La sopravvivenza del pianeta è messa a rischio da quello stesso progresso tecnologico che è necessariamente chiamato a porvi rimedio
di Carlo Tognolina
Il libro Arte / Città / Territorio è costituito dagli Atti dell’omonimo Convegno che si è tenuto nell’Aula Magna dell’Accademia di Brera, nel mese di marzo 2015. Le riflessioni che sono seguite hanno portato ad aggiungere la sezione Contributi ed esperienze, che arricchisce il volume di ulteriori testimonianze. Vi è poi una terza parte formata dalle “Esperienze didattiche” degli studenti del triennio e del biennio del corso di Decorazione che hanno seguito il Convegno.
Questo libro si collega agli eventi straordinari dell’EXPO sull’emergenza alimentare, sul ruolo degli artisti nella società e sull’emergenza della ricostruzione post terremoto in Abruzzo, che assieme entrano a configurare lo sfondo drammatico in cui versa l’intero pianeta rispetto al quale il Convegno Arte / Città / Territorio e gli ulteriori contributi ed esperienze, vengono più o meno direttamente a confrontarsi.
D’altra parte il volume si inserisce in un percorso di ricerca – intrapreso dall’indirizzo di Decorazione del Dipartimento di Arti Visive dell’Accademia di Brera – che è costellato da altre pubblicazioni, a partire da DECORAZIONE / Una riflessione, a cui è seguito Miti d’Oriente Miti d’Occidente / Nuovi modelli per una relazione interculturale tra Italia e Cina e, ancora, Arte / Città / Territorio. Inoltre è in via di progettazione l’edizione di un quarto libro (che riguarda un’esperienza condotta lo scorso anno sull’isola Comacina, che si avvale anche di una collaborazione dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, dal titolo I Colori e il Mito dell’isola).
Naturalmente vi è un filo logico-ontologico che li unisce e che corrisponde ad una metodologia della ricerca che non si risolve nel dare una risposta, che sarebbe, pur se concordata, basata su un presupposto coercitivo che non terrebbe conto delle differenti posizioni teoriche e pratiche dei partecipanti, ma piuttosto per delineare il problema generale del nostro tempo. Infatti, in quanto problema e non soluzione, nessuno si trova in qualche modo costretto ad aderire a risposte assunte a “maggioranza”; inoltre la scelta metodologica di individuare il problema, non impedisce che possa essere configurato in una struttura ordinata a livelli crescenti di complessità, mentre sul piano delle risposte ognuno sarebbe poi chiamato, docente e studente, a dare una propria versione, libera da vincoli imposti da qualcuno, o da accordi che richiedano soluzioni di compromesso.
Con DECORAZIONE / Una riflessione, il livello di elaborazione ha riguardato la collocazione di questo indirizzo nell’ambito di un rinnovato ordinamento didattico (L. 508/99), facendo emergere le valenze universali (ma soprattutto metodologiche) che si accompagnano al concetto di Decorazione, che più che essere una disciplina indica piuttosto un metodo di come mettere in relazione fra loro architettura, pittura, scultura e scenografia, ecc., liberando così un potenziale enorme di proposte formativo-didattiche.
D’altra parte non è rimasta inevasa neppure l’esigenza di definire la specificità della Decorazione rispetto agli altri indirizzi del Dipartimento di Arti Visive alla stregua di un rapporto tra intervento artistico e spazio, dove – per semplificare – lo spazio non è più inteso come la tela bianca per il pittore, per il quale ad ogni opera si ripristina di volta in volta il medesimo spazio originario, che in quanto spazio in cui si condensa il potenziale della poetica dell’artista è quasi sempre astrattamente presupposto. Qui, invece, il supporto è dato come parte del volto della Terra nella sua infinita e complessa stratificazione storica dove l’artista è sollecitato già in sede progettuale a una preliminare lettura del contesto ambientale in cui viene inserita l’opera, e a corrispondervi secondo le assunzioni teoriche che sarà in grado di darsi. A questo punto, si è anche consapevoli che se questa interpretazione preliminare raggiunge quella profondità in grado di mettere in discussione l’interpretazione stessa, si è alla presenza della grande arte, dove appunto è la stessa interpretazione che è inclusa nell’opera come oltrepassata.
Slides (a cura di Sergio Nannicola)
Il Convegno precedente, Miti d’Oriente Miti d’Occidente. Nuovi modelli per una relazione interculturale tra Italia e Cina suggerito dalla sorprendente affluenza di studenti orientali e in particolare di quelli Cinesi, ha sollevato nuovi problemi oltre a quelli di cui in qualche modo si sta facendo carico la riforma delle Istituzioni artistiche (L. 508/99, si veda in proposito C. Tognolina. Le istituzioni artistiche verso la terra promessa delle istituzioni di alta cultura. Mimesis 2015).
Problemi connessi, non solo in ordine alla lingua e alla scrittura, ma soprattutto con una storiografia dell’arte orientale che presenta una concezione dell’arte e della bellezza diversa rispetto a quella occidentale.
In quella occasione si è messo in evidenza che il contesto che fa da sfondo all’internazionalizzazione dell’arte e al fenomeno detto della mondializzazione, è l’apparato tecnico-scientifico il quale è quella forma ideologica che progressivamente si fa avanti sulla scena del mondo imponendosi sulle altre ideologie, quali l’ecologia e lo sviluppo compatibile, il conflitto tra paesi ricchi del nord del mondo e i paesi poveri del sud, la democrazia, la dottrina sociale della chiesa, i fenomeni collaterali dell’immigrazione, lo scontro di civiltà, ecc. Si sosteneva che a proposito di questi giganteschi fenomeni di trasformazione della Terra c’è anche una crisi dell’arte, la sua perdita di valore, la sua incapacità di farsi carico della contraddizione, la perdita della sua universalità e dunque della sua artisticità a fronte di un dilatarsi dell’estetico e della irruzione della stessa nel mondo della vita a tal punto da rendere indistinguibile l’esperienza artistica da quelle produttive. Una crisi avvertita non solo all’interno delle istituzioni accademiche, ma in generale nel sistema dell’arte, che si configura nei suoi aspetti più manifesti come una contraddizione che oppone la grande Tradizione e i suoi valori immutabili, al presente-futuro tecnologico caratterizzato dalla frammentazione specialistica, ma anche visto come il solo in grado di fornire risposte adeguate ai problemi della sopravvivenza dell’umanità.
