Nelle sue rappresentazioni si parla di solitudine e di psicofarmaci, di stupri e di sevizie, si rivela una soglia eschilea di dolore assoluto ma anche un limen di assoluto desiderio di amore e di vita

di Luigi Fabio Mastropietro

Sarah Kane muore suicida in una clinica londinese il 20 febbraio del 1999, a 28 anni. Nell’arco di una vita che è appena un sussulto, scrive solo una decina di opere teatrali che tuttavia, di fatto, rivoluzionano il teatro contemporaneo.

1.   La meteora in fiamme

Ho scritto sempre e solo per sfuggire all’inferno e non ha mai funzionato; tuttavia quando ti siedi a guardare qualcosa e ti ritrovi a pensare che sia la migliore espressione possibile di quell’inferno, allora, in quel preciso momento, scopri che forse ne valeva la pena.

(Sarah Kane, Royal Holloway College, London, 3/11/1998)

Sarah Kane è una meteora in fiamme che, bruciando se stessa, incendia il mondo. Inventa una scrittura teatrale che rappresenta l’abisso della realtà attraverso un registro tragico radicale. La prova della sua capacità di incidere segni sui tessuti molli della coscienza dell’uomo di fine millennio è data dall’incredibile successo delle sue pieces che, nel giro di pochi mesi, sono portate in scena in tutto il mondo: in Europa, negli Stati Uniti d’America, in Sudafrica, in Brasile, in Australia e, dopo la sua scomparsa, anche in Italia.

La scrittura scenica di Sarah Kane registra puntigliosamente la devastante violenza “storica” che domina il vissuto quotidiano del mondo. Nelle sue rappresentazioni si parla di solitudine e di psicofarmaci, di stupri e di sevizie, si rivela una soglia eschilea di dolore assoluto ma anche un limen di assoluto desiderio di amore e di vita. Ed è proprio la questione dell’assoluto, in senso ontologico ma anche teleologico, insieme al recupero della dimensione tragica, ad affascinare di più dell’opera di questa giovane autrice, perché rappresenta lo sbocco naturale – e l’inestricabile nodo – di un tormento esistenziale assoluto.

Basti pensare al suo ultimo lavoro, 4.48 Psychosis, uno dei più straordinari monologhi mai scritti per il teatro, che registra le ultime parole di una donna rinchiusa nel reparto psichiatrico di un ospedale, prima di suicidarsi.

Tuttavia, l’opera di Sarah Kane non si riduce certo a una catarsi autobiografica, ma piuttosto segna una pietra miliare nella scrittura teatrale di tutti i tempi, grazie alla presenza di un profondo sentimento etico, di una straordinaria capacità narrativa, di una magistrale imagery e all’uso innovativo e sconvolgente dei più diversi registri del linguaggio umano. Un mix esplosivo che innesca una potente arma drammaturgica nelle mani dei suoi personaggi fatti di carne e di sangue.

A una prima analisi, la scrittura teatrale di Sarah Kane, condensata in poche opere concentrate in un brevissimo lasso di tempo, si colloca nell’area “eterodossa” e dissacrante della drammaturgia inglese di Harold Pinter, Edward Bond e John Osborne, ma in realtà attinge alla tragedia classica greca e all’opera di Seneca, oltre a nutrirsi in profondità del pensiero di Antonin Artaud. Certamente, come era già accaduto con le opere dei drammaturghi inglesi degli anni ‘90, i suoi drammi, da Blasted a Phedra’s love, fino a Crave e a 4:48 Phsychosis, sono ferocemente criticati al loro apparire. Eppure queste stesse opere sono sempre più rappresentate negli ultimi anni e non solo nei teatri inglesi, a dimostrazione di quanto si siano innervate nella coscienza critica occidentale. Personalmente, ricordo di aver assistito nel 2003 a un memorabile allestimento di Phedra’s love, curato dall’Accademia degli Artefatti di Roma, con la traduzione del testo originale di Barbara Nativi. Chi assiste a un dramma scritto da Sarah Kane, si trova innanzi a un piccolo grande miracolo di palingenesi drammaturgica. Il paesaggio mitologico e simbolico della tragedia classica greca è rifondato e rinvigorito in accordo con i registri della sensibilità contemporanea e tradotto in un’azione scenica asciutta e rigorosa, mai compiacente né compiaciuta della sua spettacolarità.

Tuttavia, sulla vita e sulle opere di Sarah Kane, come su altri “casi” più recenti dell’arte novecentesca, vortica ancora una nube mediatica che genera comportamenti schizofrenici e compulsivi. L’eponimo Kane diviene in poco tempo un corpo celeste immerso in un’atmosfera instabile e turbolenta, una sorta di supernova gassosa a rischio di implosione. Da una parte le untuose bordate di presunzione scandalistica, penosamente codine, di buona parte dei critici e dei benpensanti dell’establishment culturale londinese, hanno l’involontaria e inevitabile conseguenza di incrementare la notorietà dell’autrice presa di mira. Dall’altra, la spontanea ammirazione da parte dell’intellighentia più sensibile e attrezzata, geneticamente ben disposta nei confronti dell’arte in odore di avanguardia, complica, “inquinandola”, la comprensione del reale valore letterario e teatrale dell’opera della drammaturga inglese.

Eppure Sarah Kane si colloca oggi al centro dell’immaginario culturale occidentale alla pari delle due grandi figure della poesia femminile del Novecento, Anne Sexton e Sylvia Plath, odiate e vituperate da alcuni “detrattori di genere”, ma anche ammirate e venerate da molti altri fino alla santificazione. Processo agiografico a parte, è un dato incontrovertibile che Sarah Kane è stata letta e vista in scena in tutto il mondo. Per questo si può dire che è una delle poche autrici contemporanee che ce l’ha fatta – anche se probabilmente solo a costo della vita. Sarah Kane ce l’ha fatta perché è una delle poche autrici di teatro con la quale il pubblico ha instaurato un vero dialogo e un reale confronto comunicativo, nonostante la fuorviante pollution di certa critica. I suoi incandescenti “grumi” teatrali, Blasted, Cleansed, Crave, Phaedra’s Love e il suo accorato testamento, 4:48 Psychosis, sono stati tradotti e rappresentati in decine di lingue, quali testimonianze preziose dell’ineludibile retaggio culturale del secondo millennio. Se mai esiste un solo baricentro nel teatro di Sarah Kane, questo risiede nel cuore nero del mondo, nel “luogo del conflitto, con una fortissima tensione a rivisitare le aberrazioni del XX secolo e a immaginarne di nuove per il XXI”[1].

Queste pagine, estratte da un saggio più ampio in corso di completamento, si propongono di indagare il paesaggio – e il mistero – della scrittura teatrale di Sarah Kane – da sempre in bilico tra le suggestioni del mito classico e le irresistibili pulsioni dell’azione scenica di avanguardia, per rivelare che il suo teatro non solo si nutre in profondità del pensiero del grande Antonin Artaud ma, in qualche modo, ne costituisce la messa in scena definitiva, anche e soprattutto quando evoca il capro da sacrificare a Dioniso. La drammaturgia di Sarah Kane colloca di nuovo al centro della scena il tràgos della tradizione greca classica e la reincarnazione postmoderna lo rende ancora più forte. Così come voleva Artaud, la cerimonia tragica di espiazione rivela il senso profondo della realtà e il segreto del fatale dolore dell’uomo che ha ucciso Dio.

2.   Teatro della catastrofe e teatro della crudeltà

Il teatro della catastrofe
Solo a volte siamo d’accordo.
Il riso nasconde la paura.
L’arte è un problema di comprensione.
Non vi è messaggio
L’attore è un diverso.
Il pubblico non può afferrare tutto;
e neanche l’autore.
Lottiamo per amare.
Il critico deve soffrire come chiunque altro.
Il testo è importante.
Il pubblico è diviso
e torna a casa
disturbato
o sbalordito.

(Howard Barker, Arguments for a theatre)

A meno di tre settimane dalla morte di John Osborne, il 12 gennaio 1995, una venti­treenne ignota al pubblico dei teatri londinesi debutta con Blasted (Dannati) all’Upstairs Theatre del Royal Court di Londra. Il dramma somiglia in maniera sconcertante al già mitico Ricorda con rabbia, rappresentato da John Osborne nel 1956. Pochi critici, come Richard Morrison su The Times, notano immediatamente le similitudini: “Solo tre settimane fa, dopo la morte di John Osborne, accusavo l’as­senza di rischio [danger] nel teatro inglese contemporaneo. Gli spettatori del Royal Court devono aver sorriso nel sentire questo. Infatti loro sape­vano ciò che io ignoravo”[2].

Tuttavia, la stessa Sarah Kane più tardi si dirà convinta che la direzione del Royal Court avesse fatto tutto il pos­sibile per ostacolare il debutto di Dannati: “Il Court aveva fissato la rappresentazione in un momento morto della pro­grammazione. Non sapevano bene cosa farsene. Molte perso­ne della direzione non volevano metterlo in scena poiché ne erano un po’ imbarazzati. Allora l’hanno infilato in un spazio libero, subito dopo Natale, quando a teatro non ci va nessuno, sperando che non se ne sarebbero accorti”[3].

