La classe operaia di Mordini (e Avallone) non solo non va in paradiso ma nemmeno all’isola d’Elba 

di Pino Bertelli

Il film di Stefano Mordini, Acciaio, è tratto dal libretto fortunato (in copie vendute e premi conseguenti) di Silvia Avallone… un romanzo scritto abbastanza male e quel che più ci fa un po’ sorridere è l’interesse che una cosetta rosa-rosa come il libro della ragazza bolognese, simpatica ed estroversa (come la Clarabella di Disney), possa davvero aver sollevato un polverone di contestazioni nel popolo piombinese (gli amministratori hanno solo scaldato il brodo di frattaglie utile a non entrare troppo nel dissenso, tanto da non inimicarsi i media nazionali… quelli locali sanno bene comportarsi nei riguardi di chi li foraggia). Nei capitoli di Acciaio c’è tutta la Piombino peggiore, vizi e comportamenti di una città anomala, sempre tesa a un’emancipazione dei costumi e sempre raggelata nella sudditanza al volere politico. Qui perfino gli asini volano, se lo dice il “comitato centrale”, un amministratore delegato o un ciarlatano di facebook che gioca a nascondino con i poteri forti.

Così la Avallone ha fatto il suo compitino liceale. C’è il giovane operaio bello, l’amicizia perduta e ritrovata tra due ragazze e l’inquinamento dell’ambiente (con moderazione) ad opera della fabbrica. Ci sono anche i morti sul lavoro (ma la faccenda è troppo seria per essere trattata come un fatto di cronaca). La classe operaia piombinese è vista in una sorta d’inferno cartolinesco e la fabbrica segna il ritmo delle giornate. Il sentimentalismo cementa tutto, anche la fantasia, quello che manca è la conoscenza delle radici sociali di una città-fabbrica e più ancora il coraggio degli operai che a più riprese nella storia di questa città hanno cercato di rovesciare il corso dell’incatenamento politico/economico.

Anche il ’68 a Piombino è sfiorito subito e i ragazzi extraparlamentari furono gettati nel discredito dai solerti funzionari del PCI. Molti dei quali ancora albergano nelle poltrone che “contano” e si adoperano in delazioni e censure preventive (l’infamia sta tutta nel rizomario dei loro linciaggi indiscreti)… sotto il mantello dell’ideologia e delle religioni sono avvolti crimini impuniti… la libertà di espressione e il diritto al lavoro – come è scritto nella Costituzione italiana – sono disattesi sul filo della mannaia o della genuflessione… il senso dell’umano è sempre andato a rimorchio del profitto e della politica della forca.

L’autrice di Acciaio si è guardata bene di scrivere che nella città dalle rosse bandiere un sistema di rappresentanza politica si è trasformato in un sistema di relazioni di scambio fra poteri pubblici e interessi privati… i politici passano, le loro devastazioni ambientali/criminali restano. Così ha scelto il fotoromanzo… la felicità o l’infelicità giovanile che tutto assolve e tutto dimentica… anche la bruttezza dei quartieri operai che fanno di Piombino una città-dormitorio è esposta in modo abbastanza forzato. Via Stalingrado c’è, ma nella testa della gente. Nel racconto (di una banalità scritturale indicibile) della “città rossa”, la Avallone evita di ricordare la distruzione della bellezza, in ogni sua forma, che questa città si porta addosso (i suoi strali sull’architettura piombinese sono pennellate all’acqua di rose, rispetto alla reale devastazione storica della città). Si dimentica di annotare (ma non è penna di talento passionale) che “la nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni… Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa hanno preso le armi” (Albert Camus). Senza mai considerare che ciò che non ci uccide ci fortifica (Nietzsche, diceva). La paralisi dell’immaginario spinge talora gli scrittori nelle macellerie… come non conoscere ciò che gridavano i maledetti della Beat Generation (Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso, Neal Cassady, Gary Snyder, Lawrence Ferlinghetti, Norman Mailer), e cioè che l’impudore del vero muore nell’innocenza dell’amore dell’uomo per l’uomo che si fa storia? L’impero della merce fa spettacolo di sé e la luce degli altiforni è legata al senso dell’umano andato sempre a rimorchio del profitto.