Passiamo ora al libro Arte / Città / Territorio.
Nessun fenomeno in generale, sia esso piccolo o grande, può sottrarsi dall’essere considerato in relazione al tempo, tanto più oggi che siamo in presenza dei fenomeni giganteschi richiamati più sopra. Essi sono la prova più evidente che stiamo uscendo dal passato e stiamo entrando, non senza angoscia, in un presente in cui è difficile non vedersi proiettati in un futuro in cui non sia dominante la dimensione scientifico-tecnologica.
Stiamo uscendo da un passato costituito dai contenuti della Tradizione Occidentale: i grandi sistemi della filosofia, il sistema religioso, la grande arte, il diritto naturale, ecc. e cioè sistemi che avevano il loro riferimento unitario nella episteme nella verità. Questo almeno fino alla fine del medioevo. Poi con la Modernità inizia una sorta di rivoluzione copernicana che investe ogni campo del sapere, a cominciare dalla stessa filosofia, che comincia a mettere in discussione il sapere immutabile della metafisica (si pensi a Kant, e in modo ancor più radicale alla celebre “morte di dio” di Nietzsche ) anche se certamente i fenomeni più appariscenti sono legati alla nascita della scienza sperimentale fondata sul metodo scientifico che viene fatto risalire a Galileo Galilei. Sostenuto successivamente da quel filone della cultura filosofica che fa riferimento all’illuminismo, all’empirismo, al positivismo, all’empirismo logico, al neoempirismo e che culmina nell’attuale filosofia analitica che ha attecchito soprattutto nel mondo anglosassone, dove complessivamente si ritiene che i valori immutabili (la verità metafisica, la teologia, il diritto naturale, i valori eterni dell’arte, ecc.) debbano essere negati e abbandonati, in quanto privi di senso. Le conoscenze scientifiche applicate alla produzione, inizialmente segnate dal passaggio dalla manifattura all’industria, si sono progressivamente sviluppate in quelle che si considerano essere le grandi trasformazioni in atto che coinvolgono l’intero pianeta.
Ora, questa rivoluzione copernicana, non è un semplice passaggio da una dimensione in un’altra, perché da un lato la scienza sperimentale si oppone in modo sempre più deciso a quel grande passato in quanto lo considera come un ostacolo al progresso scientifico e, per contro, non può fare a meno di riconoscere un legame di discendenza da quel passato e quindi di dover ammettere una certa identità con lo stesso.
Da qui il costituirsi di due polarità culturali intrinsecamente aporetiche dove l’una è orientata a sostenere i valori della Grande Tradizione, l’altra invece, verso il presente futuro tecnologico, ma come si diceva all’inizio a proposito del tempo che attraversa ogni fenomeno piccolo o grande che sia, questa polarizzazione è rilevabile, con dominanze che oscillano ora più verso un polo ora verso l’altro, anche nei testi di questo libro.
D’altra parte, questa sommaria premessa, dal carattere puramente orientativo, si ritiene che possa costituire una chiave di lettura dei contributi testuali presenti, e riportati qui di seguito in forma sintetica, con gli insopportabili quanto inevitabili tradimenti che certamente alterano e deformano il senso degli scritti originali, ma che d’altra parte si rendono necessari per uscire dal generico e fornire al lettore qualche elemento in più, relativo al contenuto di Arte / Città / Territorio.
Ida Terracciano
All’interno del variegato universo della nuova cultura ecologica si sta affermando una diffusa consapevolezza sui rischi derivanti dagli squilibri ambientali a cui corrispondono prese di posizioni culturali su più livelli e con piani diversificati di intervento, primariamente a livello politico internazionale (da ultimo, la Conferenza di Parigi). Ma considerando le resistenze di molti Paesi ad assumere politiche di drastiche riduzioni dell’inquinamento, sono da valutare come importanti tutte quelle iniziative culturali che modificano il modo di guardare il paesaggio urbano e naturale, fuori dalla logica delle speculazioni finanziarie. Appare necessario che si approntino strumenti interpretativi del territorio, che si avvalgano dei vari campi conoscitivi, che riescano a fare sintesi e a tenere assieme il particolare con il generale. È in questa direzione che con il superamento dell’autoreferenziale quanto unilaterale volontà di edificazione degli architetti – secondo il ruolo privilegiato che l’architettura è venuta assumendo in questi ultimi tempi – si apre, oggi più che mai, uno spazio di intervento per gli artisti i quali devono essere sempre di più coinvolti a svolgere un ruolo attivo. La Terracciano ricorda che “Nessuno più dell’artista è in grado di operare questa sintesi attraverso la rilevazione delle dinamiche costituite da persistenze, cambiamenti, tensioni interne a un territorio e volte verso una determinata realtà”.
Da queste premesse generali inizia la ricca documentazione delle testimonianze di associazioni, fondazioni, organizzazioni e artisti, i quali dagli anni ‘60 in poi, hanno incominciato a sviluppare la loro ricerca ponendosi il problema di come potessero svolgere una funzione sociale e quindi relazionarsi in modo più diretto con l’ambiente, la città e il territorio.
Mario Galvagni
Galvagni ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Brera e in seguito l’università laureandosi in Architettura. Disegnando la natura, “copia” in qualche modo la stessa, ma è una mimesis in cui è la natura che si porta dentro il progetto nonché alla sua realizzazione. Se si tiene presente che l’autore per il suo progetto estrae le matrici formali dal territorio, utilizzando i materiali e i manufatti del luogo, allora si può convenire che il ruolo dell’autore dell’opera sembra ritrarsi a quel livello per il quale “la natura dell’autore non è diversa dalla natura della natura”. La forma dell’opera sembra essere più il manifestarsi della forza della natura che non l’intervento dell’uomo che agisce sulla stessa con qualcosa d’altro da essa: la precondizione affinché inizi l’evento che porta alla realizzazione dell’opera, è fondata pertanto sull’empatia tra committente e architetto. Anche questa empatia sorge spontaneamente, in modo naturale, niente che possa apparire forzato, imposto. Questo consente all’architetto quel confronto dialettico che porta il committente a condividere fino in fondo le sue scelte. Inoltre, se l’opera incarna le forme storiche del territorio e i manufatti sono in accordo con la natura, tutto apparirà armonico e naturale, e chi produce sarà solo la pura azione della natura che porta a manifestazione se stessa, appunto perché progettista e committente non saranno altro che il movimento spirituale con il quale la natura si realizza. Niente dunque dell’opera che possa essere inteso come un corpo estraneo al luogo in cui nasce, che provenga dal di fuori, fatto da uomini che in qualche modo agiscano contro la natura. L’idea dell’architettura organica si muove all’interno dell’elemento naturale che muove se stesso da se stesso. L’architettura organica di Galvagni sembrerebbe dal punto di vista teorico del tutto condivisibile, rappresentando il circolo naturale delle cose di cui l’uomo è parte essenziale. Ma, attenzione: solo come pura forza spirituale, che come corpo e strumento che interviene dall’esterno sulla natura, apparirebbe come qualcosa che vuole avere il dominio su di essa. Quello che da ultimo si offre allo sguardo estasiato di architetto e committente, stupiti di se stessi, è un’opera perfettamente integrata con l’ambiente che può essere anche intesa come un semplice prolungamento dell’organismo della natura: infatti quello che dell’architetto e del committente è essenzialmente presente nell’opera è quella medesima energia originaria che muove sia la natura che l’uomo.