Dopo la morte di Sarah Kane, alcuni critici scrissero perfino che lo sdegno e il clamore scandaloso che avevano accolto Dannati al momento del suo debutto sembravano in qualche modo artificiosi. Sull’Independent, Paul Taylor osservava: “Sono stato testimone, subito dopo la prima, del momento in cui due miei colleghi di altre testate hanno deciso di esasperare le loro impres­sioni dello spettacolo in modo da creare una notizia, dando inizio alla carica. Da giornalista, la mia supposizione è che, innanzitutto, nessuno dei due sia stato realmente offeso dal dramma, ma soprattutto che il loro comportamento non sia stato dettato dalla malizia, ma da un pia­cere giornalistico quasi infantile che li ha portati a pensare che sarebbe stato un bel colpo riuscire a togliere il teatro dal ghetto delle pagine tea­trali per portarlo all’attenzione del grande pubblico”[4].

Ma se pure Dannati è nato nell’alveo di un finto scandalo e può sembrare iperbolico affermare che ha colto lo spirito del tempo allo stesso modo di Ricorda con rabbia, ispirando un’intera generazione di drammaturghi, è comunque corretto sostenere che probabilmente è “l’opera contemporanea meno vista e più chiacchierata”[5], come scrive James Macdonald, il regista della prima messa in scena del dramma.

Sarah Kane si giudica una drammaturga ma anche una donna di teatro nell’accezione più ampia: “Sono in primo luogo una scrittrice. Poi sono una regista. E se necessario, in alcuni casi, recito”[6]. Lungo il breve arco della sua carriera, nonostante la sua fama di “scrittrice del Royal Court”, Sarah Kane scrive per molti altri teatri. Infatti, non appena sono terminate le repliche di Dannati, si sposta al Notting Hill Theatre di Londra, dove scrive e dirige la sua seconda opera, Phaedra’s love (L’amore di Fedra), nel maggio del 1996. Torna al Notting Hill Theatre anche nell’ottobre del 1997 per curare la regia di Woyzeck di Georg Büchner. Si mostra sempre molto interessata a colla­borare con i teatri che promuovono nuove forme di scrittu­ra e già nel marzo del 1994 diviene “socio letterario” del Bush Theatre, mentre nell’agosto del 1996 è resident dramatist della nuova com­pagnia itinerante Plaines Plough: “Credo che compagnie come la Plaines Plough, la Bush e la Royal Court siano importanti perché producono opere innovative. Sono queste compagnie a costruire la storia del teatro”[7].

Sarah Kane prova anche a recitare, seppure con riluttanza e solo “sotto pressione”[8]. Infatti, nel 1998 interpreta la parte di Grace nelle ultime tre repliche di Purificati, dopo un infortunio occorso all’at­trice Suzan Sylvester. In una lettera indirizzata a Edward Bond, parlando della sua esperienza di attrice in Purificati, scrive: “Ho scoperto quanto sia dif­ficile recitare e, al tempo stesso, quanto sia facile. Non lascerò più che registi e attori mi dicano cosa sia o non sia possibile rappresentare”[9]. Fatta eccezione per Skin, un cortometraggio per la televisione di dieci minuti, la scrittura della Kane è esclusivamente tea­trale. Questa scelta è in parte attribuibile all’immediatezza che contraddistingue il medium teatrale, sia per gli attori che per gli spettatori: “È da sempre la forma d’arte che amo di più perché è viva. Nel teatro ci sarà sempre un tipo di rapporto tra l’opera e gli spettatori che non è possibile avere in un film. Durante la proiezione del mio corto, Skin, le persone potevano uscire o cambiare canale o fare altro, e nella per­formance non cambiava nulla. Ma con Dannati quando la gente si alza­va e se ne andava diventava parte dell’esperienza. E questo mi piace, perché il rapporto tra opera e spettatori è pienamente reciproco”[10].

La sua scelta di scrivere per il teatro è dovuta anche alla maggiore libertà concessa da questo medium rispetto alle altre arti. Dopo la messa in scena del dramma Purificati, la Kane dirà: “Ho scelto deliberata­mente di scrivere una cosa che non potesse diventare film o televisione. Il teatro non sarà l’ultima moda, ma almeno non è sottoposto a una censura diretta, cosa che non si può dire né del cinema, né della televisione”[11].

La natura “estemporanea” del teatro, seppure rituale, fa sì che ogni serata sia diver­sa dalla precedente, e questo costituisce un ulteriore motivo di attra­zione: “Il teatro non ha memoria e quindi diven­ta la più esistenziale delle arti. Non c’è dubbio che questa sia la ragione che mi porta a ritornare sempre al teatro, nella spe­ranza che qualcuno, nascosto chissà dove in una camera oscu­ra, mi mostri un’immagine che mi ustioni la mente, lasciando un marchio più indelebile del singolo momento”[12].

Sarah Kane avverte come cruciale il biso­gno di reperire un linguaggio teatrale autonomo, un linguag­gio capace di provocare delle reazioni incisive, anche se scomode o dolorose, sia sul piano emo­tivo che su quello razionale: “Alcune persone uscirono dalla sala durante le anteprime di Dannati al Royal Court, quando ancora non avevo idea del tipo di reazioni che avrebbe suscitato. Ora sono convinta che succederà sempre. Se non dovesse succedere significherebbe che forse c’è qualcosa nello spettacolo che non sta funzionando. Ho visto alcune rappresentazioni di Dannati in cui non c’era ragione di uscire, perché non c’era contatto emotivo ed era facile prendere le distanze da quanto accadeva in scena[13]”.

Il tentativo dell’autrice di rendere la rappresentazione teatrale una forma comunicativa inquietante e uncomfortable mira a sovvertire quella banalizzazione della scrittura drammaturgica che il regista Dominic Dromgoole aveva definito “finto dolore”: “Viviamo in un mondo contrassegnato da una crudeltà rampante, dallo spreco e dall’ingiustizia; lo vediamo in ogni luogo, a ogni livello. È un dato scontato. Eppure a teatro questo non ha ostacolato la gente sana, ricca e borghese dal soffermarsi su un soggetto innocuo come alberghetti, architetture, spionaggio o giornalismo e dal trovarvi più marcio che in Danimarca, più dolore che nell’Olocausto, più apocalisse che a Hiroshima”[14].

Allo stesso modo, Sarah Kane si dichiara critica riguardo al teatro contemporaneo. In un’in­tervista concessa all’inizio della sua carriera stigmatizza sia i cri­tici “che hanno il potere di uccidere uno spettacolo con il loro cinismo”[15], che la banalità del teatro stesso: “Odio l’idea che il teatro sia solo un passatempo serale. Dovrebbe essere emotivamente e intellettualmente stimolante. Adoro il calcio. Il livello di ana­lisi che si sente sugli spalti è straordinario. Se le persone facessero questo a teatro… ma non lo fanno. Vogliono starsene seduti in poltrona senza parte­cipare. Se esiste un palco per i musical e uno per l’opera, allora dovrebbe esi­stere un palco per la buona scrittura, indipendentemente dal botteghino”[16].

Per Sarah Kane “la performance deve essere viscerale. Deve metterti in diretto contatto fisico con emozioni e pensieri”[17], attraverso l’adozione di un registro linguistico atopico, asciutto e rigoroso e la messa in scena di un potente linguaggio figurato (imagery). Anche questa peculiarità rivela il forte ascendente del teatro della crudeltà di Antonin Artaud e del teatro della catastrofe di Howard Barker sulla poetica teatrale della nostra drammaturga.

Howard Barker è da sempre un artista polimorfo che si esprime, oltre che con il linguaggio della letteratura, anche con la pittura e la regia teatrale. I suoi testi sono stati rappresentati a teatro, alla radio, in televisione e persino per il teatro delle marionette, con la precisa missione di provocare un “evento catastrofico” in ossequio al Teatro della catastrofe, da lui stesso teorizzato nel saggio Arguments for a Theatre: “La tragedia detesta la politica. La tragedia detesta le buone intenzioni. Detesta tutto ciò che dimostra la soluzione di un problema. Detesta dunque l’industria del piacere, l’industria del tempo libero, l’industria dell’armonia e l’industria della riconciliazione. La tragedia è lo spettacolo del dolore reso squisito dall’arte […] La tragedia è la sola a conoscere il segreto dell’esistenza. Questo segreto è che la vita non basta. È un segreto che non si può tollerare a lungo. È un segreto che si scopre soltanto in un luogo in cui l’obiettivo principale è il segreto stesso, un luogo che è l’apoteosi del segreto, in cui tutti coloro che si muovono ed agiscono sono consumati dal segreto. Questo luogo, è il teatro”.

I testi di Howard Barker sono noti per la loro capacità di indagare senza remore e preconcetti, il potere, la sessualità e le motivazioni profonde del comportamento umano, e sono creati sulla premessa che il teatro è una necessità sociale, il luogo protetto dell’immaginazione e della speculazione morale, senza alcun obbligo di aderenza “naturalistica” alla realtà o di adesione ad una specifica ideologia. Lo spettacolo teatrale è concepito come una pubblica esomologesi in cui attori e spettatori sono chiamati insieme alla ricerca del senso e della risonanza del testo messo in scena.

