E allora, cosa resta? Una civiltà prossima al disfacimento, un senso del nichilismo totalitario, una perdita di coscienza ecumenica, lo spostamento dei flussi di massa

di Antonio Picariello

Dicono che i morti non parlino. Accade invece: dalla libreria vien giù un testo attratto senza nessuna ragione comprensibile dalla gravità e te lo ritrovi davanti come un richiamo magico a raccoglierlo con devozione e fermarti qualche istante a riflettere. Oltre il richiamo magnetico, questa volta la gravità ha avuto la capacità di infilare le mani negli scaffali, estrarre il testo e lasciarlo libero nel vuoto. Eureka.

Come in un romanzo di Paulo Coelho te ne fai una ragione senza ragione. L’alchimista sa ascoltare il suo cuore sapendo che conosce tutte le cose; pertanto nessuna meraviglia assale lo spirito del “riflettente” quando si accorge che “L’età neobarocca” dell’amico scomparso Omar Calabrese, è venuto a trovarlo. Con quanto anticipo profetico l’amico semiologo aveva previsto il futuro mentale e ambientale del nostro tempo attuale? Ne parleremo fra poco. E poi, sono convinto, il compito dell’intellettuale contemporaneo sia semplicemente saper ascoltare l’onestà del proprio cuore e saper tradurre in qualità discorsiva questa capacità di ascolto (e anche qui, “Manuale del guerriero della luce” del 1997 può supportare l’accadimento, considerando anche il 1987 anno di nascita de “L’età neobarocca”).

D’altra parte sostengo da sempre che da questo semplice compito possano sbocciare le Rivoluzioni o nel migliore dei casi, quando l’accoglienza all’ascolto cade in un ambiente amichevolmente, possano sorgere le belle riforme lasciando vivido il continuum alla ricerca della felicità di cui ogni civiltà gode il diritto teologico e amministrativo di perseguire. Nient’altro che questo. Poi, mi preme dirlo senza passatismo involontario, in qualche modo, la qualità e l’onestà intellettuale di Omar Calabrese, per istinto, mi ricorda l’onestà e la qualità di Antonio Gasbarrini (non a caso mi ha fatto conoscere il “Manuale del guerriero della luce”). Punto.

Ora, l’attacco iniziale del testo credo sia tra le migliori presentazioni abbia mai letto; vorrei riportarlo in parte per introdurre l’argomento del titolo che altrimenti non saprei come organizzare efficacemente per rendermi partecipe o semplicemente provarne il tentativo di essere invitato alla tavola degli onesti: «Circola gente strana, oggi, nel mondo della cultura. Gente che non pensa di compiere delitti di lesa maestà nel domandarsi se per caso ci sia qualche relazione fra la più recente scoperta scientifica concernente la fibrillazione cardiaca (profezia nominale alla causa della propria morte) e un telefilm americano. Gente che immagina l’esistenza di curiosi rapporti fra un sofisticato romanzo d’avanguardia e un volgare fumetto per ragazzi. Gente che intravede incroci tra una avveniristica ipotesi matematica e i personaggi di un film popolare. Con questo libro, io chiedo ufficialmente di essere ammesso nel loro gruppo. L’operazione che tenterò è infatti dello stesso tenore. Ovvero: cercare le tracce dell’esistenza di un “gusto” del nostro tempo negli oggetti più disparati, dalla scienza alle comunicazioni di massa, dalla letteratura alla filosofia, dall’arte ai comportamenti quotidiani. Mi sembra già di sentire l’obiezione: “ci siamo, ecco uno che non distingue fra Dante e Paperino, che vuole vedere connessioni dove nulla prova che ci siano”».[…]. Segue chiaramente la previsione attraverso le banalità della storia riformattata a vita quotidiana nel contesto delle epoche che riporta, ci riporta, elegantemente a vedere nel nostro cuore affranto per non aver dato ascolto alla visione consigliata a suo tempo dagli onesti intellettuali.

La nostra disfatta può farsi risalire al 1968 allorché gli architetti statunitensi Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour, partirono con un gruppo di studenti della Yale University, per studiare Las Vegas (nel deserto del Nevada) con l’obiettivo di recuperare il valore simbolico dell’architettura e dell’urbanistica espresso in tutta la sua potenza dalla città dell’illusione imperniata sull’opulenza e il consumo. I casinò, i cartelloni pubblicitari, i fast food e le geometrie create dal traffico delle auto confermavano la modernità con la micidiale volontà di sostituire gli elementi delle antiche piazze dell’impero romano e la semantica esoterica delle cattedrali francesi, con il significante foto-avvilente dei neon. Il primo passo per istruire lo svilimento del senso identitario e dello spirito situazionista delle città.