Sandro Lazier
Come si colloca la produzione di un film su Calvagni all’interno di un contesto come quello di Arte / Città / Territorio? Evidentemente quello che fa problema è la differenza tra opera originale e l’immagine dell’opera in quanto riprodotta in un audio-visivo.
Ci si potrebbe chiedere se il medium, seppur sotto la regia di Galvagni, non tradisca inevitabilmente quell’evento, le cui caratteristiche autentiche possono manifestarsi solo nell’effettuarsi di un vero nuovo progetto. D’altra parte come riuscire a trasmettere ciò che si realizza nell’incontro fortunato di un committente e dell’architetto?
Ammesso che tra Lazier e Galvagni vi sia quella stessa empatia esistente tra Galvagni e i suoi committenti, i ruoli verrebbero rovesciati: Lazier sarebbe quello che realizza l’opera-video mentre Galvagni sarebbe il committente.
Ma a questo punto cosa dovrebbe convincere Galvagni che l’opera prodotta da Lazier sia stata realizzata sulla base della medesima metodologia dell’architettura organica delle matrici formali?
Quello della mediazione tecnologica, è l’aspetto più pericoloso per la perfezione del circolo della natura che “natura” se stessa, messo in opera da Galvagni, perché nella divulgazione dell’opera si verifica quel tradimento per cui ciò che viene detto in modo compiuto nell’opera originale che è mediato dallo strumento, che non essendo affatto neutro, riconduce i presupposti dell’opera nell’ambito della propria fondazione.
D’altra parte per Galvagni sembra piuttosto difficile applicare sullo strumento tecnologico quello che invece sembra del tutto evidente rilevare nell’ambito del territorio, vale a dire le matrici formali del territorio estetico, l’empatia con il committente, ecc., appunto perché lo strumento meccanico non agisce come quella energia spirituale con la quale la natura, naturalizza se stessa. Perciò è su questa base che occorre riconoscere come il sistema organico di Galvagni abbia un’estensione limitata, si rapporta ad un certo territorio e ad un senso della natura che è quello del realismo filosofico antico, e quindi non fa i conti con l’avvento di ciò che, se non opportunamente considerato, rimuove quella apparente organicità, perché presuppone quell’altra organicità, molto più potente, rappresentata dall’apparato tecnico-scientifico.
Premiata Ditta SAS
Qual è il ruolo dell’artista nella società attuale?
A questa domanda la Premiata Ditta costituita dai due artisti Vincenzo Chiarandà e Anna Stuart Tovini risponde: “Segnalare in maniera efficace le emergenze sociali e politiche” tra le quali vi è certamente la necessità di mettere in discussione il sistema dell’arte. Il che comporta eliminare qualsiasi retaggio romantico legato alla figura dell’artista solitario, faro dell’umanità e assieme uscire dall’autoreferenzialità del sistema dell’arte per cercare sinergie con altri campi della conoscenza. Si tratta insomma di sviluppare “un progetto di arte e vita con la volontà di avere un ruolo attivo e propositivo manifestando, da una zona di confine tra sistema dell’arte e macrosistema della realtà politica e sociale, il proprio dissenso”.
Ora questo si direbbe che è il tratto che viene tenuto fermo come una costante nelle straordinarie iniziative che il duo ha progettato a partire dalla metà degli anni ottanta, (e che vengono opportunamente descritte nel libro) ma evidentemente nella consapevolezza che per tenere vivo l’aspetto assieme aggregativo e sovversivo delle loro iniziative occorreva dotarsi di un dispositivo capace di sfuggire a facili procedure di controllo: “UnDo.Net”., che la Premiata Ditta considera come uno strumento estremamente utile, intrinsecamente libero, per promuovere un sistema di relazioni tra artisti e pubblico che non siano cooptate dal potere politico-economico.
Ora la radicalità delle posizioni della Premiata Ditta sollecita un’ altrettanta radicale interrogazione: che cosa comporta per l’esperienza artistica avvalersi di uno strumento così potente? E più in generale, gli strumenti si devono considerare come neutri rispetto alla loro finalità o hanno in se stessi quella formidabile caratteristica per la quale nel processo che porta il mezzo alla realizzazione del fine, è poi quest’ultimo (il fine) che finisce per diventare lo strumento dell’incremento della potenza di quello che si considerava all’inizio del processo un solo mezzo?
Più semplicemente, fino a che punto La Premiata Ditta riesce a sottrarsi dal diventare un mezzo dell’incremento della potenza di internet?
Maurizio Coccia
Coccia propone una riflessione autocritica su esperienze di arte relazionale vissute in prima persona; procede puntigliosamente a verificare che cosa si debba intendere per arte pubblica (che dovrebbe essere percepita come arte nello spazio pubblico), a criticare la presunta autonomia dell’arte (e cioè il concetto di arte per l’arte), e dunque a collocare la stessa nell’ambito delle esperienze che portano cambiamenti nella società.
Tuttavia avverte che lo spazio oggi non è più monolitico, rigido, geometrico, ma è piuttosto una sostanza fluida, che avvolge ogni attività, e che è costituita dalla mobilità delle relazioni che si possono intrattenere con il mondo, soprattutto attraverso la dimensione pervasiva e onnipotente dei linguaggi telematici.
