Le sciocchezze che sono state scritte su Tina Modotti come fotografa e come rivoluzionaria si sprecano
di Pino Bertelli
“…Ma non voglio parlare di me. Desidero parlare
soltanto di fotografia e di ciò che possiamo realizzare con l’obiettivo.
Desidero fotografare ciò che vedo, sinceramente, direttamente,
senza trucchi, e penso che possa essere questo il mio contributo a un mondo migliore”.
Tina Modotti, 1926
I. La fotografia al tempo dell’amore
La tradizione degli oppressi c’insegna che gli stati d’eccezione della fotografia insegnata sono dissertati, figurati, celati… dietro le tavole comandamentali della genuflessione, dell’inganno o dell’impostura… il potere in carica legittima misfatti, repressioni e violenze ordite dai paesi ricchi contro i popoli impoveriti… la sovranità del più armato regna, ma non governa. I poveri, i diseredati, gli esclusi… entrano nell’arte del comunicare da reclusi, da schiavi, da sudditi… la rivolta di cui un tempo andavano fieri s’è fatta amarezza, abitudine, domesticazione sociale… hanno perduto tutto, perfino la propria lingua, in cambio hanno ricevuto un corona di sputi e un destino da servi. Da sempre, gli uomini e le donne incapaci di accordarsi con le gogne della civiltà dello spettacolo, hanno allevato la loro inattualità con le idee dominanti nel dissidio, nella rivolta, nell’anarchia e combattuto (con tutti i mezzi necessari) il messianismo della chiesa, l’arroganza dello stato e mostrato (o distrutto, quando è stato loro possibile) gli scranni della ferocia secolare con la quale una casta di privilegiati si è eretta contro il maggior numero… tuttavia, nessuno può scampare alle proprie responsabilità e dalle periferie della terra gli echi dell’indignazione, dell’insurrezione o della rivoluzione non sono mai stati soppressi fino in fondo… nessuna pace è possibile o può essere goduta se non si sopprime il tanfo miserabile della partitocrazia e si sostituisce con la società in utopia che viene.
Tina Modotti è la Fotografia al tempo dell’amore o dell’utopia. Il senso fotografico della Modotti per la rivoluzione dello stato di cose esistenti… figura il grido di un’assenza (la libertà di pensiero), il gioco dell’infanzia (l’eterno ritorno alla rappresentazione del mondo come luogo di territori e deliri collettivi), lo scandalo della ragione degli esclusi (la soggettività calpestata dalla modernità del cattivo gusto). I suoi lavori vanno oltre lo specifico fotografico o la museografia pittorialista e nulla hanno a che fare con i fantasmi ridicoli dell’avanguardia più celebre. La radicalità visuale della Modotti è una ricerca sul linguaggio della fotografia che passa dalla fotografia diretta (straight, che non riguarda per niente quanto ha fatto Alfred Stieglitz) o sociale (Neure Sachlinchkeit, una “nuova cosalità” del fatto fotografico cara alla fotografia di strada tedesca prima di Hitler), per andare a scoprire altri processi della visione. Sotto un certo taglio, la scrittura visuale della Modotti è più vicina alle immagini “à la sauvette” di Henri Cartier-Bresson che a molta fotografia dell’eccesso celebrata dalla critica del pittorialismo accademico o della velina industriale.
La radicalità visuale della Modotti si addossa l’innocenza oltraggiata dalla spettacolarizzazione dei segni e si oppone al terrore pedagogico che i predatori dell’immaginario collettivo continuano a riversare nella quotidianità, dove ormai è impossibile “distinguere la gloriosa classe operaia da una marea di incorreggibili consumisti rimbambiti” (Hans Magnus Enzensberger). Dovunque la fotografia è divenuta la mitologia dell’oggetto che mette in scena. Dappertutto la fotografia trasmette dei dati, dei simboli, dei grafemi… difficilmente comunica qualcosa su qualcosa, o meglio, contro qualcuno. La fotografia che non comprende una filosofia della mutabilità appartiene alla prassi necrofila della società della predazione e del saccheggio neocolonialista della società post-moderna.
