Come e in quale modo gli artisti, i pensatori, gli scrittori, i compositori e i musicisti possono, attraverso immagini, oggetti, parole, movimenti, azioni, testi e suoni denunciare la deriva catastrofica del nostro Mondo?
di Francesco Correggia
All the World’s Futures è il tema di quest’ultima Biennale di Venezia, la 56ª Esposizione internazionale d’arte. Il titolo già in sé è pretenzioso, onnicomprensivo, generico ma anche denso di argomenti, di riflessioni, di aperture. Quando c’è di mezzo il futuro le cose appaiono in maniera diversa. C’è una maggiore intensità, un progetto, una profondità che sollecita tutti, non solo come soggetti, ma anche a livello emotivo di chi ascolta, guarda, tocca. Così nell’intento del curatore Okwui Enwezor la Biennale si sviluppa, come lui stesso afferma, in tre direttrici, tre filtri, che s’intersecano l’un l’altro: Garden of disorder, Liveness: on epic Duration e Reading Capital. Né poteva mancare da parte del curatore il richiamo ai diversi approcci con cui questi universi sono trasferiti in immagini. Devo confessare, fin da subito, che l’argomento appare interessante da un punto di vista del criterio in cui convivono queste idee. Esse appaiono sorprendenti, tanto rispetto alla riflessione attuale di molti pensatori, quanto per la consistenza antropologica, politica ed etica che tale approccio manifesta.
Come in quella precedente anche questa Biennale parte con idee e progetti forti, dichiarati nella presentazione della mostra dallo stesso Presidente della Biennale Paolo Baratta. Chissà, deve esserci una specie di conversione alla mistica del presente, se a ogni Biennale è ripetuto il concetto di realtà sia in immagini sia in teorie, il che non è del tutto erroneo e fuori dal contesto in cui viviamo. La questione tuttavia è molto più complessa poiché spesso in queste grandi esibizioni di arti visive la realtà è scambiata per attualità, ripetizione del già detto, del già praticato, e comunque sempre in ritardo rispetto alle vere urgenze planetarie, sociali ed economiche di questo nostro Mondo. Baratta scrive nell’introduzione: “La Biennale torna a osservare il rapporto tra l’arte e lo sviluppo della realtà umana, sociale, politica, nell’incalzare delle forze e dei fenomeni esistenti”. Il curatore, sempre secondo Baratta, è stato chiamato per la sua particolare sensibilità, egli non pretende di dare un giudizio, fare una predizione, ma convocare le arti e gli artisti da tutte le parti del mondo e da diverse discipline in un Parlamento di forme. Bravo per aver compreso l’importanza delle arti visive in una società sempre più marcatamente votata all’esclusione, alla discriminazione verso quegli artisti ribelli, che scrivono, pensano ed esprimono le loro idee in diversi modi senza piegarsi ai settarismi, ai convenzionalismi di gran parte dei curatori nostrani.
Tuttavia, forse perché il curatore non è italiano, questa Biennale presenta alcune novità che si rivelano interessanti nel panorama livido, anemico dell’arte. Si fa sempre più estesa la partecipazione a questa a Biennale dei padiglioni nazionali che comprendono per la prima volta presenze nazionali come quelle di Grenada, Mauritius, Mongolia, Repubblica del Mozambico, Repubblica delle Seichelles. Altri paesi partecipano quest’anno dopo una lunga assenza: Ecuador (1966, poi con l’IILA), Filippine (1964), Guatemala (1954, poi con l’IILA). Il Padiglione Italia in Arsenale, organizzato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con la Direzione generale arte e architettura contemporanee e periferie urbane è curato quest’anno da Vincenzo Trione.
Sono 44 gli Eventi Collaterali ufficiali ammessi dal curatore e promossi da enti e istituzioni internazionali, che hanno allestito le loro mostre e le loro iniziative in vari luoghi della città.
La Mostra internazionale All the World’s Futures forma un unico percorso espositivo che va dal Padiglione Centrale (Giardini) all’Arsenale, includendo 136 artisti dei quali 89 presenti per la prima volta, provenienti da 53 paesi.
Reportage di Francesco Correggia
Uno degli aspetti che caratterizza questa Biennale oltre a quello di mettere insieme e far parlare le diverse discipline in un’unica aperta orchestrazione di progetti, così come ci suggerisce Okwui Enwezor, è quello di rappresentare una grande scena in una specie di unico palcoscenico dove si possono osservare progetti storici e contro storici. Attenzione però, in questo scenario dove il controcanto storico assume un compito importante nell’individuare nessi e partizioni sfuggono le principali aporie della memoria: quella della rappresentazione di una cosa assente accaduta in precedenza e quella di una pratica votata al richiamo attivo del passato che la storia innalza al rango di una ricostruzione. Ora è proprio in questo richiamo alla presunta storia (forse non può essere ancora una storia) che Enwezor sviluppa il suo palcoscenico in un impianto d’incastri, di scritture e riscritture, di voci e verbalismi che s’intersecano e si dipanano all’interno delle varie mostre.