In questo contesto le ragioni dell’intervento artistico nello spazio pubblico come strumento di evoluzione positiva di nuove forme di socialità e redenzione di zone degradate delle città, risulta molto problematico.
Coccia illustra una serie di esperienze, che dimostrano come sia illusorio credere di poter risolvere il problema del degrado attraverso iniziative culturali e artistiche: “Il fallimento di queste pratiche dipende da diversi fattori. Tutti, comunque, esterni alla sfera artistica”.
Qui Coccia stabilisce una soglia del degrado all’interno del quale l’intervento culturale e artistico perde completamente di efficacia. Si dovrà allora rivedere l’affermazione più sopra fatta che l’arte modifica la realtà e che non può essere autonoma e cioè ripiegata su se stessa? La conclusione di Coccia è che: “L’arte rimane un filtro, un diaframma in grado di attribuire senso anche all’inanimato. Un dispositivo per cambiare il punto di vista sul mondo. Ma resta sostanzialmente elitaria, e ininfluente nei processi di modificazione sociale. Salvo che non sia assorbita dalle strategie di consenso politico trasformandosi in strumento di propaganda”.
Massimo Bignardi
Partendo dal presupposto che la città sia “la più grande tra le opere d’arte umane”, è un’opera d’arte che va considerata come progetto in progress, la cui identità comprende certamente le sue radici storiche, ma anche l’ovvia tensione verso prospettive di cambiamento futuro. L’esperienza dell’arte comporta una riflessione sull’essenziale ruolo che essa ha da sempre nei processi di trasformazione della società civile.
In questo testo si intende affrontare aspetti e questioni di metodo tesi a chiarire i significati nell’uso di termini quali “ambientale” ed “ambientato”, a chiarire aspetti che non sono solo terminologici, ma fattori che sono connessi a fondare una metodologia operativa dinamica che interviene nella progettazione e realizzazione di un intervento plastico, in ambito urbano, provvisorio o permanente.
La scelta metodologica di Bignardi, si fonda su due aspetti. Uno condotto a livello teorico che si avvale di una ricerca storica e filologica rigorosa (da qui il riferimento ad una bibliografia molto vasta) che traguarda un orizzonte internazionale, che raccoglie, prendendo dalla storia, le diverse modalità di intervento, alcune delle quali di rigenerazione profonda dell’assetto urbano, altre di estensione più contenute. L’altro aspetto connesso al primo, ha un carattere operativo e cioè teso a definire una esperienza artistica che abbia una valenza sociale di tipo relazionale più articolata, dove il ruolo dell’artista pur centrale, è attorniato e supportato da una serie di figure dalle competenze necessarie per calibrare opportunamente l’inserimento plastico nel tessuto della città. Di particolare importanza è la memoria storica sedimentata e stratificata che lo storico dell’arte deve essere però in grado di tradurre in una prospettiva futura predisponendo le condizioni effettive affinché le proposte di intervento siano infine realizzate. Bignardi, anche in considerazione del fatto che molte esperienze artistiche dell’arte contemporanea sono raccolte sotto una terminologia variegata, traguarda una prospettiva teorica, che abbia un fondamento metodologico che fornisca alcune coordinate paradigmatiche per la riconoscibilità dell’arte ambientale.
L’intervista di Bignardi a Cascello e Staccioli
Nella intervista tra il critico d’arte e gli artisti si esemplifica quella metodologia di lavoro che dimostra come lo storico-critico non intenda occuparsi solo della storicizzazione degli eventi, bensì di avere un ruolo operativo, di interlocuzione diretta con gli artisti, anche eventualmente predisponendo un’indagine esplorativa analitica dei contesti culturali in cui potrebbe rendersi necessario l’intervento estetico.
L’intervista di Bignardi a Staccioli e Casciello, sollecita i due artisti a ripercorrere i momenti salienti della loro esperienza, e quindi a illustrate le loro opere, facendo partecipe il lettore dei problemi culturali e tecnici che di volta in volta hanno dovuto affrontare.
I due artisti appartengono a generazioni diverse, ma la loro biografia presenta dei punti in comune, ad esempio quella di abitare in luoghi dalla profonda stratificazione storica che costituiscono una memoria antichissima molto densa di contenuti da cui traggono i segni della loro creatività. Un altro aspetto che qualifica il loro lavoro è certamente l’idea che l’arte svolga una funzione sociale e che dunque l’artista si debba relazionare con l’ambiente e con la collettività sia in sede progettuale che in fase realizzativa.
Naturalmente emergono posizioni differenti che in parte derivano dalla diversa collocazione temporale delle loro esperienze, e dall’altra da scelte stilistico-espressive maturate in contesti ambientali diversi. Si potrebbe forse dire che per Staccioli l’intervento plastico viene inserito nel territorio, certamente rispettando i principi metodologici dell’arte ambientale: la ricognizione sul territorio, aver discusso il progetto con la collettività, l’approfondimento della memoria storica, ecc. e, tuttavia la cifra stilistica delle sue opere connota un’idea dell’arte che ha ancora nell’artista l’essere autore privilegiato dell’opera e cioè un’opera che avrebbe la funzione di emancipare ideologicamente la collettività. Mentre Casciello mostrerebbe, almeno in alcune sue opere, se non l’inclinazione, la disponibilità ad interagire maggiormente con le strutture funzionali della città e quindi a confrontarsi in fase progettuale con altre figure (quali l’architetto, l’ingegnere, lo storico dell’arte, ecc.) pur portando in esse l’immaginifico di una memoria mitica e ancestrale quale elemento qualificante dell’intervento.
Anusc Castiglioni e Claudia Comencini
Qual è la metodologia che un artista adotta quando nell’emergenza del terremoto si vuol rendere disponibile e utile alla collettività che ha subito un trauma così profondo? Come si rapporta ai luoghi in cui ci sono state le distruzioni, il dolore, le perdite, e sono state sconvolte le vite e le abitudini delle persone?
La catastrofe del terremoto determina lo sconvolgimento del rapporto identitario che una collettività ha con il territorio in cui vive, territorio in cui normalmente si sedimenta il vissuto, e che si stratifica in una memoria che riposa invisibilmente nelle cose e nelle persone e che può essere definita come l’anima di quel luogo.