Il regista di Acciaio è Stefano Mordini, autore di pregio del cinema d’impegno civile italiano… i documentari Paz ’77 (2000), L’allievo modello (2002), Il confine (2007), Come mio padre (2009)… lo fanno conoscere come attento testimone di realtà sovente non trattate o disconosciute dall’industria filmica del giovanilismo d’accatto… ingiustamente sottovalutato dalla critica festivaliera di Berlino, all’uscita della sua prima opera di finzione, Provincia meccanica (2005). Un film aspro, poco incline al consenso spicciolo, costruito con inquadrature forti, buona fotografia e un montaggio serrato che aiuta non poco il bamboleggiamento dell’interprete (Stefano Accorsi), restituendo un ritratto di donna (Valentina Cervi) difficile da dimenticare.

In Acciaio Mordini sembra prendere un’altra via, quella di piacere un po’ a tutti. Del resto, al fuoco del botteghino bisogna scaldarsi, per non bruciare.

– Dalla velina dispensata alla 69° Mostra del cinema di Venezia riportiamo la sinossi di Acciaio: “Piombino l’acciaieria lavora ventiquattro ore al giorno e non si ferma mai. Di là, l’isola d’Elba, un paradiso a portata di mano eppure irraggiungibile. In mezzo, né di qua né di là, Anna e Francesca, tredici anni, bellissime, un’amicizia potente ed esclusiva quanto l’amore. Lo stesso amore che tiene in piedi Alessio, il fratello di Anna, operaio fino al midollo che si ostina a pensare all’unica ragazza che non può avere, il sogno della sua vita, Elena. Un giorno l’amore arriva, potente inaspettato per tutti e la vita prende un’accelerata improvvisa, finché si incrina, sanguina, si spezza.

Dietro al mondo dei ragazzi, vivono in lontananza, arresi e crudeli, i genitori, modelli a cui i figli giurano, nel bene e nel male, di non assomigliare mai. E sopra ognuno di loro, genitori e figli, la violenza continua dell’acciaio, che qualsiasi cosa accada, non si può fermare mai” –. Vero niente. Forse.

La classe operaia di Mordini (e Avallone) non solo non va in paradiso ma nemmeno all’isola d’Elba. È l’ultima estate prima del liceo… le ragazzine Anna e Francesca sono in preda ai primi turbamenti sessuali, ancora indecisi. Si allontanano, poi si ritrovano. Alessio, il fratello di Anna, fa l’operaio, tira di coca e ruba il rame per far quadrare i conti. Si abbevera al falso erotismo di provincia del night club. Il posto sicuro in acciaieria lo conforta. Ama con trasporto Elena, figlia del dottore della città, che dopo aver fatto esperienze di lavoro altrove, ritorna e diventa impiegata nella stessa fabbrica di Alessio. Il rapporto delle ragazze con i genitori è difficile, forse incolmabile, tuttavia l’acciaio, a conti fatti, resta il collante a garanzia del futuro di un’intera città (fotografata, male, nella sua parte più brutta). Il morto in fabbrica commuove anche i predatori dell’acciaio nell’implosione della bolla finanziaria (dissimulata nel sudario dei loro misfatti a colpi di licenziamenti ricattatori) e in accordo con i loro vassalli – sindacalisti inclusi – dominano come i ratti su un cumulo di spazzatura. Il neoliberismo mette tutti d’accordo, padroni e operai. Non ci sono santi che tengono. Sfruttati e sfruttatori non guardano in faccia alla distruzione ambientale né alle morti sul lavoro… ciascuno è deresponsabilizzato e finché dura la sola cosa che conta sono le proprie convenienze in barba alla miseria montante della globalizzazione dei mercati. Le giovani generazioni di disoccupati restano nei dati Istat e nelle chiacchiere televisive degli imbonitori della politica. La lezione della fabbrica di morte di Taranto insegna (dove rassegnazione e sottomissione degli operai ai padroni dello stabilimento e ai faccendieri della politica sembra toccare gli stilemi della farsa).