L’altra direttrice centrale in cui ruota, non a caso questa Biennale, è l’attenzione riservata al Capitale di Marx. Ormai è noto che da molti anni è in corso una rilettura e una rinnovata attenzione alle tesi di Marx, soprattutto alla sua analisi scientifica dei modi di produzione. In Italia penso a un filosofo come Diego Fusaro, non certo un comunista, con il suo libro Ben tornato Marx, ma anche prima a un pensatore come Fredric Jameson con la sua critica al post-modernismo, ma anche al mio stesso libro dal titolo Le Diarchie dell’arte pubblicato di recente per i tipi Mimesis e una mia video-performance del 2011 dal titolo evviva Marx.
Questo rinnovato interesse per l’opera di Marx è frutto non di un ribaltamento ma di una nuova contingenza sociale e proto-storica, di un riemergere di problematiche che si ritenevano superate, dell’implodere della finanza, dello sfruttamento, delle guerre e dai regimi di povertà che imperversano nel mondo. Che l’artista non sia consapevole di queste nuove dinamiche appare improbabile. Anzi direi che l’arte non è chiamata a rappresentare uno scenario e a impossessarsi delle materie che hanno a che fare con la medesima ma è essa stessa il luogo della presentazione di questi processi di trasformazione. Non è che dall’esterno accade qualcosa e gli artisti rispondono. È il contrario, sono gli artisti, gli scrittori, i pensatori che prefigurano il tempo, lo anticipano, lo colgono di sorpresa. Si può anche pensare che le tensioni del mondo esterno sollecitino le sensibilità, le energie vitali ed espressive degli artisti, i loro desideri, i moti dell’animo (il loro inner song) ma è il tentativo di anticiparle queste tensioni che fa dell’opera d’arte un processo in divenire che sempre si rinnova. L’artista già sente, già vive in anticipo la questione del rapporto con la storia e la sua scrittura, con il farsi stesso dell’opera che proprio perché anticipante risponde già alle domande sulla storia e il futuro del mondo. E lo fa proprio in virtù di quell’immediatezza evocata dagli standard della comunicazione globale. Se andiamo più in profondità possiamo affermare che la questione è proprio quella della responsabilità. Essa oggi si pone sul terreno della prassi e delle scelte che molte volte non sono quelle che un curatore di una biennale sa cogliere e individuare nella scelta degli artisti. Tuttavia in questa Biennale va colto un aspetto consapevole, incandescente che la avvolge e cioè il persistere della parola, della scrittura che attraversa tutto il suo impianto espositivo.
L’incastro tra l’evocazione alla storia e l’attualità con i suoi drammatici interrogativi è mostrato nella sua essenza nel padiglione centrale ai Gardini. Qui il progetto di Okwui Enwezor assume tutto il suo senso dilatandosi orizzontalmente su tutta la Biennale. Lo spazio del Padiglione centrale assume una caratteristica direi ellittica che s’irradia fino a comprendere gli spazi dell’Arsenale, fra gli spazi dedicati ad artisti storici ormai noti e rappresentativi nel panorama dell’arte moderna e contemporanea e gli artisti meno noti ma presentati come succedanei e dialoganti fra loro. Il curatore ci propone artisti che egli ritiene indicativi per rappresentare lo sconvolgimento del nostro tempo in un lettura organica della crisi del pianeta e dell’emergere di conflitti sociali inediti. Si tratta di spazi organizzati appunto come delle Gallerie dove sono presenti, sempre secondo lo sguardo che ne dà Enwezor, artisti come Robert Smithson, Hans Haache, Fabio Mauri, Marlene Dumas, Andreas Gurski, Bruce Nauman, Christian Boltanski, Mark Ofili, Georg Baselitz. È da questi spazi che si configura lo spirito di All the World’s Futures almeno nei suoi elementi principali, nei tre filtri individuati da Enwezor. Il movimento globale che assume oggi il mondo dell’arte è qui proposto come progetto di una conversazione intorno ai temi caldi del pianeta ponendosi come riscrittura della storia più recente. Garden of disorder, Liveness: on epic Duration e Reading capital sono i punti cardinali che disegnano un’unica costellazione. Il principale interrogativo che questa Mostra pone, scrive Okwui Enwezor, ruota intorno allo stato delle cose: come e in quale modo gli artisti, i pensatori, gli scrittori, i compositori e i musicisti possono, attraverso immagini, oggetti, parole, movimenti, azioni, testi e suoni denunciare la deriva catastrofica del nostro Mondo?