Da qui dunque la necessità di riallacciare, ritessere i fili della memoria, e l’importanza di interventi come quelli di Villaggio Eva (Ecovillaggio autocostruito) e l’Associazione MISA che hanno elaborato il progetto dello Statuto dei Luoghi con il quale la popolazione di Pescomaggiore ha partecipato attivamente a definire principi e regole della ricostruzione e in parallelo a questa, interventi da parte di artisti che hanno pensato che l’attività pratica fosse lo strumento più efficace di risensibilizzazione dell’ambiente, di riadattamento percettivo dello spazio e di rielaborazione positiva del trauma nella memoria di un trascorso oramai passato.
Ma l’arte nello stato di emergenza del post terremoto può rimanere se stessa o deve reinventarsi soprattutto a livello del metodo? Quello che emerge è che l’artista deve adottare un metodo diverso da quello a cui è abituato a condurre nel suo studio, dove l’opera viene portata a compimento in solitudine; qui, invece, egli deve esplorare il territorio, deve conoscere la gente, vivere per un certo tempo assieme, apprendere la loro storia, le loro abitudini, affinché nasca una reciproca fiducia e si incominci il discorso. L’interazione dell’artista con la collettività, è anche la precondizione perché nasca l’idea di un progetto. La proposta deve avvalersi di una cornice mobile, flessibile, aperta alle varianti progettuali che vanno via via emergendo, insomma una struttura, e non già un’opera definita, che consenta di dialogare con le persone.
Si prospetta dunque un diverso senso del fare arte che qui viene opportunamente illustrato in un percorso costellato da numerose e interessanti esperienze artistico-sociali.
Ugo La Pietra
All’insegna dell’auspicio che nasca finalmente una disciplina come “Abitare la città”, La Pietra spiega che: “Questa disciplina dovrebbe dare l’opportunità a una serie di operatori e soprattutto ai creativi, di dare un significato e un valore a quel territorio che è trascurato dagli architetti che si occupano spesso e volentieri di costruire case sempre più alte e spettacolari e sia dai designers che si occupano quasi sempre di progettare oggetti per soddisfare le nostre piccole e grandi manie quotidiane e domestiche, ma anche di tutti quegli artisti che hanno sempre dimenticato un ruolo che è quello di poter partecipare e contribuire all’interno dello spazio collettivo”.
E se certamente, vi sono molti modi per l’arte e gli artisti di interagire con il territorio, tuttavia è necessaria una specificazione, che può sembrare una sottigliezza linguistica, ma che invece è di grande importanza perché implica una vera e propria rivoluzione metodologica su cui La Pietra dichiara di essersi impegnato per molti anni, e cioè che si passasse dall’arte nel sociale – dove per lo più l’artista porta l’opera che ha pensato e realizzato nel suo studio – ad un arte per il sociale dove l’artista progetta e realizza l’opera stando sul territorio, vivendo nel territorio a contatto con la gente di quel luogo, valorizzando le risorse e le esperienze creative e artistiche di quella realtà. Più in generale nel suo testo si afferma che spetta al creativo, all’artista, inteso come la figura che gode di una particolare sensibilità e finezza, rilevare le anomalie urbane del funzionamento della città intervenendo creativamente con proposte concrete. E La Pietra dimostra di conoscere molto bene i problemi della città di Milano, da quelli relativi ai condomini, alle situazioni di degrado e di abbandono della periferia a quelli causati dall’immigrazione, mostrando militanza attiva e impegno civile, oltre la capacità di leggere positivamente le situazioni apparentemente irrecuperabili.
Ricorda con dovizia di particolari le trasformazioni storiche della città, la sparizione delle identità dei luoghi e le proposte per riportare nel presente alcune delle cose del passato. Insomma in questo testo sono riportati stralci del vissuto concreto di un architetto che vive la contraddizione tra ciò che è la sua visione ideale della città elaborata teoricamente e la realtà che si viene trasformando anche, talvolta, al di fuori del controllo tecnico-amministrativo.
Racconta come le sue indagini esplorative della città e le sue esperienze creative siano confluite nella sua vita didattica nell’ambito del Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate dell’Accademia di Belle Arti di Brera fondando un nuovo indirizzo intitolato “Progettazione per l’impresa” dove, puntualizza, la parola “impresa” non è da intendere l’artigiano, il Comune o la Regione, in quanto la progettazione creativa va fatta e ideata come solo un artista può fare, pensando all’impresa che può essere tante cose a partire dal negoziante sotto casa.
Nel testo è poi riportata anche una interessante interlocuzione di La Pietra con l’artista Nannicola e con la storica dell’arte Cherubini.
Barbara Giorgis
La Giorgis rileva che Pasolini concepiva la tradizione come ciò che è a misura dell’uomo e della natura. Pensare a luoghi “a misura d’uomo è ancora possibile, rifiutando l’omologazione e inventando forme fatte di misteriosa e audace, quanto rivoluzionaria tenerezza”. Per Pasolini l’uomo per vivere in modo dignitoso non necessita di tante cose: vestire con decoro, vivere in una casa situata in un luogo che sia abitato da persone che non diano pena, avere uno spazio intimo in cui poter raccogliere con ordine il proprio lavoro, una stanza di lavoro arredata da quadri scelti, un tavolino antico con attorno sedie e persone, indice di una necessità di entrare in relazione con gli altri. Questo il suo spazio ideale, la caratteristica di un luogo che offrirebbe ordine e dolcezza al lavoro e alla vita. Essere dunque messo nella condizione migliore per esprimere il meglio di se stesso. Ma già questo è un sogno: gli umili desideri degli uomini sono ostacolati in partenza da una terra inospitale rispetto alla quale tutto è vissuto all’insegna della contraddizione.