Il critico teatrale James Hansford, pur riconoscendo che tutti e tre questi autori – Kane, Artaud e Barker – modellano il linguaggio teatrale per dilatarlo oltre il limite estremo, fa notare che “l’austerità e l’eco­nomia della parola caratteristiche del lavoro della Kane man­cano a questi due teorici e autori teatrali”[18] che, al contrario, spesso sembrano esaltare l’eccesso linguistico. Del resto, la stessa autrice confessa in un’intervista del febbraio 1998 di aver iniziato a leggere e apprezzare Antonin Artaud relativamente tardi: “Per un lungo periodo di tempo mi è accaduta una cosa abbastanza strana, e cioè in molti continuavano a ripetermi: “Devi proprio amare molto Artaud”, ma io non l’avevo mai letto. Un docente universitario che detestavo mi aveva suggerito di leggerlo, ma pensai: “Se proprio lui ritiene che sia bravo non ho alcuna intenzione di leggerlo”. Ho iniziato ad apprezzarlo solo di recente. Più andavo avanti e più mi ritrovavo a pen­sare: “Questa è la definizione della sanità mentale; quest’uomo è assolu­tamente sano e riesco a seguire tutto quello che dice”. Mi ha sconvolto quanto sia aderente al mio lavoro. Inoltre, i suoi scritti sul teatro sono straordinari. È incredibile che non lo avessi mai letto prima”[19].

Infatti, è evidente che Sarah Kane condivide l’auspicio di Antonin Artaud di giungere a un “teatro psicologico”[20] e a un “teatro totale”, anche attraverso l’adozione di un linguaggio figurato e figurativo, tagliente e sconvolgente, di un linguaggio metaforico che lo stesso Howard Barker definisce “bellezza e terrore”[21].  Nessun linguaggio teatrale è più immaginifico e allo stesso tempo estremo rispetto all’imagery che prorompe in scena nelle opere della giovane drammaturga. La sua scrittura teatrale riesce a trasformare il palcoscenico in una tomba improvvisata, permettendo a un uomo di ripararsi al suo interno, accanto al cadavere di un neonato. Ma poi consente al pavimento di fruttificare miracolosamente grandi girasoli. Nei suoi drammi i personaggi vengono puniti selvaggiamente e sono vittime di efferate violenze, ma in questi stessi drammi, poi, gli stessi personaggi vivono epifanie di estasi e di magia. Nella rappresentazione di Purificati, ad esempio, assistiamo all’amputazione delle mani e della lingua di Carl, ma poi vediamo Grace e suo fra­tello abbandonarsi l’uno nelle braccia dell’altro in una morbida danza d’amore.

La straordinaria scrittura scenica di Sarah Kane e la lingua parca ma illuminante dei suoi testi evocano gli elementali dei riti ancestrali e la sacralità primigenia della rappresentazione mitopoietica sui quali Antonin Artaud voleva edificare il doppio del teatro. Scene come quella di Dannati in cui Ian, accecato, viene mostrato mentre raggiunge lo zenit della dispera­zione attraverso una serrata sequenza di tableaux vivants, esprimono una visione molto vicina a quella vagheggiata da Antonin Artaud per il suo teatro della crudeltà. La stessa precarietà artaudiana dell’impianto scenico e teatrale, sia durante le prove che durante lo spettacolo, rafforza quella imprevedibilità dell’evento a cui Sarah Kane non vuole rinunciare: “Ho scelto il teatro perché è un’arte viva. Mi piace moltissimo il rapporto diretto che si viene a creare con il pubblico. Quel che faccio mentre sono al cinema non ha alcuna importanza, non fa alcuna differenza. Al con­trario, a teatro anche un colpo di tosse può cambiare lo spettacolo. Come spettatrice mi piace l’idea che posso cambiare la rappresentazione, come scrittrice amo il fatto che nessuna serata sarà mai uguale all’altra”[22].

Nello stesso articolo la drammaturga opera una distinzione ulteriore tra la performance a teatro e il testo per la performance: “Avverto in me un interesse crescente per la performance come insieme, piuttosto che per la recitazione; per un teatro che sia più avvincente delle stesse opere che mette in scena. A differenza del solito, sto incoraggiando i miei amici ad andare a vedere Febbre prima di leggerlo, perché lo considero più una performance che un dramma”.

La sua scelta di dare più rilievo alla performance che al testo teatrale, nonostante la sua apparente posizione contraria in quanto geneticamente drammaturga, risulta meno sorprendente quando si considerano le sue affermazione relative ad un altra  memorabile performance teatrale, nata comunque da una improvvisazione: “Mad, il progetto di Jeremy Weller per l’Edinburgh Grassmarket, rappresentato nel 1992, è un’opera in cui si esibisce un gruppo di attori, professionisti e non, accomunati dall’aver sofferto di una malattia mentale. È l’unico dramma ad avermi cambiato la vita”[23].

Nonostante abbia sottolineato più volte il suo bisogno di avere un pubblico in grado di comprendere la sua visione dell’universo teatrale, Sarah Kane si dimostra convinta, come drammaturga e donna di teatro, che non si debbano accettare compromessi per compiacere quello stesso pubblico. In realtà, il pubblico per cui scrive è il più esclusivo di tutti: “Non mi sento responsabile per il pubblico. Quello che penso quando scrivo è: “Che effetto mi fa questa opera?” Se sai quel­lo che vuoi ottenere, e ciò che scrivi ha un impatto su di te, è possibile che arrivi anche agli altri. D’altro canto, se hai in mente un gruppo definito di persone, e pensi che vuoi “arrivare agli undici milioni di spetta­tori che la domenica guardano ITV”, l’opera perde d’intensità. lo mi accontento di avere in mente il pubblico più ristretto possibile, e cioè me stessa, perché sono l’unica persona che sicuramente andrà a vedere lo spettacolo. Quindi cerco di fare qualcosa che possa piacermi”[24].

3.   Una stagione all’inferno: Purificati

Un teatro che sottometta la messa in scena e la realizzazione, vale a dire quanto vi è in esso di più specificatamente teatrale, al testo, è un teatro di idioti, di pazzi, di invertiti, di grammatici, di droghieri, di antipoeti e di positivisti, insomma di Occidentali.

(Antonin Artaud – dal Manifesto del teatro Alfred Jarry)

Il terzo dramma di Sarah Kane, Cleansed (Purificati), debutta nell’aprile del 1998, segnando non solo il ritorno dell’autrice al Royal Court ma soprattutto la sua prima messa in scena nella sala principale del teatro, inserita quindi fra le maggiori produzioni della stagione.

Anche il dramma Purificati è tanto spe­rimentale nella messa in scena quanto ambizioso nelle tema­tiche affrontate. Come osserva Dominic Cavendish: “La Kane ha spudoratamente abbassato il ponte levatoio del tea­tro, facendo entrare la barbarie del mondo esterno”[25]. Questo è dovuto in larga parte all’uso spregiudicato dello spazio scenico e degli effetti teatrali, tra cui spiccano “alcune tra le strutture idrauliche più straordinarie mai disegnate in un tea­tro londinese”[26]. La scenografia di Jeremy Herbert – una serie di “tableaux vivants ideati con abilità e illuminati in modo vivace”[27], in cui i personaggi “giacciono su letti d’ospedale inclinati su angolazioni violente” o “si allungano su piattaforme altissime, come mosche intrappolate sulla carta adesiva”[28] – evoca il concetto di teatro pensato da Antonin Artaud secondo il quale “il linguaggio tipico del teatro si costituirà intorno alla regia, intesa non come semplice specchio di rifrazione di un testo sulla scena, ma come punto di partenza di qualsiasi crea­zione teatrale”[29].

La scena di Cleansed si apre in una università abbandonata che è stata trasformata in una sorta di carcere, un asylum orwelliano di segregazione che rappresenta un ulteriore allontanamento della drammaturga dai modelli realistici: “Ero adirata dalla quantità di assurdità naturalistiche che si stavano rappresentando a teatro, e quindi decisi di scrivere un dramma che non potesse mai diven­tare un film, né un’opera per la televisione, né un romanzo. L’unica cosa che si poteva fare con Purificati era metterlo in scena e poi crederci o non crederci. Si potrà sostenere che non è possibile metterlo in scena, ma non può neanche essere trasformato in qualcos’altro”[30].

Il novero di fonti a cui il dramma si ispira[31] è il più ampio e variegato di tutta l’opera della Kane e nello stesso tempo costituisce una prova ulteriore del suo rifiuto di ogni pretesa naturalistica. Con tutta evidenza Purificati subisce l’influenza de Il Processo (1925) di Kafka, del Woyzeck (1837) di Büchner, di 1984 (1949) di Orwell, de La dodicesima notte (1601 ca.) di Shakespeare e della Sonata di fantasmi (1907) di Strindberg. La struttura del dramma a episo­di che, come sottolinea Susannah Clapp, “procede per accumulo, piuttosto che svelarsi”[32], si ispira al Woyzeck di Büchner, opera nella quale il rapporto tra storia e trama scompare praticamente del tutto. Il rifiuto della Kane di piegare il linguaggio alle presunte esigenze del realismo, rifiuto che aveva già caratterizzato in profondità sia la struttura drammaturgica di Dannati che quella de  L’amore di Fedra, diventa ancora più rigoroso in Purificati, parallelamente alla definizione dei personaggi e della loro funzione.