Proprio all’ingresso del Padiglione centrale ai Giardini troviamo Signaling devices in now bastard territory, venti tele dipinte a olio ancorate a bandiere fino a terra di Oscar Murillo. Ancora sulla facciata del Padiglione Glenn Ligon espone A small Band, un’opera realizzata con tubi fluorescenti dipinti che formano una scritta con le parole Blood/Blues/Bruise. Sembra l’ingresso in un tempio dove dispositivi di segnalazione, più che marcare un territorio ne evocano la loro griglia di morte quasi a introdurre lo spazio dedicato all’opera di Fabio Mauri. Sono presentate in questa sala opere che segnano un passaggio fondamentale; un Fabio Mauri quasi verbovisuale. La scritta fine emerge dai quadri di Mauri, fine che ricorda un saggio emblematico di Derrida dal titolo finis nel suo libro Aporie, dove appunto la parola fine era intesa in una dialettica costante fra la mia morte come possibilità, il finire del vivente ma anche fine come condizione dell’essere ai limiti della verità, finalità, destino. Tutto ciò sembra costituire una premessa all’opera più fortemente simbolica di Mauri: la catasta di valigie già presentata nella biennale del 1993 a rappresentare il Muro occidentale o del Pianto. Si tratta di un’opera molto nota che ora torna per questa Biennale con qualche modifica. Seguendo il filo sottile di un’esposizione duale, oppositiva troviamo un artista come Naeem Mohaiemen, nato nel 1969, scrittore e artista visuale che lavora fra Dhaka e New York. Egli usa diversi registri espressivi, saggi, film e fotografie per la sua installazione con video a due canali, suono e colore dal titolo Last man in Dhaka Central. L’artista si muove in una dimensione di un impegno politico sociale con una particolare attenzione verso la storia più recente dei movimenti della sinistra radicale. The Young man was è una storia in frammenti della sinistra rivoluzionaria degli anni settanta. Il racconto, l’elemento scritturale e visivo, sembrano accompagnare l’intera esposizione.
Nella sua proiezione di diapositive in loop di Following the Light of the Sun, I Only Discovered the Ground, Runo Lagomarsino rivisita uno sconcertante e ambizioso monumento del controverso artista georgiano russo Zurab Tsereteli. Ne ricostruisce il percorso di immagini e ci fa ricordare un caso insopportabile di storia travisata e fuorviata. Nel suo Muralla Azul, cinque disegni astratti, blu, ricordano la superficie ondulata del mare in un piano orizzontale della sala tra immagini e riscritture che attraversano tutta la parete. Dopo l’installazione Roof off di Thomas Hirschhorn che sembra sfondare il tetto del padiglione con la sua impalpabile energia, si fanno ricordare i disegni del tempo e della durata dell’artista peruviana Teresa Burga.
L’itinerario della mostra ha una sorta di spazio perimetrale che innesca una memoria ancora viva della Land Art o Earth art. Mi riferisco all’opera di Robert Smithson che fa quasi da controcanto a quella di Fabio Mauri. Robert Smithson artista-filosofo-scrittore legato alla terra, alla potenza del paesaggio, all’infinito del “Wild”. Smithson si occupò di arte e politica studiando piante e terreni, geologia e fisica. Morì drammaticamente in un incidente aereo mentre faceva sopralluoghi. L’opera presentata in Biennale dal titolo Dead Tree è alta 10 metri con frammenti di specchi fra le fronde. Il grande albero giace sul pavimento seccandosi sotto i nostri occhi, come la carne morente eppure ancora viva della natura. Accanto al video Swamp del 1971 di Nancy Holt e Smithson, l’opera coglie ancora di più l’aspetto frammentario della storia che qui si ricompone in una soluzione di continuità atemporale, come se il tempo dovesse fermarsi e il pubblico riflettere sulla natura delle cose. Tra la sala di Robert Smithson e quella di Hans Haacke incontriamo la pittura di Emily Kake Kngwarreye dal titolo Earth’s creation, quattro pannelli dipinti con vernice polimerica sintetica. Il suo lavoro ci costringe a gettare uno sguardo su che cosa pensano oggi la maggior parte dei curatori della pittura. Secondo loro essa deve essere vivace, saltellante di colori, primitiva e d’effetto. In questo caso il pittore si serve di una pennellata a tratti che dovrebbe ricordare la pittura espressionista. Ecco che appare la pittura di Ellen Callagher con Dew Braker. La superficie della tela è attraversata da un pigmento pingue, piatto, dove emergono e si sovrappongono tracce, indizi, reperti, sedimenti.
