Le recondite armonie inseguite prima e delicatamente prese sotto braccio, poi, dall’artista aquilano con gli innesti materici di carte, stoffe d’epoca o frammenti di macerie sismiche, non sono minimamente arrossite di fronte alle ritmate partiture jazzistiche dei conclamati artisti americani

di Antonio Gasbarrini

Spesso è il congedo terreno di ognuno di noi, a far accendere i riflettori sul vissuto. Prima di tutto in ambito familiare. Quindi sociale, se si è stati coinvolti in una qualche attività di rilevanza pubblica. In modo particolare, per gli artisti, la cui creatività confluita nelle opere, è continuamente esposta, nuda e cruda, al giudizio del pubblico. Non sempre lo stesso è allineato poi all’effettivo “valore estetico”, certificato dalle quotazioni di mercato, troppo spesso pilotate o, com’è accaduto nell’ultimo decennio, “drogate”, nonostante l’inconsistenza poetico-linguistica di un’asfittica pseudo-arte (un paio di nomi: Jeff Koons e Damien Hirst).

Comunque spettacolarizzata (Guy Debord ha insegnato sulle degenerazioni in merito) per influenzare un acritico immaginario collettivo e sostenere così l’appetito di avidi collezionisti.

Tutt’altro ragionamento è da farsi per quegli artisti noncuranti del successo personale, calamitati come sono da un disegnare, dipingere, scolpire, installare site-spoecific (come va di moda nei tempi più recenti), atti finalizzati a conferir una qualche oggettiva dignità a lavori interfacciati, sempre, ad una iper esigente, selettiva Storia dell’Arte. Non solo da rivisitare, ma possibilmente da trasgredire con innovazioni avanguardiste. I cui principali protagonisti, riconosciuti in vita o riscoperti post mortem – a volte a distanza di secoli – hanno spesso operato in un ambito territoriale circoscritto, anche se con saltuarie o fitte proiezioni extra moenia. A quest’ultima categoria può in buona parte essere ascritto il nome di Marcello Mariani, la cui fortuna critico-storiografica a livello nazionale e internazionale è letteralmente esplosa sul finire della propria esistenza (“Ci lascia la sera del 23 luglio 2017” recita l’ultima riga della sua intensa biografia) grazie alle mostre antologiche curate nella capitale, nel giro di una decina d’anni, dal critico Gabriele Simongini (a Palazzo Venezia: “Marcello Mariani – La via pittorica al Sacro 1957-2007”; al Complesso del Vittoriano: “Marcello Mariani – Il tempo dell’Angelo 1956-2014”). Da aggiungere, sempre con la cura del Simongini, due altre iniziative dedicate alla poetica marianea, questa volta legata direttamente al sisma aquilano del 2009. E cioè la toccante mostra collettiva “archè “ (Bendini, Boille, Mariani, Turcato) allestita nel 2010 tra le macerie della sventrata Basilica duecentesca di S. Maria di Collemaggio, e, la personale “Forme dal terremoto”, nel 2018, all’Accademia di Belle Arti di Roma.

Si deve peraltro al compianto Enrico Crispolti, aver saputo subito individuare – tra i tanti bei nomi della critica d’arte che hanno scritto o curato mostre sul Nostro quali Vito Apuleo, Claudio Strinati, Giorgio Di Genova, Silvia Pegoraro, Leo Strozzieri – nell’incipit del suo testo in catalogo scritto in occasione della sua personale da me curata, tenuta nel 1988 a L’Aquila, nello spazio culturale dell’Angelus Novus nell’ambito del ciclo “Lo specchio di Mnemosine”, il cordone ombelicale esistente tra la ricerca marianea e l’habitat memoriale- paesaggistico della sua città medioevale: «È evidente che la dimensione della memoria sia la chiave di una pittura come quella di Marcello Mariani, da moltissimi anni intento a lavorare su una concrezione di sedimentazioni e segni analoga al muro, già mitizzato quale palinsesto memoriale fin dai primi anni informali. Il muro di Mariani non è informale, ma nasce dalla sua lontana esperienza pittorica informale, attraverso rapprensioni, sedimentazioni, aggiunzioni, ulteriori ad ogni circostanza di mero esercizio gestuale-segnico-materico. È una pagina sulla quale si aggregano frammenti diversi, brani di pittura, e a volte anche frammenti di antiche carte scritte. Vi si aggregano in un assemblaggistico principio di racconto, del quale, appunto, la dimensione memoriale ne è il connettivo. Frammenti che attraverso la loro diversità di origine e di storia istituiscono un folto dialogo che ordisce appunto il racconto. Ed è un racconto segreto, il suo, una confessione silenziosa, fatta di sottili apprensioni, di intime, sensitive e sensuali soddisfazioni, nell’attuazione all’evento minimo e concomitante. È in fondo il racconto di un vissuto intimo, che si riconosce nelle occasioni molteplici di quei diversi frammenti concorrenti (spesso a collage), la cui coralità d’affluenza costituisce il dipinto, perciò indubbiamente materico, che Mariani compone in un lavoro misurato su tempi lunghi di sedimentazione. Ne viene una vibrazione intensa di lirismo, scabro, spoglio, semplice nella sua intima timidezza, assolutamente autentico, perché non sollecitato da altro che dal raggiungimento della propria più profonda identità. In questo modo Mariani si inserisce, da una sua autentica e direi persino autoctona origine (chiuso com’è non solo nelle pareti del suo studio, ma fra i monti della sua L’Aquila), nel vivo di una situazione di restituiti valori lirici rintracciati entro segni e trame materiche, che avvince, oggi, esponenti di una nuova generazione, particolarmente nell’ambito romano».