Susannah Clapp parla dei personaggi della Kane come di “rappre­sentazioni di stati vitali piuttosto che caratterizzazioni”[33]. In Purificati l’autrice apre un percorso che svilupperà poi in Febbre (1998) e Psicosi delle 4 e 48 (scritto nel 1999 e messo in scena postumo nel 2000), nei quali i personaggi vengono usati come voci di un’emozione piuttosto che come incarnazioni di atteggiamenti psicologici o di ruoli socio–culturali. La drammaturga ha, inoltre, la possibilità di confrontarsi direttamente con i suoi per­sonaggi quando, in seguito all’infortunio dell’attrice Suzan Sylvester, indossa i panni di Grace nelle ultime tre repliche di Purificati. Paradossalmente, scopre che la recitazione è un’arte al tempo stesso facile e difficile: “Non posso parlare del lavoro dell’attore in generale. Purificati richiedeva una semplicità estrema, cosa molto difficile da ottenere quando ti ritrovi completamente nuda davanti a centinaia di persone… Il primo istinto è quello di scappare via, ma in realtà quello che ti viene richiesto è molto semplice. Che cosa voglio? Che cosa provo? E come arrivo a provare questo?”[34].

Con Purificati la Kane conduce ancora più avanti il suo progetto di ridurre la lingua del testo teatrale a un crudo e tagliente minimalismo espressivo. In un’intervista dichiara a proposito: “Volevo spoglia­re il dramma di tutti i suoi elementi. Volevo rendere ciascuno di questi nella loro dimensione più piccola, in modo da rappresentare unità essenziali e dunque poetiche. Non volevo usare parole di troppo”[35]. Non a caso la struttura linguistica di Purificati è fortemente innervata dal linguaggio figurato della scrittura scenica e James Macdonald rileva che “le parole costituiscono appe­na un terzo del dramma. La parte preponderante del signifi­cato è sostenuta dall’imagery. Questo è un approccio raro nei drammaturghi inglesi”[36].

Nonostante Sarah Kane abbia scritto e rappresentato in precedenza L’amore di Fedra e il corto­metraggio Skin, e abbia curato la regia di Woyzeck, la critica accoglie tout court il nuovo dramma come il seguito di Dannati. Infatti, le recensio­ni ruotano nuovamente intorno alla rappresentazione scenica della violenza. D’altra parte, però, il tono isterico e di finto scandalo che aveva caratterizzato la risposta critica a Dannati, è generalmente sostituito da un approccio più rigoroso. Nonostante alcuni recensori vedano ancora la Kane come “una scolaretta birichina che cerca di stupire”[37] e l’opera stessa come “una sciocchezza pre­tenziosa, vestita a festa”[38], si rileva una maggiore propensione a leggere l’opera secondo canoni immanenti nell’opera stessa. Anche le testate più conservatrici, come il Daily Express, commentano che “questo dramma febbrile possiede una strana integrità. Si ha la sensazione che sia stato strappato direttamente da una visione intima dell’inferno o dallo scenario di un incubo”[39]. Anche se già in Dannati la rappresentazione scenica delle atrocità era sublimata dall’utilizzo del linguaggio figurato e figurativo, in Purificati è ulteriormente rafforzato il tentativo di provocare una reazione del pubblico attraverso una stilizzazione lirica e simbolica della scrittura scenica della violenza. Il regista James Macdonald commenta a proposito: “Quel che avviene in scena è egualmente scioccante in entrambe le opere. In Purificati, però, abbiamo cercato di mettere in luce la ragione di queste rappresentazioni di violenza e non il loro meccanismo”[40].

Tutta la violenza contenuta nell’opera è in qualche modo sublimata ed elevata a rito: partendo da una didascalia come “Tinker prende un grosso paio di forbici e taglia la lingua a Carl”, la mutilazione viene presentata in scena con un pezzo di stoffa rossa tirato fuori dalla bocca e taglia­to. L’amputazione delle mani e dei piedi è resa con un effetto simile, mediante l’utilizzo di striscioni rossi. La tecnica di questa scrittura scenica si i­spira con tutta evidenza al Tito Andronico (1590 ca.) di Shakespeare diret­to da Peter Brook a Stratford nel 1955, nel quale le azioni più efferate erano sti­lizzate in modo da “trasfigurare la violenza dandole un peso intenso, mitico, quasi astratto. E quindi dopo lo stupro e la mutilazione, Lavinia appare con strisce di stoffa rossa come simboli del sangue che le esce dalla bocca e dalle mani”[41]. In entrambe le rappresentazioni, l’intuizione centrale sembra quella di “stilizzare l’orrore per dargli una cornice rituale e quin­di creare una distanza dall’agonia in scena”[42]. Tuttavia, la violenza scenica non risulta meno inquietante per il fatto di essere sti­lizzata. Infatti, l’imagery di Purificati lascia a un critico la sensa­zione di essere “livido fino alle ossa, con lo stomaco annodato e senza speranza”[43]. Per comprendere l’importanza di tali ragio­ni si pensi al commento di Peter Brook al Tito Andronico: “Per ottenere una risposta emotiva nuova alla violenza, al san­gue e alle ripetute mutilazioni nel Tito Andronico, bisogna scuo­tere l’immaginazione e il subconscio con visioni che ricordino la profondità e la ricchezza dei riti primitivi”[44].

L’intertestualità delle fonti e la scenografia stilizzata di Purificati creano un con­trasto stridente con la modernità e la realtà, apparentemente in chiave anti-naturalista. Ad esempio, la scena in cui Carl viene stuprato con un bastone, evoca immediatamente la tortura subita da Edoardo II nell’omonimo dramma di Christopher Marlowe. Tuttavia, l’autrice spiega che questa forma di tortura “è una forma di crocifissione, usata dai soldati serbi contro i musul­mani in Bosnia. La praticavano su centinaia di persone con­temporaneamente, poi li appendevano tutti e li abbandonava­no; ci mettevano più o meno cinque giorni a morire”[45].  Ma Purificati è anche l’opera più nettamente neo-giacobita della Kane, e infatti ogni parola, ogni gesto e ogni azione sono spinti alle estreme conclusioni, con l’effetto di negare a priori ogni possibile compromesso ideologico. Questo aspetto è espresso chiaramente nella frase che Grace rivolge a suo fra­tello: “O mi ami o mi uccidi” . Nelle loro recensioni, la gran parte dei critici sembra partecipe di questo dolore. Susannah Clapp arriva a parlare di Purificati come di “un ululato d’or­rore”[46], mentre John Peter osserva sul Sunday Times:

“Purificati è un incubo. Si apre in un punto imprecisato tra il retro degli occhi e il centro del cervello seguendo una logica imprevedibile e spietata. Come in un incubo, non te ne puoi liberare perché gli incubi vengono vissuti con tutto il corpo. Sempre come dentro un incubo, senti che è un altro a sognare per te, mostrandoti immagini che nascono da un bisogno che non vuoi riconoscere come tuo”[47].

Molti aspetti di Purificati, come il prosciugamento dei dialoghi e dunque del testo teatrale, la straordinaria macchina scenografica, l’ardito apparato teatrale di imagery, la crudeltà ritualizzata, la rappresentazione di passioni estreme con una soglia di sensibilità “elisabettiana”, fanno veramente pensare ad una rappresentazione del teatro della crudeltà teorizzato da Artaud. Ed è veramente singolare che all’epoca della scrittura di Purificati, pur conoscendolo, la Kane non l’avesse ancora letto. Nel parlare di questo aspetto di Purificati, l’assistente alla regia dello spetta­colo del Royal Court, Janette Smith, afferma che se da un lato l’opera rifugge dall’idea di Artaud di rompere la barriera tra spettacolo e spettatore, dall’altro “l’imagery nel testo crea una sorta di “teatro totale”. Le luci e il suono vengono usati insieme alla recitazione per ottenere un preciso effetto di “straniamento partecipativo” nel pubblico. Il rumore dei ratti, in particolare, ha un valore metaforico piuttosto che letterale”[48]. Inoltre, in Purificati una immagine su tutte rivela la reminiscenza del teatro del respiro di Antonin Artaud: l’urlo muto di Carl nel finale dell’opera e il suo sviluppo durante le prove: “Artaud era interessato al potere del respiro e dell’urlo per l’attore. Alla fine di Purificati Carl urla silenziosamente. Inizialmente, l’urlo era reale, ma una conversazione con alcuni membri di Amnesty International ci portò a trasformarlo in muto. Infatti, ci spiegarono in che modo una vittima guarda le torture inflitte a un’altra. Sentono di dover urlare, ma in realtà la paralisi causata dalla paura glielo impedisce. Così nella penultima scena Carl urla senza riuscire a emettere alcun suono”[49].