Dobbiamo attraversare frettolosamente questi spazi che con la pittura e il suo corpo storico hanno poco a che fare per arrivare a Marlene Dumas, tra volti tragici, teschi urlanti, tra pittura e foto reali elaborate. Ormai lei è sempre là in tutte le recenti Biennali a onorare quel che rimane della pittura. Seguendo il filo sottile della storia e della dimensione politica dell’arte ecco la sala dedicata ad Hans Haache con al centro il suo Blue Sail, il fluttuante velo blu. La processualità dell’opera di Haacke qui si mostra nel suo rigore concettuale a cominciare dai suoi testi che si inseriscono in quella corrente dell’arte degli anni settanta chiamata Art&Language per poi confluire nell’opera più rappresentativa da un punto di vista storico, la sua installazione MoMa del 1970. Questa è l’opera più significativa di Haacke sui processi d’ibridazione tra arte, linguaggio e dinamiche sociali. In MoMa poll è l’arte a chiamare il pubblico a rispondere sulle questioni politiche più delicate. Arriviamo poi a un intermezzo di policromie di ispirazione africana, ai grandi dipinti di Kerry James Marshall che si interroga sull’identità e sulla predominanza della cultura visiva dei bianchi. La dura realtà e precarietà del mondo produttivo è affrontata da Jeremy Deller con il suo manifesto che recita Hello today you have day off ovvero l’sms che riceve il lavoratore quando non viene convocato. Il tema del lavoro s’intreccia con una dimensione dell’arte verbale in Adrian Piper in Everything, 2013: quattro lavagne a muro con cornice in legno laccato dove ossessivamente si ripete la scritta Everything will be taken away.
Andreas Gursky, artista fotografo da tempo noto nel panorama dell’arte, spicca con Chicago mercantile exchange del 1997. La realtà e la surrealtà del lavoro si condensano nelle fotografie di Gurski rappresentando non solo l’alienazione collettiva ma anche paesaggi urbani, rovine e storie di quartieri in bilico fra sparizioni e ricostruzioni. Si arriva poi allo scomparso Ishida (un bell’esempio di pittura di figurazione), pittore giapponese molto conosciuto per i suoi surreali ritratti dell’ordinaria vita giapponese. Egli morì nel 2005 colpito da un treno a un passaggio a livello. Il curatore gli dedica un’ intera sala e fa bene. Nei suoi dipinti i lavoratori sono ridotti ormai essi stessi a oggetti inanimati da montare e smontare come pezzi di ricambio. In Vertigo Sea di John Akomfrah i due poli della storia e della natura si fondono. Nato in Ghana e cresciuto in Gran Bretagna, membro del Black Audio Film Collective (gruppo creativo e politico), in 80 minuti e tre schermi Akomfrah racconta l’Oceano, luogo di sopraffazione e violenza di uomini sugli uomini, origine e fine di tutte le cose. La natura diventa una discarica del mondo, memoria di battaglie e imperi. Akomfrah ci mostra un’antologia d’immagini, di storie di pescatori e disgraziati naufraghi.
Nel padiglione centrale un altro fulcro della mostra è costituito da ARENA, uno spazio sempre attivo dedicato a una continua programmazione interdisciplinare dal vivo. Il cardine di questo programma è l’imponente lettura in progress dei tre volumi di Das Kapital di Karl Marx (Il Capitale). Das Kapital è una sorta di Oratorio: per i sette mesi di apertura dell’Esposizione la lettura dal vivo dell’opera fondamentale di Marx diventa un appuntamento che si svolge senza interruzioni. La regia dell’azione è dell’artista e regista Isaac Julien. Certo la versione letta da attori come un testo drammatico per tutta la durata della Biennale stimola i sensi, evoca il ricordo, la storia, ma al contempo offre una dimensione riduttiva, estetica di un libro che avvolge tutta la storia del pensiero moderno rischiando di eliminarne la complessità, semplificandolo, riducendolo appunto a oratorio. Questo luogo concepito dal premiato architetto ghanese-britannico David Adjaye vorrebbe essere anche un luogo sacro, prendendo spunto dal rito sikh dell’Akhand Path (una recitazione ininterrotta del libro sacro per la quale si alternano più lettori nell’arco di diversi giorni) di raccolta della parola parlata, dell’arte del canto, dei recital, delle proiezioni di film, diventando esso stesso il foro delle pubbliche discussioni. In questo flusso ininterrotto di parole, recitazioni e immagini sembra di essere all’interno della grotta di una sibilla, precipitati in un’oralità secondaria che prevale sulla scrittura e sul suo Pharmacon.