Già in questo testo, come in molti altri, viene affermata inoltre una connessione diretta tra il suo “ritiro” nel claustrale “Studio Mariani” aperto nel capoluogo abruzzese in una ex chiesa sconsacrata ed immortalato, tra gli altri, da Gianni Berengo Gardin e Johnny Ricci, la realizzazione di quelle tele e teleri dove la dimensione spirituale del sacro in pittura, ha trovato una perfetta assonanza con un ambiente carico di lacerti e, perché no, di voci officianti e di fedeli oranti.

Slides (Portfolio di Johnny Ricci)

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Da parte mia rilevavo, in proposito, in uno dei miei scritti (titolato Poetici “a freschi” della memoria) stesi per la presentazione di varie sue mostre personali all’Angelus Novus o di gruppo: « La pittura a fresco non consente errori, pena l’autodistruzione dell’opera. Lo ha sperimentato sulla propria pelle un artista-scienziato come Leonardo da Vinci, il quale nell’usare una nuova miscela di gesso per l’Ultima Cena, ne causa la prematura disgregazione. Non sappiamo quanto tempo reggeranno i Poetici “a freschi” della memoria di Marcello Mariani allestiti nello spazio culturale di Angelus Novus. Né ci interessa più di tanto la tecnica con cui questo instancabile bricoleur del segno, della materia e della forma, recupera i frammenti di fogli antifonari, di scritte con la penna d’oca, di legni secolari, di stoffe mangiate dalla polvere, di lamiere arrugginite, di sottili cartoni e plastiche trasparenti. Prelevati chissà dove, alla stregua di un rigattiere dada come Kurt Schwitters che negli anni Venti costruisce nella casa-studio la sua dilagante ed onnivora scultura-ambiente Colonna fino a riempire stanze e sfondare soffitti. Reperti nobili o anonimi accumulati ora da Marcello Mariani nella ‘bottega’ della fatiscente architettura di una chiesa sconsacrata: qui le macchie, le muffe, le sbrecciate cornici barocche, sono la quinta surreale di tempere accatastate alla rinfusa, di quadri poggiati alla meno peggio, di scultopitture realizzate con ante di porte dismesse o di telai di finestre tarlate. Se il caos è lo stato di vita ordinaria dell’universo, l’ipercaos regnante in questo microcosmo dove colate di colore sembrano sgorgare direttamente dall’aria, chiama direttamente in causa le fragili ragioni dell’arte e della poesia».

Inoltre, proprio le memorabili edizioni delle crispoltiane Alternative Attuali degli anni Sessanta al Castello Cinquecentesco dell’Aquila, gli avevano consentito di familiarizzare con la ricerca internazionale più avanzata del tempo, Pop Art compresa. Infatti qui e per la prima volta in Italia, nel 1963 – nell’ambito di “Aspetti dell’Arte Contemporanea” – veniva allestita la sezione “Tredici pittori americani d’oggi” (tra i quali Warhol, Rosenquist, Lichstein e soprattutto, per le sue assonanze con la poetica marianea, un Rauschenberg con la sua aggettante tela Force del 1959).