Il risultato complessivo della messa in scena di Purificati sul piano della comunicazione teatrale è un’opera buia e disperata, claustrofobica e sanguinante. Pure, l’autrice ritiene che il sentimento di amore di chi sopravvive alle situazione più crudeli e oltraggiose, uno dei temi portanti del dramma, sia anche foriero di speranza: “È semplice, sono tutti innamorati. Infatti ho pensato che fosse molto anni Sessanta e hippy. Tutti emanano un amore immenso e un bisogno d’amore altrettanto grande, e ciascuno di loro insegue il proprio bisogno. Gli ostacoli che incontrano sono estremamente sgradevoli, ma il dramma non parla di questi. Quello che motiva i personaggi, infatti, è il loro immenso bisogno [d’amore] e non l’esistenza di quegli ostacoli”[50].

In un’intervista rilasciata nel febbraio 1998, prima della performance, la Kane spiega l’apparente contraddizione tra questi due aspetti: “Mentre lavoravo al testo di Purificati stavo attraversando un periodo molto critico. Da un lato ero gravemente depressa e dall’altro ero folle­mente innamorata, tanto che queste due emozioni estreme non mi sembravano affatto in contraddizione. Adesso, invece, mi rendo conto che lo sono. A volte, quando leggo Purificati mi sembra scritto da un’altra per­sona. Oggi non potrei scriverlo. Non era un’opera sulla violenza, ma su quanto sapevano amare quei personaggi. Credo che la violenza in Purificati sia metaforica più di quanto non lo sia nelle mie altre opere”[51].

Ma anche l’influenza, più o meno diretta, di 1984 di Orwell appare significativa, poiché uno dei suoi temi principali è proprio l’esplorazione dell’amore, sia come atto di sfida, in risposta alla società impossibile dell’oppressione, sia come elemento di repressione e tortura di quelle stesse forze coercitive che schiacciano ogni tentativo di vivere il sentimento amoroso. Sarah Kane, al pari di Gorge Orwell, sembra consapevole del paradosso di eternità e fragilità che ne consegue: “In quanto emozione, l’amore è più potente di qualsiasi altra cosa, mentre come forza sociale soffre di un grave svantaggio, ossia poggia su un’azione meramente soggettiva. Alla base dell’amore c’è l’isola­mento dal resto del mondo”[52].

L’autrice spiega che Purificati ruota intorno al tema dell’amore espresso e vissuto in situazioni di coercizione estrema – come accade nell’istituzione totale, nell’asylum di Erving Goffmann: “Se vuoi raccontare l’amore estremo devi scriverne in modo estremo, altrimenti perde di significato. Credo che sia Dannati sia Purificati raccontino situazioni disperate alle quali, ci piace pensare, saremmo capaci di sopravvivere. Se le persone riescono ancora a provare amore dopo tutto questo, allora l’amore è davvero la cosa più potente”[53].

Dopo la messa in scena al Royal Court Theatre, alcuni critici rilevano il nesso tra la violenza delle immagini e il bisogno di tenerezza che ispira l’opera. Ad esempio Paul Taylor commenta: “A mio avviso, per la prima volta in un dramma della Kane, il desiderio di trovare un po’ d’amore e un’alternativa purificante all’orrore, rappresentato dalla devozione incestuosa tra fratello e sorella, colpisce più profondamente delle atrocità portate in scena”[54]. Mentre la relazione tra Grace e Graham sembra dominare il dramma, il regi­sta James Macdonald spiega che “in realtà ci sono quat­tro storie d’amore. Tutti sono innamorati. Il dramma parla dell’amore e del rapporto di questo con la brutalità. L’amore è una sorta di follia ed estasi”[55].

4.   Al di là della notte: Psicosi delle 4 e 48

Se lei sta davvero – come sembra – cercando di uccidersi, allora di certo la nostra presenza qui ci rende puri e semplici voyeur come visitatori di manicomi […]

Ma perché no? Perché non dovrebbe essere una “rappresentazione”’?

Proprio così – diventa una specie di teatro.

È teatro – giusto – per un mondo in cui il teatro vero e proprio è morto. Al posto delle convenzioni in disuso del dialogo e dei cosiddetti personaggi che avanzano goffamente verso gli imbarazzanti dénouements del teatro, Anne ci offre un puro dialogo di oggetti: di cuoio e vetro, di vaselina e acciaio, di sangue, saliva e cioccolato. Ci offre nientemeno che lo spettacolo della sua personale esistenza, la radicale pornografia ­se posso usare questa parola troppo usata – del suo corpo demolito e abusato – quasi come quello di Cristo.

(Martin Crimp, Attentati alla vita di lei)[56]

 

Il dramma Attentati alla vita di lei di Martin Crimp è forse il punto di partenza più adatto a introdurre la discus­sione sull’ultima opera di Sarah Kane, 4:48 Psychosis (Psicosi delle 4 e 48). Infatti il commento satirico contenuto nell’opera di Crimp, a proposito del tentativo di analizzare un dramma che rappresenta un’in­tensa disperazione umana, riflette il compito del critico di fronte a Psicosi delle 4 e 48, che racconta un suicidio e antici­pa di poco il gesto definitivo dell’autrice. Nella sua recensione di Psicosi delle 4 e 48, Michael Billington stabilisce un parallelo con l’e­sperienza di Sylvia Plath che in una delle sue ultime poesie, Orlo, scrive “La donna è infine perfetta/Il suo corpo/Morto porta il sorriso del compimento”[57]. Nell’ultimo dramma di Sarah Kane il critico legge un esempio dell’artista che “narra l’atto che sta per compiere”[58].

Questo percorso critico appare ancora oggi – a quasi sedici anni di distanza – la strada più giusta da intraprendere per interpretare l’ultimo dramma dell’autrice. Non a caso, è lo stesso approccio scelto dai critici quando si trovano di fronte all’arduo compito di dover recensire il dramma. Nel leggere l’opera come “la dichiarazio­ne di un suicida”[59] o “un biglietto d’addio di 75 minuti”[60], la cri­tica sceglie il terreno più sicuro o perlomeno quello meno accidentato. Del resto, Psicosi delle 4 e 48 è senza dubbio il dramma più fortemente autobiografico e intimo fino all’invasione clinica di Sarah Kane.

Tuttavia, pensare a Psicosi delle 4 e 48 esclusivamente come al biglietto di addio di un suicida rischia di ridurne pericolosamente l’interpretazione, costringendo il dramma nelle secche della lettura di una confessione intima sia riguardo alle tematiche affrontate che al testo teatrale. Infatti la medesima interpretazione potrebbe essere applicata, senza alcuna eccezione, a tutta l’opera della nostra drammaturga ed estesa ulteriormente al suo cortometraggio Skin, dal momento in cui tutte le sue opere contengono un personaggio che si toglie la vita. D’altra parte negare tout court il tema ricorrente – il fil rouge – del suicidio nei lavori di Sarah Kane costituirebbe una evidente forzatura critica. La speciale e sterminata letteratura della fattispecie insegna che i biglietti lasciati dai suicidi sono per natura brevi e appros­simativi. Un dato significativo riguardo a Psicosi delle 4 e 48 è che appare scritto senza la fretta angosciosa che contraddistingue i biglietti d’addio. È legittimo supporre che l’autrice abbia iniziato a lavo­rare al dramma fin dal gennaio 1998, anche perché l’intero dramma è scritto con la cura tipica della precedente produzione drammaturgica della Kane.

L’opera Attentati alla vita di lei rappresenta certamente una fonte influente per il lavoro di Sarah Kane, la quale ritiene a ragione che Martin Crimp sia “uno dei pochi drammaturghi viventi autenticamente innovativi nella forma”[61]. Infatti, alcune delle idee portanti che caratterizzano la struttura drammatica di Attentati alla vita di lei tornano sia in Febbre sia in Psicosi delle 4 e 48, soprattutto in relazione all’abbandono dei metodi tradizionali di caratterizzazione e costruzione del personaggio. In Attentati alla vita di lei il numero degli attori non viene indi­cato, né tanto meno le battute vengono attribuite a un perso­naggio specifico. In Febbre i personaggi sono indicati esclusi­vamente attraverso alcune lettere, mentre in Psicosi delle 4 e 48 la Kane si avvicina ancora di più alla forma drammaturgica privilegiata da Martin Crimp, por­tando in scena una miriade di voci senza identità. Fin dalle prime fasi del processo creativo del dramma risulta evidente che Psicosi delle 4 e 48 avrebbe rappresentato una continuità rispetto alle tematiche e alle idee espresse in Febbre. Nel febbraio 1998 l’autrice commenta: “Era strano, perché dopo aver terminato Febbre non sapevo quale direzione avrebbe preso la mia scrittura. Avevo l’impressione che fosse di­ventata così minimalista e così tanto incentrata sul linguaggio che non riuscivo a capire quale verso avrebbe preso. Da quando, poche settima­ne fa, ho iniziato il mio nuovo dramma [Psicosi delle 4 e 48], mi sono resa conto che si spinge ancora oltre. Voglio dire che per il momento non ci sono neanche i personaggi, ci sono solo linguaggio e immagini. E tutte le immagini sono interne alla parola piuttosto che visualizzate. Non so neanche quante persone ci siano…”[62].