La fotografia duale della Modotti détourna il quotidiano dei suoi vizi e delle sue virtù. Le sue immagini affermano la pericolosità del pensiero nichilista di Nietzsche, che rovesciando Platone, Hegel, Marx… ha negato il fascio dei valori imperanti per denunciare che l’eucarestia della modernità è nei saperi dell’ordine prostituito, nei terrori degli armamenti e nei giochi terroristici della Borsa transnazionale. L’immaginario fotografico della Modotti ci permette di vedere le cose sotto il loro vero aspetto. Ci fa comprendere ciò che è doloroso accettare. Distinguere il reale dalla presenza del vero possibile. L’oggettività dall’autentico. La fotografia della Modotti è una provocazione. Uno studio singolare sul dolore. Il disvelamento della realtà artificiata buttato contro le griglie del superficiale d’autore. Un viaggio espressivo senza ritorno at/traverso i territori immaginari della quotidianità trasgredita.
Questa fotografia di frontiera ha profanato, rovesciato, dissolto la scrittura della fotografia dominante, ha lasciato una traccia, il segno, il percorso di qualcosa che è stato e non è più. Qui si annuncia la fine di tutte le mitologie su una “buona umanità” e si comincia a fare i conti con la storia. Le immagini della Modotti destinano la propria evidenza all’insolenza intrattabile dell’ordinario. Sono una specie di album di famiglia, intimo, segreto, sparso a raffigurare e autenticare un reale gravido di ingiustizie sociali. Se “la maschera è il senso, in quanto assolutamente puro come lo era nel teatro antico… La maschera è tuttavia la regione difficile della fotografia” (Roland Barthes). E ogni fotografia aderisce a una storia degli sguardi che è rivolta o prostituzione. Più ancora. Fotografare non è solo “la messa a fuoco di un temperamento” (Susan Sontag) e/o una merce il cui valore è “calcolato in biglietti di banca” (Gisèle Freund)… l’obiettività dell’immagine è un’illusione e non finiremo mai di ridere su quanto teorizzano i piccoli maestri della fotografia museale, artistica o sociale.
L’at/traversamento del bianco e nero della Modotti è una riflessione teorica e una esperienza pratica sulla fotografia come mezzo di trasformazione della realtà. La ricerca di una “nuova visione” del mondo che si addossa alla condizione inumana della società affluente. La fotografia della Modotti va oltre la semplice registrazione fotografica. Qui l’immagine viene riciclata, dirottata su altri itinerari, détournata lontano dai deserti merceologici del simbolico d’arredamento. Non rispecchia la realtà della coscienza ma insorge nella coscienza/conoscenza della verità possibile. Le didascalie sono parte dell’insieme fotografico e rafforzano, contaminano la presenza di una memoria storica de/contestualizzata. Quando la fotografia riesce a “contrastare le opinioni dominanti, a servire la verità” (Carlo Bertelli), allora si fa interprete e testimone della condizione sociale chi non ha voce. La surrealtà iconografica della Modotti descrive la disaffezione dal prestabilito, il distacco e l’opposizione al gusto amministrativo dell’ovvio e dell’ottuso, per andare a scoprire gli “objets trouvés” della nuova “innocenza fotografica”. L’estetica della Modotti si definisce in rapporto con la mostruosità dell’esistenza. L’irrealtà che annuncia e distorna contro la cultura compromessa dell’immaginario mercantile, è una situazione di dolore che cancella i limiti della morale comune e brucia alla radice il malessere di vivere in un mondo senza vita.
II. Della fotografia sovversiva
Non ci sono eroi per la fotografia che vale (né eroi per il proprio cameriere, Hegel diceva, e non era filosofo dal cuore tenero, tantomeno rivoluzionario)… e nei Lineamenti di filosofia del diritto, una delle formule più bislacche, per non dire imbecilli sosteneva: “Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale”. Potente a fianco dei potenti, Hegel non si accorgeva dei valori comuni e al di là del bene e del male associava il culto dello stato al romanticismo della storia come apogeo dei vincitori… peccato che intanto i giardini dei re, dei tiranni, dei generali, dei papi del suo tempo, come del nostro, erano concimati col sangue dei popoli affamati… il buon professore non sapeva forse che senza gli insubordinati di ogni potere, nonostante i prezzi pagati anche con la vita, né la sua vita né la nostra non sarebbe mai stata la stessa.