Sulla scia del concetto di “Vitalità: sulla durata epica”, la Biennale Arte ha commissionato agli artisti diverse nuove partiture e performance presentate nell’ARENA in un’analoga modalità senza soluzione di continuità, approfondendo il concetto di canto e la possibilità offerta dalla voce di essere lo strumento che scandisce il ritmo di una narrazione. Uno di questi, Olaf Nicolai, presenta una nuova performance, ispirata alla innovativa composizione in due parti di Luigi Nono (Un volto, e del mare / Non consumiamo Marx, per voce e nastro magnetico) e ai più recenti tentativi del compositore italiano di pronunciarsi criticamente e politicamente attraverso il medium della musica, ispirandosi, per i propri brani, alle poesie di Cesare Pavese, alle scritte sui muri di Parigi e a voci registrate dal vivo e in modo casuale durante manifestazioni cittadine.
Nei padiglioni Nazionali stranieri aleggia un’aria malinconica di abbandono come se non interessasse più la partecipazione rituale alla Biennale di Venezia. Una specie di stanchezza sembra pervadere tutta l’intera area introno al padiglione centrale. Tuttavia vanno segnalati alcuni padiglioni che oltre allo sguardo storico, sociale e ambientale dell’intera rassegna presentano aspetti inediti e alquanto fuori dal panorama consuetudinario dell’arte internazionale: mi riferisco a padiglioni come quello della Romania che propone Adrian Ghenie. La sua è una pittura intensa che ormai non sembra più interessare l’onda lunga, internazionalizzata dell’arte. Una pittura con forti toni, scavata all’interno della memoria e della storia. Occorre segnalare il bianco quasi assoluto di Global Myopia di Marco Maggi che rappresenta l’Uruguay. Le pareti riempite da migliaia di lettere dell’alfabeto ritagliate con pazienza sono un eloquente esempio di minimalismo poetico. Il padiglione della Repubblica di Corea presenta il video multicanale The Ways of Folding Space & Flying di Moon Kyungwon & Jeon Joonho che, evocando 2001 Odissea nello Spazio, ci restituisce una versione nuova del viaggio. Il video è una specie di favola tecnologica e ha come protagonista una ragazza la quale ripercorre le tappe della civilizzazione e del desiderio umano del volo, della levitazione, dell’oltrepassare i confini. Israele è presente con Geva Archeology of the Present. Qui il tema dell’andare oltre gli spazi e i significati è centrale. All’interno ci si confronta con l’illusoria stabilità dell’ambiente domestico mentre l’esterno è coinvolto e trasformato da una geometrica parata di copertoni neri. Nel padiglione inglese, inserite nel giallo brillante dell’ambiente, le sculture di Sarah Lucas riproducono con realismo parti di corpi penetrati da sigarette che rimandano con ironia tutta britannica ad una sessualità senza volto, esasperata e quasi priva della dimensione organica, materiale del corpo. Degno di nota è la complessità di Wrong Way Time di Fiona Hall nel padiglione dell’Australia. Nello spazio sono raccolti una moltitudine di opere e oggetti variamente trasformati: banconote, orologi, atlanti, teche, giornali, animali, foglie e ticchettii. Gli oggetti sembrano volerci immergere in un mondo oscuro che s’interroga sul nostro presente, dominato dalla finanza, dalla follia umana e dell’impatto futuro sull’ambiente. The Key in the Hand è il titolo dell’opera progettata dall’artista Chiharu Shiota per il Giappone. Si tratta di un’opera molto spettacolare basata sul valore della memoria. Una barca che sembra venuta da lontano, da un grande passato al centro del padiglione. Centinaia di chiavi scendono dal soffitto come un velario di pioggia rossa. Forse il limite è proprio questo eccesso di suggestione che coinvolge tutti i visitatori. La Spagna con soggetto di Cabello/Carceller, Francesc Ruiz e Pepo Salazar, dedica il suo spazio a Salvator Dalì appunto il soggetto di un interessante miscuglio di voci, oggetti, soggetti e video installazioni.
Le opere scultoree di Walead Beshty, Isa Genzken, Carsten Höller, Philippe Parreno e Raqs Media Collective percorrono tutta l’area dei Giardini in una specie di percorso parallelo che in qualche modo conduce a una riflessione ulteriore sul senso del giardino in rapporto alla continua fluttuazione dell’opera.
Antonio Manuel, André Komatsu, Berna Reale per il Brasile con l’installazione So much that it doesn’t fit here ispirata a uno slogan di protesta, contrappongono la libertà dell’arte alle dure coercizioni esercitate dalla politica. Le aperture praticate nelle pareti colorate invitavano irresistibilmente i visitatori grandi e piccoli ad attraversarle.