Entro il novembre dello stesso anno la nuova opera si presenta in avanzato stato di compimento e ha già un titolo: “Sto scrivendo un dramma che si chiama Psicosi delle 4 e 48. Ci sono delle somiglianze con Febbre, ma nel complesso è diverso. Parla di un crollo psi­cotico e di quel che succede nella mente di una persona quando cadono le barriere che dividono la realtà dall’immaginazione, quando non si ha più la capacità di capire la distinzione tra vita onirica e vita reale; e anche quan­do non si riesce a discernere dove finisce il proprio io e inizia il mondo. Così, ad esempio, se io fossi psicotica non saprei individuare la differenza tra me stessa, il tavolo e Dan [Rebellato, l’intervistatore che le siede accanto]. Sarebbero tutti parte di un continuum e quindi cadrebbero una serie di confini. Anche da un punto di vista formale, sto cercando di violare alcune barrie­re, in modo da portare avanti la mia ricerca della forma e del contenuto come un tutto unico. Si sta rivelando molto difficile e non voglio dire a nessuno come sto facendo per riuscirci perché sarei furiosa se qualcun al­tro ci arrivasse prima di me. Comunque, sto portando oltre quel qualcosa iniziato con Febbre e non sono sicura dove andrà a finire dopo questo”[63].

Nel nuovo dramma appaiono evidenti la ripresa e lo sviluppo, sotto profili diversi, di tematiche e idee contenute in Febbre. Ad esempio, la storia che il personaggio “C” di Febbre  racconta del suo ricovero nel reparto “ES3” e del protocollo ospedaliero, “Mi accendono la luce ogni ora per controllare se respiro ancora”, è tipico dei reparti i cui pazienti sono a rischio suicidio ed è uno dei temi portanti di Psicosi delle 4 e 48.

Tuttavia, l’opera non è solo un lavoro speculare a Febbre poiché, nel tentativo di esprimere alcune astrazioni sulle differenti dimensioni del reale, Sarah Kane sperimenta in realtà una forma drammaturgica “altra”, che articola il dramma in una serie di discorsi. Lo stesso termine discorsi è ambiguo, appartenendo a discipline e a scuole di pensiero tan­to diverse fra loro quanto la linguistica, la critica letteraria e i cultural studies e abbracciando significati altrettanto vari: “la lingua come forma di interazione e potere” o “una specifica modalità di vedere e dire il mondo” o ancora “il dialogo in genere e la conversazione in particolare” [64].

In realtà in Psicosi delle 4 e 48 questi discorsi diventano uno strumento attraverso il quale esprimere linguisticamente la distinzione tra realtà, fantasia o allucinazione e comunque tra i diversi stati mentali e i differenti stadi di percezione. I registri di discorso utilizzati spa­ziano dal monologo alle conversazioni tra medico e paziente, dal linguaggio dei questionari medici alle storie cliniche di casi specifici, dai frammenti di libri di psicologia fai da te alle visioni terrifiche tratte dal Libro dell’Apocalisse, oltre a testi e numeri decontestualizzati che i personaggi non spiegano. Insieme, tutti questi discorsi diventano un metadiscorso teatrale che sfugge alle categorie del linguaggio convenzionale e si sostiene invece su una ima­gery visionaria per comunicare al pubblico emozioni e idee.

Inoltre, Psicosi delle 4 e 48 riprende l’altro tema dominante in Febbre, ossia la fragilità dell’amore e, nello specifico, indaga e sviluppa le implicazioni del commento di “C”: “Ti sei innamorato di una persona che non esiste”. Infatti, una delle voci di Psicosi delle 4 e 48 racconta: “esco alle sei di mattina e inizio a cercarti”, riportando alla mente l’a­more tra Rod e Carl in Purificati, e dichiarando “Preferirei aver perduto le gambe/che mi avessero strappato via i denti/cavato gli occhi/piuttosto che aver perduto l’amo­re”. In un altro punto una voce crede di aver trovato in uno dei dottori “l’Altro desiderato”, ma sembra che l’a­mante in questione sia destinato a rimanere sconosciuto, e nelle prime due rappresentazioni del Royal Court lo stesso attore impreca contro Dio “che mi ha fatto amare una perso­na che non esiste”.

D’altra parte, l’ultima battuta dell’opera – “Una me che non ho mai conosciuto, il volto impresso sul rovescio della mia mente” – suggerisce non solo che tutte le voci apparten­gono a una persona sola, ma soprattutto che il “terribile… fisicamente doloroso… questo desiderio” sia in realtà la ricerca angosciosa di una identità impossibile da parte della voce. Nelle prime fasi della scrit­tura, l’autrice considera Psicosi delle 4 e 48 come “un altro dramma che racconta la scissione tra l’essenza corporea e la consapevolezza. Per me questa è la follia”[65]. Non a caso, una delle voci dichiara che “corpo e anima non possono essere veramente u­niti”, mentre in Febbre il personaggio di “C” afferma: “Vorrei sentirmi fisica­mente come mi sento emotivamente”. Da questo punto di vista entrambi i drammi richiamano alla mente la tarda drammaturgia di Beckett, quando il drammaturgo irlandese cercò di raffigurare “l’immagine di una mente alienata dal proprio corpo”[66] e ancora di più alcuni straordinari passi tra glossolalia e poesia dei Cahiers de Rodez (1943 – 1945) che accompagnano giorno dopo giorno l’ultimo dei nove anni trascorsi da Antonin Artaud nell’ospedale psichiatrico di Rodez. Dopo 51 elettrochoc, già all’inizio del 1943, il grande poeta prova coraggiosamente a ricostruire il suo Io e a riprendere il possesso del suo corpo e per questo disegna e scrive. Ogni giorno, fino alla fine dei suoi giorni, riempie con una scrittura fitta e pressante i suoi piccoli quaderni di scuola per affrontare a mani nude i demoni che lo perseguitano e lo martirizzano nell’anima e nel corpo. Come è noto, il leitmotiv di tutta l’opera di Artaud, e in particolare dei Cahiers de Rodez, è la denuncia accorata e disperata di una forza occulta e ladra che si instaura nell’uomo al posto del suo essere. L’espropriazione dell’io è tanto più efficace quando avviene sotto la copertura del principio di identità. Scrivendo, Antonin Artaud non fa altro che approfondire la ricerca del suo moi rubato. Egli considera il teatro dell’io come il luogo di un furto ontologico: l’uomo è atavicamente espropriato del suo essere e del suo corpo da quel Dio (le Père-Mère) che pretende di avere creato e dunque pensato, in qualche modo concepito, questo stesso essere, nascondendosi così dietro “l’imposture paternelle”. Contro questa presa di possesso di sé da parte dell’Altro, il poeta e drammaturgo marsigliese si sforza di “reprendre son bien”, di recuperare il suo essere rapito alla nascita e il suo corpo espropriato dalla “magia nera” del trattamento della convulsione elettrica. Di pari passo con questo struggente tentativo di riconquistare il proprio sé, si accende nel grande poeta il bisogno primario di superare la separazione tra il pensiero e la parola pronunciata e scritta. Per Antonin Artaud questa lacerazione dell’Io è altrettanto dolorosa e riproduce il coito ancestrale del Père-Mère sotto forma di eco, di dialogo interiore, di coscienza riflessiva che finisce per separarlo da se stesso: “Je n’ai pas de double ni d’écho qui me suive, je n’ai pas d’esprit où je me juge devant moi, je me juge en moi-même […]./ Et je n’ai jamais eu de moi qui ait pu se retourner contre moi parce que mon moi est inséparable de moi mon corps. [Non ho né doppio né eco che mi segua, non ho pensiero con cui mi giudico davanti a me stesso […]./ E non ho mai avuto un io che abbia potuto rivoltarsi contro di me perché il mio io è inseparabile da me il mio corpo]”[67].

Questa stessa disperata e visionaria tensione di “conciliazione identitaria” è presente non solo in Psicosi delle 4 e 48, ma attraversa tutta la scrittura drammaturgica di Sarah Kane, a dimostrazione che “l’unico modo di re­cuperare una qualsiasi sanità è quello di entrare fisicamen­te in contatto con il proprio io emotivo, spirituale e mentale”[68]. In realtà, l’umanità perduta delle opere di Sarah Kane ha a disposizione una sola, definitiva strategia per arrivare a ottenere que­sta ricomposizione identitaria con se stessa: ricercare con tutto il proprio essere quella fulminea ma suprema epifania di verità e conciliazione che precede la fine e il superamento individuale dell’ultima soglia.

Oppure, l’alternativa per i personaggi di Psicosi delle 4 e 48 è ricercare un contatto almeno temporaneo con il proprio corpo, incidendo segni su questo. E se da un lato un comportamento vicino all’automutilazione può apparire patologico e autopunitivo, dall’altro costituisce comunque un ponte di collegamento tra mente e corpo. L’intuizione di quest’ultima particolare proprietà di ricomposizione identitaria sembra essere riferita a qualcuno che Sarah Kane conosce personalmente: “Ho appena incontrato una persona che ha subito Dio solo sa quante overdose e ha tentato il suicidio in qualsiasi modo. Ha una grande cicatrice sulla gola e cicatrici sui polsi. Ma in realtà è più in contatto con se stessa della maggior parte delle persone che conosco. Credo che in quei momenti, quando si taglia o prende troppe pillole, ad un tratto trovi un contatto che le fa tornare la voglia di vive­re, e così va in ospedale. La sua vita è una sequela di tentati suicidi che lei rievoca di continuo. E sì, c’è qualcosa di atroce in tutto questo, ma riesco a capirlo molto bene. Per me ha senso”[69].