«Noi suggerivamo che gli architetti potessero apprendere da questa città una lezione sulla capacità comunicativa dell’architettura e sull’uso della fantasia e della luce per creare strutture piacevoli che attirassero persone» (Learning from Las Vegas venne pubblicato nel 1972). Divenne un classico della teoria dell’architettura.

Portfolio di Antonio Picariello

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Che peccato pensare a L’Aquila distrutta mentre “L’Età neobarocca” mi scorre tra le mani. Il simbolismo scomparso di una città magnifica che mai più si potrà recuperare con la semiotica dei gesti tradizionali tramandati da un’intera comunità, di generazione in generazione. Che peccato pensare con nostalgica passione all’onestà visiva di un Roland Barthes che riformula la semantica dell’Oriente cogliendo la sottigliezza della magia iscritta nel sotteso ordito subliminale de “L’impero dei segni”. Il luogo dei segni non è cercato nella dorata cornice degli aspetti istituzionali, ma nella città, nel negozio, nel teatro, nella cortesia, nei giardini, nella violenza. Ci si occupa di alcuni gesti, di alcuni cibi, di alcune poesie; ma soprattutto di volti, di occhi e di pennelli con cui si può scrivere, ma non dipingere, il tutto.

E poi, la preoccupazione di una perdita di senso, lo stesso senso ambientale messo in atto dall’onestà di Luigi Cosenza con la visione di un luogo di lavoro dove la vita e l’arte concentrano il passaggio dell’esistenza a favore di una qualità civile della cultura. La stessa aria sciamanica che si respira nelle città e nei personaggi che hanno vissuto lungo il flusso del “Danubio”, raccontati con il fascino e l’onestà intellettuale dalla saggezza mitteleuropea di Claudio Magris.

È la stessa magia dei luoghi mentali che Ernesto De Martino trova nella consapevolezza di un insieme di regole che fondano un ordine che vale nella misura del consenso che riscuote. Per cui dove c’è consenso nelle regole della ragione, la ragione funziona; dove c’è consenso nelle regole della magia, funziona la magia perché l’efficacia di entrambe non è nel loro contenuto (della ragione o della magia), ma nel consenso che una comunità storica e determinata affida ad esse. Una pratica magica è leggibile solo se è storicizzata, se è inserita in quella civiltà, in quell’epoca e in quell’ambiente storico dove la comunità condivide quella mitologia o quella religione, perché è nella condivisione comunitaria di un certo ordine metastorico che la pratica magica che ad esso fa riferimento, diventa leggibile e efficace.

E allora, cosa resta? Una civiltà prossima al disfacimento, un senso del nichilismo totalitario, una perdita di coscienza ecumenica, lo spostamento dei flussi di massa, il ricordo di un passato prossimo che si affidava alla divina provvidenza galoppando sulle visioni psichedeliche / sciamaniche dei Pink Floyd, delatori di un’arte rupestre nascosta nelle grotte francesi di Lascaux o in quelle spagnole di Altamira.

Fatto sta che l’emblema scelto per annunciarsi al mondo riguarda la città italiana di Pompei, la città dei morti che tornano a parlare ai vivi con i loro gesti statuari, le loro azioni finali imbalsamate eternamente nell’immagine di una magia quotidiana vietata dalle regole dell’onestà storica alla conservazione futura di città illusorie come Las Vegas: la magia scomparsa nell’abbandono delle identità che ci hanno costruito e che non abbiamo avuto il coraggio di difendere perché presi dal peccato dell’opulenza sconfinata. In tutto questo ci si preoccupa per le nuove generazioni che vivono di rimpianti e di labirinti edificati dai padri per imprigionarle nella disperazione, ma poi, casca dalla libreria insieme al testo un vecchio compito in classe di una studentessa con il titolo “Shoah”. Ha preso un bel dieci. Quel compito mi ha ridato il senso della vita. Tutto non è altro che Carnefici, Indifferenti e uomini Giusti. Basta scegliere.

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Omar Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, 1987 / Paulo Coelho, L’Alchimista, Bompiani, 1995 / Paulo Coelho, Manuale del guerriero della luce, Bompiani, 1997 / Venturi Robert, Scott Brown Denise, Izenour Steven – Imparare da Las Vegas. Il simbolismo dimenticato della forma architettonica, QUODLIBET, 2010 / Giancarlo Cosenza, La coerenza di un intellettuale, Con scritti di Luigi Cosenza, Dante & Descartes, 2011 / Ernesto De Martino, Sud e Magia, Feltrinelli, 2001 / Roland Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, 2002 / Claudio Magris, “Danubio”, Garzanti, 1997/ Giulio Guidorizzi, Ai confini dell’anima. I greci e la follia, Cortina Raffaello, 2010 / Graham Hancock, “Sciamani. I maestri dell’umanità”, Corbaccio, 2006.