Qui si coglie che il suo superamento incomincia con la realizzazione dei desideri attraverso il sogno o anche con il semplice attivarsi di una fervida immaginazione che si farà reale nella scrittura poetica. Occorre ricordare che è stato all’interno della città che è nata la scrittura e con essa la legge, nel senso che la civiltà si fa strada delimitando confini ed esercitando il dominio su una certa parte del territorio e delle cose ivi presenti. Ora l’isolamento di quella parte di territorio costituisce il fondamento della ripetizione dell’isolamento delle parti all’interno dello stesso, a tal punto che la parte più piccola può essere assunta come ciò che indica il tutto. Si afferma che le lettere degli alfabeti siano nate per una sorta di riduzione stilizzata delle immagini che rappresentavano le prime attività dell’uomo che staccandosi dalla vita in simbiosi alla ciclicità con la natura, potevano rispecchiare questi ambiti, non semplicemente in senso contemplativo ma esercitando su di esse il dominio in forma stabile, e predisponendo le forze perché quel confine non fosse violato. Il dominio del territorio avviene innanzitutto delimitandolo, apponendo sui vertici del confine delle pietre. È così che si viene ad istituire il nomos della terra che rappresenta l’origine o le prime forme di diritto, ovvero la regola, la legge secondo cui l’individuo e la collettività o la società arcaica fonda il possesso della Terra, attraverso il costituirsi degli Stati, giù giù, fino al nostro attuale diritto internazionale, che ha in vista il dominio della Terra sulla base di una forma di diritto universale.
Carlo Tognolina
Il testo di Tognolina, tenta di fare una sintesi del Convegno avanzando anche elementi di critica all’interpretazione dell’arte nel e per il sociale. Questi rilievi sono stati per così dire indotti da una riflessione sulla diversità dei presupposti teorico-pratici delle relazioni, che inducevano a pensare che forse lo studente si sarebbe trovato nelle condizioni di non raccapezzarsi più, se qualcuno non avesse provveduto a fornire loro una chiave di lettura che le tenesse assieme.
Peraltro questo meccanismo si verifica normalmente anche all’interno dei corsi accademici. In fondo tutti i docenti, si sentono autorizzati a raccontare il proprio discorso senza esplicitare il differenziarsi del proprio punto di vista da quello degli altri, in modo che viene lasciata all’ascoltatore o al discente il compito certamente più difficile, di fare la sintesi, ovvero di trovare quella relazione per la quale le stesse differenze appaiono come tali, e cioè identiche. L’antinomia è apparente. Infatti se le relazioni appaiono isolate le une dalle altre, non può nemmeno apparire quell’identità per la quale solamente un testo è autenticamene differente dall’altro. Mentre occorrerebbe comprendere come solo in relazione all’individuazione di un problema che attraversa tutti i discorsi, è possibile poi assumere in modo consapevole e libero la propria posizione senza che ciò possa essere condizionante per gli altri. Ne è venuto fuori un testo complesso in cui si traccia il percorso di ricerca dei docenti di Decorazione, di cui il Convegno e il libro ne sono una parte. Un percorso che propone una riflessione a 360° su che cosa sia l’arte ai nostri giorni.
Vincenzo Sorrentino
Sorrentino con il suo testo vuole portare l’attenzione su quel singolare rapporto, arte/territorio che connota la realtà alla quale l’artista appartiene per nascita e formazione, cioè Napoli e il suo circondario. Mira, in modo abbastanza sorprendente, ad evidenziare “la natura conflittuale dell’ingerenza del moderno in quelle aree geografiche che non lo hanno concepito, ma lo hanno solo subito”. E spiega perché si tratta di una modernizzazione forzata. Napoli ha avuto una storia sociale e culturale degli ultimi due secoli caratterizzata da un certo oscurantismo che l’ha fatta rimanere indietro; non ha potuto far proprio il contenuto di progresso e innovazione propri dell’illuminismo, e quindi non ha avuto il tempo necessario per assimilare il portato della modernità, che l’attuale classe dirigente intende forzatamente imporre, nel tentativo di allinearsi alle altre città europee, come ad es. il Centro Direzionale e la piazza Garibaldi dove si evidenzia come la modernità sia una forma di omologazione stilistica, che prescinde dalla storia locale, e da una effettiva partecipazione alle scelte da parte della popolazione. Certo la critica di Sorrentino alla città di Napoli e a suoi dintorni è radicale, sembra non salvare nulla, rileva un quadro desolante della situazione, e anche molti interventi che dovrebbero essere i segni di una riqualificazione artistica del territorio, sembrano piuttosto avere un ruolo di mascheramento del disagio sociale. Se la città è vissuta come qualcosa di estraneo, come un luogo che esprime anche nelle sue forme decorative distacco se non repulsione, si comprende che la posizione critica di Sorrentino verso il modernismo intende essere soprattutto una critica radicale verso quel sistema pervasivo di corruzione di tutte le cose, che in definitiva è l’interesse economico, a cui sembra soggiacere anche l’arte. E per questo arriva a concludere che “occorrerebbe riportare fuori dall’oblio una verità dell’arte da troppo tempo sottaciuta e repressa dalle direttive di mercato”. Ora qual è o in che cosa consiste la verità dell’arte da troppo tempo repressa? Quale sarebbe la verità dell’arte che è entrata nell’oblio, che è stata dimenticata o rimossa?
Qui Sorrentino sembra alludere alla grande arte della Tradizione, a quell’arte che assieme alla religione e alla filosofia costituiva dei sistemi fortemente unitari, dove il valore dell’artista veniva riconosciuto, e l’immagine dell’arte era carica di valori filosofici ed estetici ammirati ed apprezzati dai ricchi e dai poveri, a livello locale e a livello internazionale e che definivano l’identità di un territorio dove la collettività si sentiva fiera di appartenere.
Valeria Tassinari
Tassinari propone l’idea di interpretare la città di Milano come un laboratorio di osservazione, dove esercitare una lettura storico-critica, ma soprattutto sensoriale ed emozionale, del rapporto tra opera d’arte e città. I presupposti teorici di questa idea sono già tutti presenti in una frase d’esordio del suo testo: “O il nostro patrimonio nel suo insieme, nel tessuto vivente della città e del paesaggio ridiviene un luogo di coscienza di sé del cittadino e un centro generatore di energia per la polis, o il suo destino è perire”. Che il titolo di questo testo sia La città come contesto e destino, sta ad indicare che Tassinari prende sul serio la conclusione di quella proposizione e dunque la radicalità della sua posizione dipende forse anche dall’avvertire che tutto sembra orientato verso un tragico destino, a cui intende certamente opporsi con slancio e determinazione assieme ai suoi studenti.
Assume innanzitutto che la città è il luogo in cui si determina quel surplus di energie e di risorse che consente anche la produzione di opere che non hanno semplicemente una funzione utilitaristica, legata alla sopravvivenza, ma vanno a costituire il patrimonio artistico-culturale, che si traduce nella vita stessa della città.