Negli spazi dell’Arsenale l’esposizione prosegue in una specie di avvitamento su se stessa ove convergono visioni, parole, scritture, onde sonore, soste che ampliano il panorama e le problematiche culturali e sociali dell’intero percorso di questa Biennale. L’Arsenale è stato trattato da Enwezor e dagli artisti come ciò che sempre dovrebbe essere: un luogo di accumulo di armi. Ma lo spettacolo che si mette in scena all’Arsenale è anche chiamato il Garden of disorder (Giardino di disordine), dove il visitatore è condotto a ripensare lo stato attuale delle cose dell’arte, il suo futuro e le attese globali di produzione artistica.
L’ingresso si apre con l’installazione di Ibrahim Mahama che tappezza e impregna anche olfattivamente il percorso del troncone dell’Arsenale con migliaia di scuri sacchi di iuta. Una volta entrati nei padiglioni, anche qui sembra che il centro d’irradiazione sia dove più forte è la presenza di artisti storici come Bruce Nauman con la sua opera dal titolo emblematico, Eat / Death del 1972, Pino Pascali (uno dei pochi italiani presenti con il suo cannone, quasi un simbolo, una testimonianza a guardia di un’urgenza, di una ferita mai rimarginata).
Dopo una pausa per il poetico video di Christian Boltanski incontriamo le teche del cubano Ricardo Brey, esempio di un sincretismo culturale che mette insieme la coscienza delle sue radici afroamericane e una forte critica al consumismo. Nella sua installazione riecheggia sottilmente l’Arte Povera ma anche una certa alchimia verbo visuale.
Di grande effetto è The Portrait of Sakip Sabanci di Kutlug Ataman commissionato per celebrare i dieci anni dalla scomparsa del magnate e filantropo turco Sakip Sabanci. La grande installazione, che ha richiesto tre anni di lavoro per la realizzazione, è costituita da diecimila piccoli LCD che ritraggono i volti delle persone che hanno incrociato il suo percorso durante la sua vita. Dopo la barocca installazione Untitled trumpt 2015 di Katharina Grosse – uno spazio dove si mescolano insieme terra, macerie, colori, tende e lenzuola – incontriamo Lily Reynaud Dewar. Dal 2012 durante la sua performance presso il Centre national d’art contemporain di Grenoble ha cominciato a esibirsi lei stessa sul palco, danzando nuda e con il corpo dipinto. Per la Biennale di Venezia combina alcuni video di questa performance con un nuovo lavoro: un’installazione che comprende testi e musica sui temi della profilassi, della responsabilità, della libertà. L’installazione nel suo insieme appare confusa e abbastanza banale anche se i relativi temi sembrerebbero ossessionare la mente dell’artista e dello stesso curatore. Indubbiamente poetico è il film Ashes di Steve McQueen che racconta la tragica storia delle isole Grenadine che McQueen aveva conosciuto nel 2002 girando un altro film. In Ashes la storia attraverso il testo verbale e sonoro trova una congiunzione perfetta con la narrazione epica. Proiettato in un loop senza fine, il film sembra prolungarsi all’infinito in una elaborazione ossessiva del lutto che coinvolge emotivamente gli spettatori, mettendoli a confronto con quella tragedia.
Il vertice opposto sembra essere l’installazione di Eduardo Basualdo in Alba: una porta massiccia, uno spazio vuoto che apre alla vita spettrale. Tutto sembra rimandare a quello che non c’è, ad un oltre invisibile eppure presente fino ai fogli infilzati in tubi verticali di metallo a testimoniare la caducità del tempo e l’inutilità della stessa narrazione. Adrian Piper lo troviamo anche all’Arsenale in un’installazione che sembra fare da spartiacque fra l’immagine e la verità, la menzogna e la fiducia. Si tratta di The probable trust Registry, una performance interattiva sulla verità. È spiazzante ed efficace la simulazione aziendale che fa quasi da spartiacque fra la l’immagine e la verità, l’artificio e la realtà. In questo spazio freddo e alienante alcune hostess accolgono i visitatori che vengono invitati a firmare dei documenti in cui promettono responsabilità morale verso se stessi e gli altri.
