separazione tra tecnico e artista, tra opera d’arte e invenzione, a scapito di quell’aura che Walter Benjamin affermò essere al di là della riproducibilità tecnica.
Nelle opere scultoreo-musicali, invece, i dispositivi digitali non sono fini a se stessi ma strumenti per lavorare sul contesto, per leggerlo e tradurlo. Avvicinandosi al concetto di “gesamtkunstwerk” o “opera d’arte totale” – che include poesia, pittura, scultura, musica e architettura – l’arte digitale così intesa ha la particolare capacità di creare nuove dimensioni fruitive, interagendo con il pubblico a più livelli attraverso installazioni e ambienti immersivi, esperibili ed abitabili, dove gli spettatori diventano attivatori e manipolatori del senso dell’opera.
In FLUSSI, come in un complesso gioco di prestigio, l’esperienza sensoriale è apparentemente immediata, cioè non mediata, quasi naturale. L’interazione dell’opera con il pubblico rappresenta un primo passo per capire il linguaggio di questo lavoro. Superata la soglia della passiva contemplazione, oltrepassati quei pochi centimetri allarmati che creano un abisso incolmabile tra l’opera d’arte e il pubblico, quest’ultimo non è più semplice visitatore, ma viaggiatore, abitante, attivatore. Osservare, toccare, ascoltare. Il pubblico, immerso nell’esperienza sensoriale, è invitato al superamento della distanza di sicurezza che lo separa dall’opera, a mettersi in ascolto di essa e navigarne le superfici, per aprirsi ad una fruizione finalmente estesa.
Attivato il pubblico, ora tocca all’opera diventare davvero reattiva. L’interazione deterministica e limitata non basta; bisogna che l’opera si adatti, evolva, assuma atteggiamenti imprevedibili e, come organismo vivente, cambi continuamente la modulazione della sua voce. A questo scopo operano una memoria e un’intelligenza artificiale, un cervello insomma, che fa sì che l’opera “impari” dal contesto e dall’interazione, adattandosi all’ambiente fino a diventare essa stessa ambiente.
Germano Celant per primo ci ha insegnato che tra l’opera ed il contesto deve avvenire uno scambio reciproco poiché “l’arte crea uno spazio ambientale nella stessa misura in cui l’ambiente crea l’arte”.
Con FLUSSI, Licia Galizia disegna un paesaggio dinamico e fluido, un ambiente che non solo può essere abitato e vissuto nella sua multidimensionalità, ma è allo stesso tempo interattivo, adattivo ed evolutivo.
Il ritmo vivace di spume e guizzi conduce alla fine della mostra e si adagia nella dimensione zen dell’acqua addomesticata dall’uomo in “Fontanile”, l’ultima opera che sgorga silenziosa e luminosa dal basso verso l’alto nel cortile esterno della galleria.
Terminato il viaggio, il paesaggio in cui siamo immersi, si richiude sopra di noi a viaggio concluso. Resta la memoria dei segni, dei colori e dei suoni, di una esperienza sensoriale che non ci lascerà facilmente, perché ci ha visti attori in un teatro fatto di metafore, di pieni e vuoti, di esplorazioni e di attese.
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