Quindi si tratta di ritornare ad avere a che fare con l’ambiente in modo diretto, evitando se possibile di essere costantemente interfacciati con gli strumenti tecnologici, che stanno progressivamente determinando un’anestesia percettiva che riduce tutto alla percezione uniforme e asettica del virtuale.
Unitamente all’interpretazione storico-critica si tratta di fare un’esperienza diretta delle opere d’arte nei luoghi in cui sono state collocate in modo che si inneschi tra l’opera e chi la guarda una relazione sensoriale ed emotiva più ricca e motivata.
È con questa premessa che si irradia a centri concentrici, a partire dall’Accademia, il viaggio esplorativo della città di Milano, che viene opportunamente illustrato nel testo, che rimane una traccia che il lettore potrebbe essere invogliato a ripetere anche perché l’esperienza, sensoriale ed emotiva, qui è considerata altrettanto importante dell’analisi interpretativa storico-critica della città.
Sergio Nannicola
Per Nannicola l’arte, richiede quell’impegno sociale che non rifugge dall’assumere anche il carattere esplicito della denuncia. Nel suo testo afferma che è in relazione alla contingenza di quelle emergenze, di cui si fa carico l’artista, che si vengono a costituire a mano a mano le stratificazioni di contenuti che tessono quella memoria collettiva che consente di far evolvere i contesti pubblici e privati in maniera positiva.
È infatti nella relazione tra il segno artistico in rapporto al contesto (ad es. stato di emergenza post terremoto) che emergono sia le ragioni che le contraddizioni più profonde e intime della produzione artistica.
La quale manifesta così in maniera palese l’interdipendenza dei rapporti tra luogo-tecnologia-materia-linguaggio e contesto culturale. Sinergie che in qualche modo aprono nuovi orizzonti alla visione, allorché nelle varie modalità con cui si realizzano opere nello spazio pubblico si denunciano i malesseri e i fallimenti della società contemporanea.
Tradizione e innovazione sono polarità antitetiche che tuttavia si possono ritrovare in contenuti trasversali fuori dagli schemi, che vanno a collocarsi nell’ambito della sperimentazione e delle necessità comuni diversamente condivise, dove peraltro nessun successo è garantito.
Nannicola, poi, riporta alcuni spunti interessanti sia in relazione agli orientamenti tematici e metodologici assunti dal Biennio di Decorazione (in collaborazione con il Triennio), sia spunti di riflessione e suggerimenti operativi che sono stati colti dagli studenti nel Convegno, a cui fa seguire una lettura sintetica dello stesso. Molto interessanti sono le sue opere riportate in questo libro, realizzate nel tempo della ricostruzione post terremoto dell’Aquila e che sono state oggetto della recente pubblicazione Rinascere con l’arte.
Marco Pellizzola
Pellizzola propone un progetto artistico di arte ambientale in grande scala, da realizzare con gli studenti della scuola di Decorazione insieme ad altri studenti dell’Accademia di Brera. La testimonianza di Pellizzola ha un particolare valore perché documenta, in modo analitico, tutte le fasi che dalla formulazione del progetto (passando per le varie fasi esecutive) portano poi a compimento l’opera.
Si tratta di un progetto straordinariamente complesso, che dimostra la capacità di formalizzarlo in modo da essere accolto dalle istituzioni interessate, e di saper organizzare il coinvolgimento degli studenti dell’Accademia nella realizzazione dell’opera.
Ma soprattutto, si tratta di una esemplificazione pratica di una metodologia didattica che prevede la partecipazione degli studenti direttamente ad una esperienza professionale, straordinaria, che solo eccezionalmente è possibile sperimentare, anche se per Pellizzola non si tratta certo di un caso sporadico, semmai costituisce un tratto qualificante di un modo di insegnare e praticare l’arte.
L’operazione ha tutti i requisiti teorici ed operativi che Bignardi ha indicato come fondativi dell’arte ambientale, vale a dire l’idea del museo aperto, l’opera godibile da parte di tutti, la riqualificazione di uno spazio che sarebbe rimasto anonimo, gli effetti positivi derivanti da una percezione collettiva della cura per il luogo, nonché l’evocazione di echi profondi ed ancestrali prodotti dal soggetto tematico dell’opera, che meriterebbero certamente di essere ulteriormente approfonditi.
Un tratto qualificante dell’operazione di Pellizzola è anche quello di mettere in relazione la dimensione artigianale dell’esperienza artistica con quella virtuale, mass mediologica. Si potrebbe dire che è perfettamente consapevole del problema del nostro tempo e cioè da un lato il riferimento alla grande tradizione dell’arte e dall’altro all’uso di una strumentazione tecnologica, che seppure in funzione documentativa e divulgativa dell’immagine dell’opera d’arte, lascia sussistere come impregiudicata tutta la sua problematicità.
Antonello Ciccozzi
Analizza il fenomeno della lenta e progressiva assuefazione della popolazione alla retorica politico-amministrativa che nasconde la verità,“promettendo bellezza mentre si costruisce il degrado”. E va alle radici del problema.
La riflessione filosofica sugli inganni dell’immaginazione porta a rilevare che la stessa può diventare un’occasione di controllo sociale per una capacità delle immagini di nascondere la realtà proprio mentre la rappresentano.
Infatti l’immaginazione, direbbe Kant, è quella facoltà trascendentale senza la quale la conoscenza sarebbe impossibile. Sulla base di questo presupposto Ciccozzi distingue due forme di immaginazione: una come processo e dunque come metodo che mira a dare una successione diacronica ordinata delle immagini in vista dell’unità organica alle parti; l’altra, invece, come produzione di un’immagine che viene isolata dalla processualità. Vale a dire una parte della realtà che viene ritagliata e assolutizzata come un tutto, che si fa figura retorica (sineddoche), che nasconde della realtà quella relazione tra le parti costituente l’organicità della visione unitaria della totalità, e che, nel concreto, consentirebbe in più modi di rilevare il degrado, la frammentazione, il disordine, ecc., insomma tutto quello che il potere politico istituzionale tende a rimuovere per avere un facile consenso sulle proprie scelte.
Franco Summa
Summa propone “L’arte urbana” quale contributo alla realizzazione dell’“idea di una città intesa come filosofia di vita, proiezione di un desiderio di bellezza”. Si tratta quindi di rilevare e considerare le qualità specifiche della città mediterranea tenendo conto della memoria storica, della accoglienza, della vivibilità e della bellezza.