Shoah [Trascrizione dello svolgimento, in classe, di un tema]

Shoah, in ebraico, “tempesta devastante”. Pagina vera della storia dell’uomo che ha visto protagonisti tre tipologie di soggetti: vittime, carnefici e spettatori.

Chi sono questi? Che ruolo hanno giocato nello sviluppo di questa brutalità?

Non è facile giudicare, ma di fronte a fenomeni così dissennati e moralmente “inetici”, è inevitabile il dovere di assumersi delle responsabilità. Carnefici: coloro che hanno collaborato attivamente o indirettamente al raggiungimento dell’obiettivo predisposto da Hitler nella “soluzione finale”.

Il Führer, Heinrich Himmler, Mengele, Franz Stangl, le “SS” (Schutzstaffeln, le innominabili squadre di protezione), e soprattutto “quelli” che sapevano, perché avevano conoscenza diretta o indiretta del bestiale fenomeno, ma che hanno continuato a eseguire i loro compiti con l’indifferenza del male. Del resto ci si potrebbe chiedere che capacità di ribellione poteva avere il conducente dei treni carichi di deportati verso lo sterminio, o quale sia la categoria in cui inserire il semplice soldato comandato al rastrellamento degli “esseri impuri” considerati tali dalla “razza ariana”?. Ecco allora che il potere devoto ai simboli del male, fatale e capace di creare le sue vittime. Vittime: coloro che per assurdo destino sono stati precipitati nel peggiore degli inferni per la sola colpa di essere nati. Sì esatto! Essere nati da una discendenza ebrea, “l’impudico cancro che disonora il mondo, il Reich e lo infetta con la sola esistenza in vita”. Parole e pensieri atroci. Impensabili da pronunciare con la coscienza della storia. Ma se si riflette bene, forse qualche collegamento con l’attualità lo si trova. I pregiudizi verso gli altri sono il primo passo per l’esclusione e il disprezzo. La buona volontà ci dice che non dovremmo creare barriere che non dovremmo “essere ciechi” per comprendere la storia e la condizione del prossimo. Ma proprio questo pregiudizio è stato uno dei tanti motivi documentati nel “Mein Kampf” (La mia battaglia) il libro pubblicato nel 1925 con il quale Adolf Hitler espose il suo pensiero politico e delineò il programma del partito. Seguirono le leggi razziali del 1933 che indussero i nazisti allo sterminio degli Ebrei, e al massacro silenzioso dei Rom, degli omosessuali, degli oppositori politici e di tutto ciò che intralciava il diabolico disegno della razza ariana alla “governanza” dei soli esseri puri del mondo.

E sono appunto queste vittime che ai nostri occhi appaiono costruite da un sistema irragionevole, mentre risultavano vittime naturali agli occhi dei carnefici, che danno valore e propulsione alla nostra coscienza storica. Noi esseri contemporanei che abbiamo adesso la possibilità di distinguere il bene dal male grazie a queste vittime sacrificali, possiamo e abbiamo il compito di ringraziarle con onore. Vediamo perché. Nel 1935 le leggi di Norimberga legittimano l’esclusione sociale degli ebrei. Non si era più “degni” di frequentare una scuola con altri ragazzi concittadini, i cartelli ai negozi con il divieto di accesso per gli ebrei venivano esposti ben visibili. Nessun ebreo avrebbe potuto più esercitare la propria professione. Si può immaginare lo stato di decadimento psicologico e morale provato da chi all’improvviso si sia ritrovato tradito e pugnalato alle spalle dal proprio Paese che lo condannava per la sola diversità genetica condivisa dalla “ giusta pena” elaborata dai carnefici. Su questi principi, nel 1942 Hitler ordina di attivare la “soluzione finale”.

Nell’arco di tre anni sei milioni di ebrei vengono eliminati. Spariscono da questo mondo brutale. Molti diventano cenere come in una famosa canzone di Guccini.

Lo spirito antico della stirpe è calpestato e non solo idealmente.