Mentre i Transactional Objects in legno della coppia Rupali Gupte & Prasad Shetty compaiono ogni tanto lungo il percorso, non potevano mancare due pittori come Cris Ophili e Georg Baselitz. L’uno che maldestramente inizia a relazionarsi con la storia della pittura occidentale con lavori di grandi dimensioni, ma che appaiono tristemente intrisi di un colore brillante che si chiude in piatte composizioni illustrative. L’altro – Georg Baselitz – indubbiamente più noto per essere stato uno degli artisti tedeschi del gruppo Nuovi selvaggi negli anni Ottanta, presenta dei grandi dipinti del suo corpo rovesciato, i quali compongono una specie di altare. Viene in mente la cappella aconfessionale di Rothko a Houston (Texas) per la monumentalità e l’estensione dello spazio. Solo che qui non si tratta del grande Rothko ma semplicemente della rappresentazione apotropaica del corpo di Baselitz.
Fra le cose più interessanti che si fanno ricordare all’interno dell’Arsenale figura il Padiglione della Repubblica del Kosovo con l’installazione di Flaka Haliti dal titolo Speculating on the Blue: una stanza col pavimento ricoperto di sabbia blu dalla quale si ergono frammenti di recinti e barriere inutili quasi a svelare l’assurdità di confini arbitrari in un mondo che non dovrebbe averne. Interessanti sul versante della pittura è l’opera di Gedi Sbody. Negli otto lavori presentati per la Biennale l’artista interviene fra figura e sfondo sovrapponendo forme astratte a pigmenti con immagini che vengono incollate sopra creando frammenti di paesaggio. La pittura sembra richiamarsi a un certo minimalismo per le sue forme se non fosse per quei bulloni di metallo che spuntano dalla superficie dipinta. Materiali di recupero che attraverso il gesto pittorico rifioriscono in una dimensione quasi sublime della pittura.
Crossing the tide di Vincent J.F. Huang consiste in una passerella che i visitatori devono attraversare. L’artista denuncia il rischio che un’intera isola del pacifico scompaia insieme ad altre per la frequenza di catastrofi immanenti, eventi atmosferici, ma soprattutto per l’innalzamento dei livelli degli oceani. Quasi una sospensione il lavoro pittorico di Lorna Simpson che affronta temi sociali pur rimanendo all’interno di un’eleganza pittorica e formale inusitata in questa Biennale. Le sue figure femminili non sono mai banali ma si compongono e scompongono all’interno del linguaggio della pittura che qui si mostra come cadavere eccellente pur nella sua ineffabile attualità. Rukrit Tiravanija espone per questa Biennale un’installazione già presentata ad una Galleria di Pechino nel 2010. L’artista aveva installato in quella Galleria una macchina funzionante per cuocere mattoni. Qui i mattoni sono messi ad asciugare naturalmente ed esposti al pubblico con la scritta in ideogrammi cinesi non lavorare mai, allusione precisa ad uno degli slogan più noti dei Situazionisti ne travaillez jamais.
Dopo il commovente Padiglione IILA (Istituto Italo Latino Americano) che affronta il tema della scomparsa con l’installazione sonora Voces Indígenas dove si avverte entrando un indistinto mormorio. Una grande scultura fatta di detriti e materiali vari è quasi sospesa sulle nostre teste; si tratta di Phoenix, una impressionante opera di Xu Bing installata nel bacino delle Gaggiandre all’Arsenale. L’opera certamente fa riferimento a un uccello mitologico: la Fenice che rinasce dalle proprie ceneri dopo la morte, ma è anche un richiamo all’Angelus Novus di Paul Klee da cui Benjamin ha tratto la sua tragica e possente figura allegorica dell’Angelo della storia. In Klee l’angelo sembra più un uccello che un angelo così come in Xu Bing l’uccello sembra più un angelo della morte mostruoso che un angelo della storia, ma forse le due figure si incrociano.