Gli insorti del desiderio di esistere in una società di liberi e di uguali non hanno mai deposto le armi per il ribaltamento di un mondo a perdere e con tutti gli strumenti utili, hanno continuato a battersi contro l’ideologia storica della rassegnazione, anche con la fotografia… Tina Modotti, ad esempio, è stata un’incendiaria dell’immaginario che ha fatto del dispendio in pura perdita, il principio di una vitalità eversiva o di una rivolta sociale che invitava gli esclusi ad uscire dall’ombra e attraverso la disaffezione all’obbedienza, riscrivere dal basso i dettati della storia. La fotografia più vera coincide con la fotografia più prodiga, e il piacere e la bellezza come assenza di sofferenza esprimono la politica della giustizia.
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Assunta Adelaide Luigia Modotti (Tina), nasce a Udine il 17 agosto del 1896. Nel 1913 raggiunge il padre e la sorella Mercedes a San Francisco. Lavora come operaia in una fabbrica di tessuti. Nel 1915 incontra il poeta e pittore Roubaix de l’Abrie Richey (Robo) e lo sposa. Si trasferisce a Los Angeles. Recita in compagnie teatrali del quartiere italiano. Entra nella “fabbrica dei sogni” (Hollywood) e fa la comparsa in qualche film. Nel 1920 è la protagonista di The Tiger’s Coat, di Roy Clements. L’anno successivo prende parte (in un ruolo econdario) al film western Riding With Death (1921). Conosce il fotografo americano Edward Weston. Posa nuda per dei fotografi commerciali e per Weston, del quale è subito attratta.
Durante un viaggio in Messico, Robo muore di vaiolo (1922). Tina Modotti termina il terzo film I can explain e parte per Città del Messico per i funerali di Robo. Porta con sé le foto di Weston, che vengono esposte all’Accademia di Belle Arti. Nel 1923 accompagna Weston, Johan Hagemeyer e Margrethe Mather in un vagabondaggio fotografico. Tra il 1923 e il 1926 la Modotti e Weston divengono amici dei maggiori esponenti della cultura messicana — Diego Rivera, David Alfaro Sequeiros, José Clemente Orozco —… la Modotti espone le sue foto con quelle di Weston, in due mostre a Città del Messico (1925). Quando Weston ritorna negli Stati Uniti (1926), mantiene per lui un forte sentimento di stima e di amore (come documentano le loro numerose lettere).
Dal 1927 le fotografie della Modotti sono pubblicate in riviste specializzate: Mexico Folkways, Creative Art, Forma ecc. Tina Modotti si iscrive al Partito Comunista. È redattrice di El Machete e diviene la compagna di Xavier Guerrero, il direttore del giornale. Fotografa i murales di Rivera e Orozco. Frequenta lo scrittore John Dos Passos e partecipa alla campagna di liberazione per gli anarchici Sacco e Vanzetti. Lavora con il rifugiato cubano Julio Antonio Mella e l’italiano Vittorio Vidali (giunto in Messico per incarico del Comintern). Guerrero è chiamato a Mosca alla scuola del Partito. Lei s’innamora perdutamente di Mella. Nel 1928 la rivista tedesca Aiz e la rivista radicale americana New Masses pubblicano alcune sue immagini. La Modotti stringe amicizia (qualcuno dice “particolare”, altri amorosa) con la pittrice Frida Kahlo. I servizi segreti fascisti la segnalano come provocatrice e terrorista.