Centrale nella poetica di Summa è il rapporto tra arte e città. Quindi cerca di definire teoricamente la specificità del fare arte urbana come l’arte della città. Altrettanto importante è il problema del rapporto tra il soggetto e l’opera d’arte, nonché il tema della partecipazione alla progettazione e alla realizzazione dell’evento artistico.
Summa fa un tragitto che è contemporaneamente teorico e pratico, attraverso nove opere emblematiche del suo percorso artistico, illustrando la metodologia, le ragioni storico-ambientali, e sottolineando il valore artistico delle scelte formali che giustificano l’intervento.
Matilde Marzotto Caotorta
Marzotto Caotorta illustra in un breve ma intenso testo il programma della fondazione La Raia che inizia la sua attività nel 2013 interrogandosi sul tema del “paesaggio dei filosofi e degli artisti” e con l’incontro nello stesso anno, tra il filosofo Elio Franzini, e lo scultore Remo Salvadori con tre installazioni permanenti.
Segue nel giugno 2015 il progetto biennale di residenza e creazione artistica: “Paesaggi in movimento” in collaborazione con Gilles Clément, maître à penser del paesaggio contemporaneo, e i “Giardinieri militanti del Terzo Paesaggio” del collettivo Coloco.
Coloco ha esplorato le relazioni tra il paesaggio e la vita all’interno de La Raia, che si estende sulle colline disegnate dalle vigne tra Gavi e Novi Ligure: 180 ettari su cui si affaccia l’immensità della catena alpina. Un complesso ecosistema di straordinaria biodiversità, dove coabitano l’azienda agricola biodinamica, una scuola steineriana e la Fondazione.
La posizione del teorizzatore del Terzo Paesaggio, si colloca nell’ambito di una critica radicale nei confronti dell’attività trasformatrice del territorio da parte dell’uomo. Si auspica che la natura, quella abbandonata, non antropizzata, anche se oramai residuale nell’ambito di territori fortemente urbanizzati come quelli della città, sia osservata con più attenzione, e venga nel contempo valorizzata la ricca biodiversità della vegetazione spontanea incominciando a concepire l’idea di una riconversione del costruito in territorio naturale. Inoltre ci si augura che il linguaggio dell’architettura non sia riservato solo al costruire, ma sia un progettare che sia inclusivo di colline, montagne pianure, ecc. come spazio che deve essere conservato e custodito nella direzione di un rapporto più articolato e complesso, che abbia al centro uno sviluppo compatibile.
Conclusioni
La sopravvivenza del pianeta è messa a rischio da quello stesso progresso tecnologico che è necessariamente chiamato a porvi rimedio.
Se in premessa si era cercato di fornire una chiave di lettura del contesto culturale, in cui sono certamente inserite le relazioni del Convegno e i successivi Contributi e Esperienze – mettendo in evidenza posizioni culturali fra loro opposte, anche se entrambe attraversate dalla medesima situazione aporetica – con questo ultimo capitolo si intende fare un passo avanti rispetto al risolvimento di quella aporetica.
Quando si è sollecitati a guardare alla natura come base della vita, si dimentica che l’uomo inizialmente trae la sua potenza dal proprio corpo inteso come strumento per così dire naturale; ma è poi in relazione alla costruzione di strumenti che possano essere considerati come l’estensione del corpo umano che si può constatare quell’accrescimento della potenza che gli consente di trasformare la terra (e non certo sulla base di desideri che si limitano ad essere enunciati).
È quindi sul fondamento della sua essenza tecnica che l’uomo sviluppa il dominio sulla Terra. Allorché si sostiene una sorta di armonia fra l’uomo e la natura, si dimentica che egli non accetta passivamente che sia la legge di natura a determinare il patimento (ad esempio del dolore o della sua morte), in quanto la conoscenza tecnica in generale è intrinsecamente una forma più o meno indiretta di esercizio del dominio sulla natura per allontanare indefinitamente quella morte che essenzialmente rifiuta.
I documenti che attestano lo stato di emergenza riguardo alla sopravvivenza del pianeta sono tanti, ultimo quello della già citata Conferenza di Parigi; ma se ci si chiede chi lancia questo allarme, la risposta è: il mondo della scienza, attraverso il monitoraggio satellitare della terra, gli strumenti di rilevamento dei cambiamenti climatici, l’accertamento della stessa pericolosità degli strumenti atti al disinquinamento, la ricerca di fonti alternative di energia, ecc. Di conseguenza, l’attendibilità riscossa dalle ipotesi della scienza sul rischio della sopravvivenza del pianeta è la forza dell’attendibilità che sostanzialmente tutti riconoscono a questa disciplina.
Siamo perciò arrivati al paradosso che con il progresso o senza il progresso, il destino della Terra appare inevitabilmente segnato, in quanto da un lato sembrerebbe che sia proprio il progresso inaugurato dalla scienza sperimentale ad averci portato sull’orlo dell’abisso (e perciò dovrebbe essere rifiutato o perlomeno contenuto); dall’altro stiamo asserendo che l’abbandonare la strada del progresso tecnico-scientifico sarebbe altrettanto catastrofico per l’esistenza dell’umanità.
Nonostante l’angoscia che si accompagnerà anche nei progressi futuri della scienza, la strada di fatto irrinunciabile con cui il pianeta deve fare i conti è quella comunque tesa allo sviluppo del dominio. È infatti solo portando a manifestazione il culmine della potenza che tale dominio può essere definitivamente oltrepassato. D’altra parte l’onnipotenza della tecnica, non porta a negare tutte quelle variegate forme di rapporto con la natura che solo apparentemente possono essere considerate come alternative, appunto perché la scienza non nega la proliferazione dei fini, tendendo ad essere comprensiva di ogni finalità l’uomo voglia desiderare e raggiungere.
Infatti l’avvento dell’effettiva potenza della tecnica si accompagna sì all’angoscia, ma anche ad un livello mai conseguito di soddisfazione dei desideri dell’uomo. Soddisfazione e angoscia sono termini che si accrescono anch’essi indefinitamente all’interno della contraddizione inaugurata dall’essenza tecnica dell’uomo, destinati a raggiungere il culmine, per essere poi abbandonati per una dimensione, radicalmente diversa, in cui tale contraddizione è definitivamente oltrepassata.
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