L’autrice si mostra consapevole del rischio connaturato a questa paradossale connessione mente-corpo, e in Psicosi delle 4 e 48 indaga anche un’altra alternativa: guarire la percezione “patologica” della separazione tra mente e corpo attraverso l’assunzione dei farmaci prescritti in ospedale: “Credo che in un certo senso sia necessario annullare la propria capacità di sentire e percepire. Per essere equilibrati bisogna rinunciare almeno a una parte della pro­pria mente, altrimenti si soffrirebbe di sanità cronica in una società che soffre di uno squilibrio altrettanto cronico. Voglio dire, pensate ad Antonin Artaud: impazzisci e muori o diventi equili­brato e malsano”[70].

In Psicosi delle 4 e 48 una delle voci invo­ca i farmaci come ultima speranza: “Okay, va bene, mi faccio la lobotomia chimica, radiamo al suolo le funzioni più sofisti­cate del mio cervello, forse così sarò un po’ più capace di vive­re”. Tuttavia, a dire di un’altra voce del dramma, “non c’è nessun farmaco sulla terra che può dare senso alla vita”, se deve curare lo “stato di sofferenza patologica” che deriva dalla ricerca di una persona da amare che “non è mai nata”.

In questa ultima opera, Sarah Kane ripercorre anche il linguaggio figurativo di Febbre, attraverso il quale la morte è vista come un fascio accecante di luce fredda che alla fine “spegne” i personaggi uno ad uno. In Psicosi delle 4 e 48 le voci dicono per due volte:”Ricorda la luce e credi nella luce/Un attimo di chiarezza prima della notte eterna”, oltre alla frase, che ricorre quattro volte, “Lo sportello si apre/Luce fredda”. Le potenti immagini poetiche sgorgano naturalmente dal cuore nero dell’ultimo dramma di Sarah Kane: “Le 4 e 48 del mattino quando la lucidità mi fa visita (…) Non parlerò più”.

La scenografia della prima londinese di Psicosi delle 4 e 48 comprende pochi anonimi arredi e uno specchio inclinato di 45 gradi che taglia il fondo del palcoscenico. La presenza dello specchio permette agli spettatori di vedere l’opera su due piani, guardando recitare gli attori di fronte a loro e sopra le loro teste. Questo uso estremo della prospettiva, già adottato in Purificati, costituisce uno degli elementi di maggiore novità dell’allestimento scenico, con gli spettatori che “potevano guardare gli attori dall’alto come se fos­sero cavie da laboratorio[71]. Ad un certo punto di Psicosi delle 4 e 48 gli attori sono sdraiati sul pavimento in posizioni diver­se e un critico trova che, riflessi nello specchio, somiglino a “insetti appiccicati sulla carta moschicida o a persone messe contro il muro della morte”[72].

L’utilizzo del grande specchio – una sorta di “terzo occhio” della scena – produce anche un metacommento ai diversi livelli di coscienza attraversati dalle voci del dramma, soprattutto in relazione alla separazione tra mente e corpo. Quando uno degli attori esclama “Ecco io sono qui/e c’è il mio cor­po/balla sui vetri”, lo specchio serve a visualizza­re la frattura dell’io, permettendo agli spettatori di assistere alla rappresentazione in scena su due piani separati. La doppia prospettiva ricrea in scena la dimensione mentale della depressione clinica, a causa della quale i pazienti lamentano spesso la sensazione di essere spettatori “disincarnati” e intrappolati in una dimensione “astrale” mentre osservano dall’alto la propria vita e il mondo esterno. Ancora, lo specchio è utilizzato in scena come un artificio scenico fluido per rappresentare diversi stati di percezione. Ad esempio, per incarnare l’idea che lo specchio rappresenti la separazione tra mente e corpo, sono proiettate nello specchio immagini video di persone che passeggiano fuori, all’esterno del teatro. Gli attori in scena e gli stessi spettatori stessi sono tutti intrappolati dietro questa immagine di routine quotidiana, senza tuttavia poter prendere parte alla vita che si svolge nel mondo esterno.

Il finale della prima al Royal Court è memorabile, anche perché mette in pratica un commento di Edward Bond a Psicosi delle 4 e 48, con il quale esprime il suo rifiuto dell’interpretazione che legge l’opera solo come le ultime righe scritte da un suicida. Bond ritiene, infatti, che il dramma si tramuti “da una dolorosa lettera di un suicida, in una sorta di trattato riguardo al vivere con consape­volezza e questo è ancora più doloroso”[73]. Infatti, nell’allestimento del Royal Court, le ultime bat­tute dell’opera, “per favore aprite le tende”, sono segui­te dal movimento degli attori a lato del palcoscenico per aprire le persiane delle finestre alla luce esterna, facendo entrare in sala i rumori delle strade di Londra. Un’esperien­za semplice e tuttavia profondamente commovente. Co­me scrive uno dei recensori, “l’effetto era stranamente liberato­rio, era come osservare l’emancipazione di un’anima in pena”[74].

Mel Kenyon riassumerà durante il programma radiofonico Nightwaves della BBC, le sensazioni positive donate dall’opera Psicosi delle 4 e 48 e dalla sua autrice: “È un dramma costruito in modo straordinario da molti punti di vista, e il fatto stes­so che Sarah sia stata capace di realizzarlo comunicando determinate sensa­zioni, secondo me, conferisce all’opera stessa un grande valore in termini di speranza; la speranza che questo dono fosse ancora vivo in lei e che lei desiderasse comunicarlo e che ci fosse riuscita con dignità e senso del­l’umorismo”.

A distanza di sedici anni dalla morte, è ancora difficile valutare in sintesi il contributo e l’impatto che l’opera di Sarah Kane ha avuto e continua ad avere sulla storia del teatro occidentale contemporaneo. La reputazione, la fortuna e l’interpretazione stessa del suo lavo­ro devono ancora consolidarsi attraverso una filologia approfondita che prenda le mosse dalla lettura attenta e obbiettiva, dalla discussione critica onesta e dotata degli strumenti giusti e, naturalmente, dalla rappresentazione delle sue opere. È anche importante che il soggetto critico, il lettore o lo spettatore, non si facciano fuorviare dal processo di mitizzazione mediatico o di santificazione “popolare” legato alla sua prematura scom­parsa.

Ma è anche giusto ricordare che Sarah Kane è stata una scrittrice infaticabile e che da Dannati in poi ha sperimentato forme comunicative e modelli drammaturgici sempre nuovi. James Macdonald ritiene che il retaggio principale di Sarah Kane consista nell’avere “creato un corpo di opere coraggiose, arrabbiate, poetiche come poche altre. In un momento in cui la scrittura si accon­tentava, in larga parte, di risiedere in forme drammatiche pre­stabilite, le sue opere trovavano forme sempre nuove per rac­chiudere idee e sentimenti”[75]. David Greig condivide questo punto di vista, aggiungendo che il lavoro di Sarah Kane “ha premuto con forza sul confine naturalistico del teatro contemporaneo”[76].

D’altra parte, la funzione “crudele”[77] del teatro teorizzata da Antonin Artaud appare innervare profondamente tutta la scrittura teatrale e scenica di Sarah Kane. Il grande poeta aveva speso la propria vita per evocare un teatro nel quale il segno e il gesto dell’attore si proponessero al pub­blico come il gesto e il segno di chi sta per bruciare sul rogo. Il teatro primigenio che accade una sola volta e per sempre, prima della parola e prima ancora del pensiero. Il teatro terminale dei segni e dei gesti che i condannati al rogo, quando sono avvolti dalle fiamme della pira, rivolgono agli spettatori che stanno assistendo alla loro agonia. E senza dubbio questo immaginario teatrale “definitivo” è l’asse portante di tutti i drammi di Sarah Kane.

Mentre David Greig mette in evidenza che “Sarah ha tracciato profili interiori oscuri e spietati, profili di violazione, solitudine, potere, esaurimento mentale e, in modo più continuativo, il profilo dell’amore”[78], il dramma­turgo Howard Barker, riprendendo il commento di Antonin Artaud sui condannati al patibolo, sottolinea che “l’arte più adatta per una cultura sull’orlo dell’estinzione è un’arte che produce dolore”[79].

In questo senso, lo choc provocato dalla “crudeltà” dei drammi di Sarah Kane – pure sempre animati da una sotterranea speranza teleologica – costituisce una straordinaria arma artistica per indurre gli spettatori a recuperare la propria umanità affogata nell’onnipotente digestore televisivo della società dello spettacolo[80].  E Sarah vive ancora nel cuore del mondo perché ci insegna a stare umanamente al mondo prima dell’estinzione.