Nel 1929 Julio Antonio Mella viene assassinato per la strada, mentre cammina a fianco della Modotti. Una grande mostra delle sue fotografie viene esposta all’Università Autonoma di Città del Messico. Nel febbraio 1930, in seguito a un attentato contro il nuovo presidente del Messico, Pascal Ortiz Rubio, la Modotti viene arrestata e poi espulsa dal Messico. Giunge a Berlino ma non riesce a trovare lavoro come fotografa. Pubblica qualche foto su Aiz e Der Arbeiterfotograf. Si trova in gravi difficoltà economiche. Mostra le sue fotografie a Lotte Jacobi, che resta abbagliata dalla loro forza e dalla loro importanza sociale (organizza infatti una mostra nel suo studio e il successo culturale è forte). In ottobre la Modotti raggiunge a Mosca il suo nuovo compagno, Vittorio Vidali. Nel 1932 abbandona la fotografia e lavora per il Soccorso Rosso Internazionale. Viaggia clandestinamente in tutta l’Europa. Si occupa della stampa estera. Traduce in diverse lingue. La politica sembra possederla più dell’arte. Col suo fare o non fare, ciascuno risponde al proprio destino.
Nel 1935-1936 è con Vidali a Parigi e poi in Spagna. Si arruola nel Quinto reggimento comandato da Carlos J. Contreras (Vidali) col nome di Maria. Nel 1937 lavora col medico canadese Norman Bethune e scrive per il giornale Ayuda. Nel 1939 ritorna in Messico. Vive con Vidali. All’amico fotografo Manuel Alvárez Bravo confida che la fotografia non la interessa più. Non ritira la tessera del partito. La notte del 5 gennaio 1942, dopo aver passato una serata tra amici, in casa dell’architetto Hannes Mayer, Tina Modotti muore misteriosamente in un taxi a Città del Messico.
Piccola digressione passionale di una scrittura fotografica senza eguali: Tina Modotti si accosta alla fotografia nel 1923 ma è nel 1926 che comprende l’importanza comunicativa/espressiva di questa “scatola magica”, di questo linguaggio ereticale, di questo bordello senza veli che a volte riesce a rendere balbuzienti anche gli dèi dell’ordine costituito. Con la sua Graflex immortala fiori, murales, edifici, giochi d’ombre… poi va nei mercati, nelle osterie, nelle laverie, nei bordelli e ruba all’eternità del dolore, momenti irripetibili della gente comune. Per sette anni mescola vita, arte e rivoluzione. Poi nel 1932 butta la Leica che le hanno appena regalato in una scatola da scarpe o (come vuole la leggenda) la dona a un fuoriuscito italiano e s’immerge nell’attività politica a tempo pieno. La fotografia perde un maestro. La politica ingoia un’eretica.
La fotografia è una finestra sul mondo o è una stupida merce. È una poetica dell’amarezza che rompe i confini del banale truccato o una categoria ruffiana della società dello spettacolo integrato, dove ciascuno e parte di un flusso conviviale che fa della mediocrità il proprio oracolo. Le fotografie della Modotti sono sovente “mosse” o sgrammaticate ma contengono una sensualità delle cose, un peso dei corpi, un’aristocrazia dei gesti che fanno del suo sguardo fotografico e della sua passionalità utopica, il crogiolo di una storia delle idee dove non c’è salvezza se non nell’insurrezione dell’intelligenza che non smette di sognare un mondo più giusto e più umano.
È un fare-fotografia che fa dell’intuizione dell’istante anche una psicoanalisi del fuoco. L’eros epico delle sue immagini porta a un’estasi della presenza che tocca il cuore delle cose, delle forme e nell’amore dell’altro e nell’amore di sé riflette il respiro dell’insieme comunitario… è l’amore che porta all’amore e l’anima di ciascuno fiorisce quando qualcosa del profondo muore. Quando l’anima si fa trasparenza o quando la trasparenza dell’anima si fa vita. Ciò che ci spinge a disobbedire è anche ciò che ci dà la forza di rinascere. “Non è indispensabile sapere se la fotografia è o non è un’arte, quel che conta è distinguere tra buona e cattiva fotografia” (Tina Modotti). L’iconografia foto-grafica corrente consegna alla duplicazione seriale degli sguardi, l’apologia dell’imitazione o il riverbero del plagio senza insolenza… il torto della fotografia moderna è di essere troppo sopportabile. Troppo “bella” per essere anche vera.