Dopo il presagio di Xu Bing, quando l’esposizione sembra arrivare al termine, scorgiamo davanti a noi il Padiglione Italia curato da Trione. Un viaggio al termine della notte che ricorda Celine? No, non è quella notte né si entra in un racconto ma abbiamo a che fare con un antro indistinto in un luogo confinato, in uno spazio, quasi labirintico, terreo. Si avverte già dal titolo della mostra Codice Italia l’inadeguatezza della presenza italiana. Entrando nel Padiglione questa sensazione si acuisce maggiormente. Un video pubblicitario sull’arte della tradizione rinascimentale e sulle bellezze del paesaggio italiano sparato in maniera triste ed inadeguata sulle pareti e sulle assi appositamente costruite sembra indicare una sorta di continuità fra la tradizione e il nuovo rimarcando l’indiscutibile legame che accomuna l’arte italiana più recente con la tradizione e la memoria. Più che un richiamo a una sorta di contiguità con la storia sembra qui di trovarsi in una presentazione pubblicitaria televisiva tra le peggiori. Se andiamo oltre, questa sensazione non si spegne. Non mi sembra il caso di elencare tutte le presenze che secondo Trione rappresentano questo patto con l’antico. Si tratta di una storia tutta italiana con particolare attenzione verso l’area campana e mediterranea, qui ben rappresentata da Nino Longobardi e Mimmo Paladino e poi dal più giovane Antonio Biasiucci. È proprio un codice tutto italiano e cioè in sostanza quello dell’attenzione verso chi è più vicino, delle convenienze, degli equivoci, del vogliamoci tutti bene. Gli spazi angusti raccolgono la presenza di artisti angusti. Qualche gesto dirompente come l’ancora conficcata sulla parete di Claudio Parmiggiani che vorrebbe richiamarsi ai naufragi attuali, alla grande pittura di Caspar David Friedrich, ma è solo un’evocazione letteraria lontana e improbabile che ancora una volta mostra l’importanza della suggestione di molta arte contemporanea. L’installazione di Marzia Migliora è una specie di Wunderkammer, che recupera con consapevolezza l’idea del meraviglioso riuscendo a fare i conti con il passato, ma anche con il presente. Il rimando a uno specchio con effetto straniante incuriosisce lo spettatore e l’esperienza personale dell’artista diventa un vissuto condiviso grazie a un gioco di rimandi e di riflessi. L’installazione di Vanessa Beecroft presenta una scena che può essere vista solo a distanza attraverso una fessura sul muro come una soglia. Da una parte frammenti di un giardino, ruderi archeologici, memorie, oppure macerie; dall’altra lo spettatore che può solo sbirciare in solitudine. È ovvio il richiamo a Étant donnés, l’ultima opera di Duchamp. Nonostante i riverberi storici e i debiti di riconoscimento comunque la presenza delle due artiste è notevole e riscatta l’intero Padiglione Italia. Dobbiamo ricorrere a Kounellis, veterano di Biennali, per comprendere l’importanza della storia. La sua installazione sembra un invito a cogliere il senso di una sosta ma anche di una dipartita. È interessante la sua sedia disposta a lato dell’istallazione con sopra deposto un cappotto legato da corde di acciaio e che forse avvolge proprio la storia. La presenza di Umberto Eco in un film di Davide Ferrario vorrebbe riempire d’impegno intellettuale l’intero padiglione, ma alla fine assistiamo a un monologo, a una fotografia/biografica del più noto fra gli intellettuali e scrittori italiani. Sembra di essere in una sorta di reliquario, di ossario. È proprio questo il codice Italia?
Usciamo. Una nave della Marina Italiana mi appare; è probabile si tratti di una corvetta. Essa è ancorata proprio davanti gli spazi dell’arsenale. Antiche memorie marinaresche mi sovvengono. Le sue linee, essenziali, il suo colore delicato si stagliano dal fondo. È bella, appare distesa come una fanciulla addormentata. Deve essere là per una sosta, o per ristorarsi. Il senso di solitudine che prima mi attraversava scompare e rende giustizia, senza clamore, della bellezza che questa nostra Italia sa esprimere. Me ne vado quasi appagato con stupore e orgoglio.
Alla fine sorseggiamo il veleno con cura sapendo che abbiamo appunto a che fare con la storia. Per dirlo rapidamente, ciò che mi ha affascinato in questa Biennale è la presenza della scrittura, della parola, del testo, dell’immagine che come un formicolio scorre dai Giardini fino all’Arsenale, e anche l’ambiguità e la problematicità a cui l’intera Biennale rimanda. Pur nella volontà dichiarata da Enwezor di mostrare lo sconvolgimento del nostro tempo, di avere a che fare con le macerie e i ricordi che l’Angelo della Storia vede davanti a sé e dai quali è sospinto dalla bufera verso il futuro, infine sono gli occhi umani a non potere fare a meno del presente palesando la normalità del divenire storico. Il che vuol dire ancora un porsi della storia umana come riscrittura del tempo e attualizzazione insieme. Seguendo il filo di Jacques Derrida è nella memoria della storia connessa al mito della scrittura come Pharmacon, a ciò che il dio egizio Theut offre al re che dunque dovremmo osare domandare se abbiamo a che fare con un farmaco o un veleno? Occorre rimanere in questa traiettoria per capire la relazione fra presente e passato, ma questa relazione tra ciò che è stato e ciò che è, fra le macerie della storia, l’occhio umano e il futuro non è un processo ma un’immagine, a salti. Solo le immagini dialettiche, scrive Benjamin, sono immagini autentiche e non arcaiche; e il luogo in cui le si incontra è il linguaggio. Forse è in questa direzione che dovremmo intendere l’epico bagno di oralità diffuso in quasi tutti i padiglioni di questa sorprendente Biennale.
Scrivi un commento