A questo proposito ci piace riportare quanto afferma in un intervista rilasciata a Venezia Today dall’attore Michele Riondino (tarantino), che interpreta Alessio nel film Acciaio: “Quello che è cambiato ultimamente verso l’Ilva è l’attenzione dei media. Si parla di bustarelle o intercettazioni, ma in realtà sono tutte cose che a Taranto tutti sanno bene. Non c’é politica che si interessi davvero del problema. La famiglia Riva si è schierata con ogni parte politica, con la chiesa e con i giornali così non ci resta che strappare la scheda elettorale. Potrebbe sembrare un segno non costruttivo, ma secondo me è un segnale che si può dare alla mia parte politica che non è mai stata al potere”. Ricordiamolo: la salute dei cittadini fa parte dei servizi pubblici, la cui protezione e gratuità dovrebbe essere garantita. Le mafie della politica identificano la persona con il gregge e il parlamento è un covo di serpi in attesa che venga schiacciata loro la testa! Porca puttana! Bisogna proprio essere dei coglioni o non aver niente di meglio da fare per vedere un film (o leggere un libro) che parla di queste cose come fossero la realtà… qui la filosofia da zuccherificio impera e l’acciaio è il solo responsabile dell’incomprensione tra padri e figli… l’aridità della politica istituzionale, le vessazioni dei padroni della fabbrica, l’inquinamento ambientale vero, le lotte della classe operaia (vinta ma non arresa) restano fuori… al limite dell’indecenza creativa… il confetto adolescenziale è servito.

È il desiderio di vivere tra liberi e uguali che apre le porte al possibile. È “il divenire davvero umano dell’uomo che supera la propria umanità e crea il proprio destino” (Raoul Vaneigem). Imparare a vivere superando la predazione dell’economia politica è il solo elogio di uno stile di vita da conquistare. Lo sfruttamento delle masse è planetario e le bande a delinquere degli affari attribuiscono ai cadaveri che divorano con gli indici della Borsa, il servilismo volontario.

Se la corona di spine è il copricapo di un impostore o di un pagliaccio, l’aspirazione alla felicità pubblica passa dall’abbattimento di tutte le idolatrie. Quando i popoli si accorgeranno della fame di bellezza che tengono nel cuore, ci sarà la rivoluzione nelle strade della terra.

La sceneggiatura di Acciaio è di Mordini, Giulia Calenda (e Silvia Avallone)… i luoghi comuni si sprecano… le banalità figurative, anche. La fotografia di Marco Onorato è molto televisiva, da sceneggiato in prima serata… tutto è ben edulcorato, i frammenti della fabbrica poi sembrano tratti da una pubblicità del Mulino Bianco (manca solo la faccia un po’ tronfia di Antonio Banderas che parla con una gallina a fare da specchio per l’educazione delle masse all’acquisto di un biscotto). Il montaggio di Marco Spoletini e Jacopo Quadri è inesistente, lento, accompagna le sequenze senza un’inventiva strutturale. Della scenografia di Luciano Ricceri e dei costumi di Ursula Patzak, meglio lasciar perdere (roba da centro commerciale). Riuscita invece la scelta degli attori. Michele

Riondino è bravo, sostenuto da un certo fascino proletario che utilizza bene e Vittoria Puccini, una faccia bella, fin troppo malinconica, lavorano senza troppi estetismi e insieme alla freschezza giovanile, quasi selvatica di Matilde Giannini e Anna Bellezza impediscono l’uscita dal cinema. Restiamo convinti però che una passeggiata a Cala Moresca [un sentiero in un parco naturale a Piombino], una birra all’osteria con gli amici a cantare “Bella ciao” o fare l’amore (omosessuale o lesbico è la medesima cosa) su una spiaggia di fronte all’isola d’Elba è senz’altro un modo migliore di occupare il proprio tempo.

Una risposta dialettica, per ristabilire almeno una più attendibile aderenza iconografica al reale vissuto della città e nella città di Piobino, l’affido al mio reportage “Gente della città del Ferro – Piombino 1980-2015”.