La fotografia della libertà o dell’utopia della Modotti è un linguaggio visuale/radicale ulcerato dall’eresia lasciata nelle tracce di ogni-dove ed ha provato il fascino degli estremi ma non si è fermato a metà strada tra le lacrime e la dinamite… ha sbarazzato di ogni pudore le miserie della ragione e l’arroganza della merce ed ha fatto franare ovunque la teologia generale del fac-simile smerciata come arte.
Le sciocchezze che sono state scritte su Tina Modotti come fotografa e come rivoluzionaria si sprecano. C’è chi l’ha deificata come “maestra in tutto” (Adys Cupull), chi ha subìto il suo fascino di donna che “ama gli uomini, ecco tutto. Li accoglie in sé finché diventano “carne della sua carne” (Elena Poniatowska). Altri si sono lasciati prendere il cuore dal suo senso di trasgressione del prestabilito (Pino Cacucci). C’è chi ha trovato nelle lettere di Tina a Edward Weston, “un essere femminile luminoso e singolare, che assorbe il meglio della molteplicità delle culture attraversate” (Valentina Agostinis). Per molti era solo una puttana da quattro soldi, una stupida imbevuta di politica, una donna disponibile ad ogni evento e priva di ogni morale.
Le cose più stupide sulla Modotti, come donna e come artista però le ha dette il suo ultimo compagno, Vittorio Vidali… quel “leggendario comandante Carlos del Quinto Reggimento, che costituì il nucleo dell’esercito popolare in difesa della Spagna democratica contro l’attacco fascista” (Attilio Colombo). Una bufala. La storia “disvelata” di questo spietato assassino, per niente leggendario, è un’altra. Il Vidali/Contreras/Sormenti… era uno sgherro di Stalin, di Palmiro Togliatti, agente dei servizi segreti russi che si spacciava come dirigente del Soccorso Rosso Internazionale. I suoi assassinii politici non si contano e qualcuno si conosce, forse (Carlo Tresca, Ignacio Reys, Andrés Nin)… da più parti gli viene attribuito l’organizzazione degli omicidi di Trockij, Camillo Berneri, Julio Antonio Mella, Buenaventura Durruti e della stessa Modotti. Vidali non andava per il sottile quando si trattava di sparare, avvelenare, linciare… chi sapeva troppo del comunismo al potere o chi deviava dalla linea di condotta del Partito.
Tina lavorava nella segreteria del Soccorso Rosso Internazionale. Conosceva bene anche ciò che accadeva nel famigerato Hotel Lux di Mosca, dove Paolo Robotti, cognato di Togliatti, dirigeva il Club degli Emigrati politici. In quelle stanze si decideva l’epurazione dei “deviazionisti” (comunisti libertari, trotzkisti, anarchici) e molti finirono nei campi di concentramento della Siberia, nei manicomi o fucilati nei cortili delle prigioni segrete. I boia si chiamavano Togliatti, Pajetta, Roasio, Robotti, Longo, Vidali… e il loro profeta, Stalin. Quando gli viene chiesto di rivivere gli anni di militanza e d’amore passati con Tina, Vidali dice: “…Amo ricordare Tina, donna modesta, gentile, dal carattere forte, stoico, intelligente… amo ricordarla dolce, generosa, ricca di femminilità”. Davvero un bel quadretto. Tina invece lascia di lui questo ritratto: “È un assassino. Mi ha trascinata in un crimine mostruoso. Lo odio con tutta la mia anima. Eppure, nonostante ciò, devo seguirlo fino alla morte. Fino alla morte”. Di lì a poco morì avvelenata in un taxi (proprio come un altro rivoluzionario inviso alla dittatura comunista, Victor Serge). Vidali non partecipò ai funerali. Per paura forse che qualche campesinos non controllato potesse dargli una picconata in testa. Gli stupidi come i tiranni, sono sempre ammazzati troppo tardi.
La scrittura fotografica di Tina Modotti è rivoluzionaria perché intreccia l’esistenza libertaria con l’arte vissuta come cammino per realizzarla. In questo senso diviene un linguaggio-icona che fa della “realtà del reale” (Nietzsche), la condizione “normale” dell’umanità. Ogni fotografia è l’apparire d’una coscienza, un’“eco dell’anima” che nel ri/vedere il proprio passato, proietta una luce nuova, un’immagine diversa sulla realtà mai completamente compresa. È nell’istante in cui la fotografia viola la linea del presente imposto, che comincia a risplendere ciò che realmente è dentro e fuori dell’Uomo.