Terzo movimento: senza occhi per vedere

Sono quello che sono non quello che gli altri vogliono io sia

20 febbraio 1999, Sarah Kane si chiude nel bagno della stanza dell’ospedale psichiatrico londinese dove è ricoverata – si impicca con i lacci delle scarpe – a 28 anni uccide una vita diventata troppo dolorosa – denuncia e poi fugge le atrocità di questo mondo.

Genio precoce e tormentato, donna di luce con gli altri – da sola nel buio con se stessa – l’anima devastata dal morbo di vivere, voce rabbiosa e inerme, bocca dello scandalo – invincibile istinto da lapidata – scrive opere destinate a rivoluzionare il teatro contemporaneo.

Le sue creature amorose e trucide, vittime di fango capaci di visitare e rivisitare all’infinito tutte le possibili abiezioni della paura di sé e dell’altro – violenza, guerra, razzismo, perversione – sono molluschi incapaci di una qualsiasi ombra di identità – titani condannati alla turpitudine della verità – Scrivo la verità e questo mi uccide, afferma un personaggio di Crave.

Sarah Kane scrive la sua seconda opera teatrale, Blasted – le sue creature si mordono, si graffiano, si stuprano, si mangiano l’una con l’altra e la condanna del mondo esplode in tutta la sua virulenza – “qualcuno si domanderà se il denaro pubblico non sarebbe stato meglio speso in un ciclo di terapia di recupero”, scrive un giornale. 

Una settimana prima di uccidersi, Sarah scrive l’ultimo testo, “4.48” Psychosis – lucida incarnazione del teorema della sofferenza – gli uomini soffrono come bestie, senza spiegazione e senza scampo.

La vita non può sempre difendersi dall’arte, qualche volta ne muore.[81]

[1] L. Scarlini, in Sarah Kane – Tutto il teatro, Milano 2001, p. 23.

[2] R. Morrison, “Radical Chic better than FBI cheat”, The Times, 21 gennaio 1995, p. 5.

[3] D. Rebellato, “Brief Encounter platform”, intervista pubblica con Sarah Kane, Royal Holloway College, London, 3 novembre 1998.

[4] P. Taylor, “Obituary”, Independent, 23 febbraio 1999.

[5] J. Macdonald, “They never got her”, Observer Review, 28 feb­braio 1999.

[6] J. Thielemans, Rehearsing the future, p. 11.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Sarah Kane, Lettera a Edward Bond, 2 novembre 1998.

[10] Sarah Kane, intervista con Nils Tabert, Brixton, London, 8 febbraio 1998. In Nils Tabert (a cura di), Playspotting: Die Londoner Theaterszene der 90er, Reinbeck 1998.

[11] C. Armitstead, “No pain, no Kane”, Guardian, 29 aprile 1998, p. 12.

[12] Sarah Kane, “The only thing I remember is…”, Guardian, 13 agosto 1998, p. 12.

[13] ID., intervista con Nils Tabert, cit.

[14] M. Bradwell (a cura di), The Bush Theatre book: frontline drama, 5, London 1997, p. 73.

[15] Langridge e Stephenson, Rage and reason, p. 132.

[16] D. Benedict, “Disgusting Violence? Actually it’s quite a peaceful play”, Independent on Sunday, 23 gennaio 1995.

[17] Sarah Kane, Guardian, 20 agosto 1998.

[18] J. Hansford, “Sarah Kane” in Thomas Riggs, a cura di, Con­temporary Dramatists, 6ª edizione, Detroit-New York 1999, p. 349.

[19] Sarah Kane, intervista con Nils Tabert, cit.

[20] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, p. 194.

[21] H. Barker, Arguments for a theatre, 3^ edizione, Manchester, p. 57.

[22] Sarah Kane, Guardian, 20 agosto 1998, cit.

[23] Ibidem.

[24] J. Thielemans, Rehearsing the future, p. 14.

[25] D. Cavendish, Independent, 18 maggio 1998.

[26] M. Coveney, Daily Mail, 7 maggio 1998.

[27] S. Clapp, Observer, l0 maggio 1998, p. 13.

[28] Ibidem.

[29] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, op. cit., p. 208.

[30] D. Rebellato, “Brief Encounter”, cit.

[31] Sarah Kane, intervista con Nils Tabert, cit.

[32] S. Clapp, Observer, l0 maggio 1998.

[33] Ibidem.

[34] D. Rebellato, “Brief Encounter”.

[35] lbidem.

[36] Christopher, Independent, 4 maggio 1998.

[37] S. Morley, Spectator, 16 maggio 1998.

[38] G. Brown, Mail on Sunday, 24 maggio 1998.

[39] Daily Express, 20 maggio 1998 (senza firma).

[40] Christopher, lndependent, 4 maggio 1998.

[41] M. Charney, Titus Andronicus, Hemel Hampsted, 1990, p. xv.

[42] S. Beauman, The Royal Shakespaere Company: a history of ten decades, Oxford, 1982, p. 225.

[43] J. Peter, Sunday Times, l0 maggio 1998.

[44] G. Freedman, Titus Andronicus, London 1970, pp. 3-5.

[45] D. Rebellato, “Brief Encounter”, cit.

[46] S. Clapp, Observer, l0 maggio 1998, cit.

[47] N. de Jongh, Evening Standard, 7 maggio 1998.

[48] M. Smith, Antonin Artaud and his legacy, Theatre Museum Education Park, London 1999.

[49] Ibidem.

[50] D. Rebellato, “Brief Encounter”, cit.

[51] Sarah Kane, intervista con Nils Tabert, cit.

[52] J. Atkins, George Orwell, London 1954, p. 248.

[53] C. Armitstead, Guardian, 29 aprile 1998, cit.

[54] P. Taylor, “Tuesday Review”, Independent, 23 febbraio 1999.

[55] G. Christopher, Independent, 4 maggio 1998, cit.

[56] M. Crimp, Attentati alla vita di lei, in Barbara Nativi e Luca Scarlini, a cura di, Nuovo teatro inglese, Ubulibri, Milano 1997. Traduzione di Margherita d’Amico.

[57] S. Plath, 26 poesie, Mondadori, Milano 1998, p. 44. Traduzione di Giovanni Giudici. La poesia in questione è contenuta nella raccolta Ariel, pubblicata postuma nel 1965 [N.d. T.].

[58] M. Billington, “How do you Judge a 75-Minute Suicide Note?”, Guardian, 30 giugno 2000, p. 5.

[59]   S. Clapp, “Blessed are the Bleak”, Observer Review, 2 luglio 2000, p. 9.

[60] M. Billington, Guardian, 30 giugno 2000.

[61] Sarah Kane, “The Playwright’s playwright”, Guardian, 21 settembre 1998, p. 13.

[62] Sarah Kane, intervista con Nils Tabert, cit.

[63] D. Rebellato, “Brief Encounter”, cit.

[64] Citazione riportata in Rob Pope, The English studies book, London 1998, pp. 45-6.

[65] Sarah Kane, intervista con Nils Tabert, cit.

[66] W. Lyons, Samuel Beckett, p. 4.

[67]Cahiers de Rodez, Paris 1982 (XVIII, 141).

[68] Sarah Kane, intervista con Nils Tabert, cit.

[69] Ibidem

[70] Ibidem.

[71] G. Brown, Mail on Sunday, 23 agosto 1998.

[72] S. Clapp, Observer Review, 2 luglio 2000, p. 9.

[73] Lettera a Graham Saunders, 27 maggio 2000, cit.

[74] P. Taylor, “A suicide note that is extraordinarily vital”, In­dependent, 30 giugno 2000, p. 11.

[75] J. Macdonald, “They never got her”, Observer Review, 28 feb­braio 1999.

[76] D. Greig, Complete plays, p. IX.

[77] Il teatro “crudele” (in latino cruor è propriamente il sangue che cola dalle ferite) non è il teatro che rappresenta scene macabre o cruente, bensì il teatro “crudo”. Secondo le parole del grande poeta, questo teatro è «il rigore, è la vita che supera ogni limite e si mette alla prova nella tortura e nel calpestamento di tutte le cose, è questo sentimento puro e implacabile che io chiamo crudeltà» e ancora «propongo un teatro in cui le immagini fisiche violente frantumino e ipnotizzino la sensibilità dello spettatore travolto dal teatro come da un turbine di forze superiori», «un teatro che riproponga tutti gli antichi e sperimentati mezzi magici», «che abbandonando la psicologia racconti lo straordinario e metta in scena conflitti naturali», «che provochi trance come le danze dei Dervisci e degli Aissaua, e si rivolga all’organismo con strumenti precisi». È un teatro nel quale «gesto, immagine, movimento, suono, parola» hanno tutti lo stesso peso, anche se il potere comunicativo del testo scritto e del dialogo parlato dagli attori non potrà mai prevalere sulla forza visionaria del gesto.

[78] D. Greig, Complete plays, p. IX, cit.

[79] H. Barker, Arguments for a theatre, 3ª ed., Manchester 1999, pp. 18-9.

[80] Nell’accezione che lo scrittore e filosofo Guy Debord ha dato nel suo saggio del 1967 La Société du Spectacle.

[81] Denis Brandani, Il teatro come condizione-Rosso sibilla, Altroverso n. 3/4, p. 24.