Una decisiva svolta concettuale-ideologica avverrà comunque una diecina d’anni dopo a Pescara con la conoscenza di Joseph Beuys e della sua “Terza via”, la cui influenza sarà ravvisabile in molti suoi lavori, come rileva in un testo in catalogo steso per la mostra a Palazzo Venezia nel 2008, lo storico Claudio Strinati: «Mariani ama ricordare come l’incontro con Beuys gli abbia indicato una terza via tra il capitalismo e il comunismo. Una via che, presumibilmente, un artista può compiere meglio di ogni altro perché ce l’ha già nei più remoti presupposti del suo essere. Beuys forse non ha svelato niente a Mariani ma l’ha certamente aiutato a prendere piena coscienza di sé. E questo è importante perché Beyus significa una commistione strana e entro certi limiti inestricabile nell’ambito del rapporto tra Arte e Vita. Nel caso di Mariani questa ambiguità non c’è». A riprova di questa lucida diagnosi, mi preme segnalare la polifonica installazione site-specic “Libero” all’Angelus Novus da me curata nel 1990. Qui i confini tra pittura, scultura, architettura, saltano definitivamente a tutto vantaggio di una concertazione simbolica dove trova “ospitalità” anche la scrittura inglobata ora nelle pareti, sui cubi di supporto e nelle stesse opere in cui le parole “Libero” e “Amicizia” fluiscono senza alcuna soluzione di continuità. Come non riandare alle lavagne ove l’artista tedesco rafforzava le sue tesi esposte oralmente negli incontri tenuti con il pubblico? C’è di più. In quella  stessa mostra, la rilevata  commistione tra Arte e Vita era presente più che mai, quale risposta catartica dell’artista Mariani che, da uomo, era stato da poco toccato da un tragico, tremendo lutto familiare. L’Arte come salvifica via taumaturgica di inenarrabili dolori. Quell’Arte che proprio nel sisma aquilano del 2009 infierirà anche sullo “Studio Mariani” e sullo spazio culturale dell’ “Angelus Novus”, entrambi situati sulla stessa via del centro storico ad una distanza di una trentina di passi.

Slides

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A questo punto della nostra sintetica analisi dell’arte marianea, ove le dimensione ultraterrene del Sacro e della Spiritualità sono perfettamente fuse da una sciamanica sensibilità, non può farsi a meno di ricordare la sua convivenza, per alcuni mesi, tra gli aborigeni australiani. Qui assimilerà , trasfondendole nelle sue opere, proprio le loro taumaturgiche possessioni sciamaniche innervate dalle invisibili onde energetiche animistiche. Energie concentrate, nel Nostro, in quel principio cosmogonico dell’ “archè”, già trasfuso nella stessa titolazione di “Forme archetipe” in alcuni suoi lavori antecedenti all’esperienza aborigena. “Forme archetipe” che troveranno nelle versioni dei suoi tanti Angeli” – tratti nei lavori giovanili direttamente da suggestioni liciniane – il momento più significativo di ravvicinati incontri. Scrive Gabriele Simongini: «Mariani ne attende l’arrivo e per il messaggero celeste mette insieme, quadro dopo quadro, dei sudari di luce, depositi luminescenti di tracce umane di volta in volta gioiose o dolenti. Si pensi in proposito ad opere come “Forma archetipa (Angelo di Luce)” e “Forma archetipa. (Angelo d’ombre)”, entrambi del 2006). […] Non a caso l’artista aquilano cerca il silenzio e lo spazio di una rinnovata contemplazione in senso etimologico, magico-sacrale».

Il recente, sincronico confronto al complesso del Vittoriano tra la ricerca di Marcello Mariani e quella degli artisti appartenenti alla cosiddetta “Scuola di New York”, mi ha consentito di effettuare alcune riflessioni riportate poi in due miei articoli apparsi su Il Messaggero d’Abruzzo. Eccone uno stralcio: «(…) E, se in Mariani è la componente sacrale-memoriale di un pigmento materico emulante, il più delle volte, lo stratificato aspetto cromatico dei secolari muri medioevali della sua città da cui ha tratto “carne, sangue e anima”, negli artisti americani è stata, invece, l’urgenza esistenziale di un liberatorio grido represso, a sfociare nell’ “hic et nunc”, nel qui e ora (sulla tela o altro supporto, cioè). Le grandi dimensioni delle opere, così congeniali sia al Nostro che agli artisti d’oltre Oceano, hanno consentito di percepire al meglio poetiche apparentemente contigue per quanto concerne il linguaggio (un mix di astrazione, informale e neo-espressionismo), ma sostanzialmente lontanissime nei loro esiti spazio-temporali. Mentre in Mariani quello spazio-tempo è pressoché riavvolto nel suo passato più ancestrale anche quand’è occupato dall’immanente presenza di qualche angelo, negli artisti newyorchesi sopra e sotto i sommovimenti di un irrequieto pigmento che ha voglia di debordare, andare oltre i limiti fisici della tela, s’avverte la presenza d’una invisibile voragine che, come un buco nero, ingoia tutta l’energia gestuale scaraventata nei suoi dintorni: come avviene nei quadri di de Kooning e Kline, e, in modo molto più attenuato in Rothko. Le recondite armonie inseguite prima e delicatamente prese sotto braccio, poi, dall’artista aquilano con gli innesti materici di carte, stoffe d’epoca o frammenti di macerie sismiche, non sono minimamente arrossite di fronte alle ritmate partiture jazzistiche dei conclamati artisti americani, entrati di diritto nelle pagine più pregnanti della storia dell’arte della seconda metà del Novecento. Aggiungerne un’altra con il nome dell’artista Marcello Mariani,  dopo questa esaltante ed illuminante esperienza espositiva, è, secondo noi, un atto dovuto: anche per la storia dell’arte italiana ed europea».