Nei “ritrattati” della Modotti il linguaggio della speranza sorge ancora e non è vero che “gli uomini del suo mondo non sono felici” (come ha scritto un critico tedesco dopo l’esposizione privata delle fotografie di Tina Modotti nello studio di Lotte Jacobi). Una visione/lettura più approfondita delle sue fotografie ci apre un terreno/spazio di autenticità dell’essere che testimonia l’imprevedibile e l’eccezionale. Solo gli uomini e le donne realmente capaci di dire “tu” all’altro, “possono insieme, dire veramente noi” (Martin Buber). I ritratti della Modotti contengono gli aspetti più veri e contrastanti della vita comune… — Le mani del burattinaio (1926), Composizione con falce, cartucce e chitarra (1927), La macchina da scrivere di J. A. Mella (1928), Donna in nero (1929), Donna con bandiera nera anarcosindacalista (1928), Donna incinta con bambino in braccio (1929), Marcia di campesinos (1929), Donna di Tehuantepec (1929), Giovani pionieri (Germania 1930) —… sono immagini che bruciano la carne dei lettori e si chiamano fuori dall’edonismo plateale dei bisogni servili o mercantili. C’è nell’affabulazione figurativa della Modotti una psicologia del profondo, un oblio picaresco, una visuale eroica che rovescia i confini di una quotidianità sofferta e sborda oltre gli steccati di ogni ideologia per involarsi in una didattica di re-immaginazione del reale, una specie di controeducazione del linguaggio fotografico dominante.
Al fondo delle fotografie della Modotti, e non importa se lo sapeva o no, c’è la rêverie di Bachelard, il Fanciullo Divino di Jung, l’età dell’innocenza di Blake, la trasvalutazione di tutti i valori di Nietzsche e, più ancora, l’angelologia amorosa che conduce al Paese di Non-Dove di Rilke, Lorca e Klee. La Terra dell’immaginale ha inizio là dove il reale è insorto ed ha preso il suo posto. L’amore dei sognatori porta in sé l’oblio e l’incanto di una stagione azzurra che verrà e nel biancore dell’innocenza ritrovata esprime una cultura del sorriso, un respiro dell’aria che sboccia ai limiti estremi dell’universo già esistente e fa della libertà di essere la prima cosa da gridare.
La fotografia eidetica di Tina Modotti riprende l’infanzia giocosa dei bambini, dove l’immaginifico diviene reale e il reale si trasfigura in fantasia… l’educazione alla sensibilità comincia là dove la cultura dell’incurabile cresce. L’iconologia dei sentimenti che fuoriesce dal discorso fotografico della Modotti, libera la coscienza morente della civiltà senza cultura. Alla radice dei suoi ritratti c’è una resurrezione della luce, la manifestazione di un’attività onirica che ridesta l’emotività e si fa rappresentazione unica della vita. Non possiamo cambiare nulla se non ci sbarazziamo di tutti i vecchi relitti della sapienza addomesticata. Dove ciascuno è oggetto nelle mani di altri. E là dove non c’è nessuna speranza di essere uomo tra gli uomini, c’è solo disperazione. Se il mercato del collezionismo moderno, paga le Rose della Modotti 165.000 dollari ed ora le sue stampe sono in collezioni private e musei di mezzo mondo, la sua opera fotografica resta patrimonio dei popoli senza voce che si sono ribellati a tutte le forme di tirannia. La storia autentica sorge soltanto per mezzo di uomini liberi che hanno preso nelle loro mani il loro destino ed annunciato ovunque il crollo delle gerarchie immortali. Quando la fotografia bootleg del non-ancora rompe i legami con la fotografia del già-da-sempre, la magia dell’immaginario si leva sulla prostituzione della ragione che custodisce i morti e ai bordi della disobbedienza ritrova l’eccesso e la presenza dei valori dell’anima che è scesa per la strada e vi ha trovato – una terra che nessuno sa – da difendere e da sognare.
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