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Il 1942 e il 1943 sono gli anni delle grandi deportazioni. Uomini, donne, bambini, anziani, senza distinzioni, vengono caricati (per usare il gergo nazista) su vagoni bestiame e trasportati per giorni verso un luogo a loro sconosciuto. “Erano tutti ammassati, meglio stipati come merce da macello in spazi quasi bui se non per la luce proveniente da una misera finestrella che serviva anche da imbocco per il passaggio dell’aria. Immaginiamo gli odori, le condizioni dei vecchi e lo stato dei genitori con i loro figli piccoli che chiedevano aiuto. I crampi della fame e della sete persistenti. E poi, quando aprivano la porta di quel vagone al termine del lungo viaggio, ad accoglierli c’erano uomini in uniforme che con forza brutale li scaricavano buttandoli in una terra sconosciuta. Le gambe non reggevano, troppo tempo erano state nella stessa posizione, e si cadeva. Bastonate. Efficienza richiedevano quei signori. Smarrimento, alienazione e spaesamento totale. Non si poteva capire dove si fosse; nessun riferimento, nessun riscontro con la propria esperienza di vita e forse non c’erano neanche le forze e la determinazione per continuare a resistere. Prima selezione: camion o cammino. Il primo unica destinazione mortale, il secondo quasi come un barlume di salvezza. Salvezza…impossibile in quegli anni nel campo di concentramento. Un giorno, due, tre, massimo due mesi e poi si lasciava corpo; questo sì, i corpi delle vittime, il vero problema da risolvere da parte dei carnefici per lo smaltimento. Nel frattempo la vita non era più una vita, non si era più individuo, non si aveva più una identità. Tutto era stato sostituito da un numero impresso a marchio nella carne. La baracca aveva sostituito la propria casa, il campo di concentramento aveva inghiottito la propria famiglia, gli amici, la vita. La vita veniva sfruttata anche da importanti fabbriche addette alla produzione di armi belliche. Bisognava stare attenti, essere cauti e tenaci e non mostrare debolezze che avrebbero stimolato gli osservatori carnefici a eliminare i malati e i sofferenti. I fortunati lavoravano al chiuso e nelle stagioni fredde avevano maggiore occasione di sopravvivere. E poi, forse non esistevano neanche situazioni climatiche che potessero migliorare l’esistenza di questi esseri “senza vita”. Non esisteva nessuna sensazione di quiete. Mai. Le vittime erano diventate bestie da macello che prima o poi sarebbero state eliminate, solo che tutto il processo marciava alla condizione di sofferenza continua e atroce. L’unica permissività concessa era il lavoro esasperante, inumano. Lavorare e lavorare senza tregua. “Il lavoro rende liberi” era scritto sul cancello di entrata del campo. Utopia e illusione che i carnefici volevano istallare nelle menti di coloro che ogni giorno, marciando, entravano in uno dei tre campi principali che formavano il complesso concentrazionario situato nelle vicinanze di Auschwitz, in Polonia. Ma di fronte ai carnefici la vita di quegli esseri non aveva nessun valore; erano esseri insignificanti destinati ad essere cancellati.

Terza categoria, la più ambigua, quella degli spettatori. Chi sono? Sono uomini e donne che pur sapendo non hanno preso posizione. Sono rimasti indifferenti davanti ad un fatto che poteva coinvolgerli. Non toccava a loro. Non erano loro che dovevano intervenire. Ma allora questi cosa sono? Carnefici? Vittime? Di certo seguivano il senso di qualunquismo comune. Ma perché, ci si chiede, le altre nazioni inizialmente hanno accettato questa condizione e sono rimaste indifferenti e impassibili. Avrebbero potuto dire: “noi non lo accettiamo” e non essere conniventi al diabolico comportamento nazista, e avrebbero potuto da subito, dalla prima pubblicazione del Mein Kampf o dai primi sintomi espressi dalle leggi razziali, distinguersi dall’indifferenza dei “senza coscienza”, e avrebbero da subito potuto impegnarsi affinché il micidiale disegno non si avviasse. Ma nessuno si è mosso.

Ed infine, vorrei parlare di un’ultima categoria contrapposta agli spettatori: i giusti. Coloro che hanno avuto il coraggio di non rimanere indifferenti, di non essere spettatori di questo spettacolo che si stava mostrando. Coloro che seguendo la loro giustizia interiore, non composta da leggi scritte, sono stati esposti a perdere la propria vita per salvare quella degli altri. Questi esseri del bene sono adesso riconosciuti nel loro angelico valore da tutte le nazioni del mondo, sono l’esempio migliore dell’umanità che crea vita degna e che lavora per il nostro cosciente avvenire. George Santayana diceva: “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo” che tradurrei con una frase più diretta: colui che non ricorda la storia è destinato a riviverla. Un enunciato sostanziale che contiene il senso originario di tutte le nostre responsabilità di gestori del mondo. Il nostro compito è costruire ponti temporali per riportare al prossimo futuro ciò che abbiamo compreso dal passato. Solo così si crea memoria della coscienza capace di estendersi nella consapevolezza dell’umanità. Consapevolezza della storia che nel racconto generazionale può essere percepita con una sensazione di lontananza, di non appartenenza, di non coinvolgimento, ma è nella libera e coraggiosa capacità di saper assumere la propria coscienza la divina pulsione partecipativa. In questo minuscolo enunciato della coscienza c’è tutto ciò che rende agli uomini il diritto di civiltà, tutto ciò “che muove il sole e le altre stelle”. C’è la vita dell’umanità che vive.