Fotogrammi pittorici d’un unico film girato da una stordita Mnemosine approdata nella laguna veneziana

di Antonio Gasbarrini

Il titolo di questa mostra personale dell’artista iraniano Rezakhan a Venezia, ne riecheggia un altro pressoché identico: Universo in costruzione. Utilizzato nel 1991 nel testo di presentazione di una delle sue prime uscite espositive nell’aquilana Officina di Claudio Del Romano.

Qui Rezakhan ha collaborato, come grafico, con uno dei più insigni figli dell’arte tipografica italiana (Claudio Del Romano, appunto, scomparso quasi novantenne alcuni giorni fa).
Tra  quel “remoto”, remotissimo 1991 in cui aleggiava tutta la poetica aniconica di matrice islamica del giovane artista trapiantato nella città federiciana, e quei terribili, sobbalzanti secondi delle 3.32 del 6 aprile 2009, c’è un incolmabile iato: della memoria, innanzitutto. “Di e in” una città distrutta dal sisma prima ed assassinata una seconda volta poi, dalle repellenti campagne propagandistiche mediatiche dell’innominabile sig. b. e dalla concomitante inettitudine delle istituzioni (degne solo d’una minuscolissima i).

Dopo ben quattro giri della terra intorno al sole, il centro storico de “L’Aquila magnifica citade” (così la designava a metà del Trecento il cantore epico Buccio di Ranallo nella sua Cronica) somiglia sempre più a Pompei, con le sue desolanti rovine impalate, con le sue zone rosse (di vergogna), con i militari che ancora presidiano questo o quel varco interdetto, con i 14.000 diasporizzati cittadini aquilani tuttora rinchiusi entropicamente nei 19 agglomerati (cosiddette new town) senza più un’accettabile identità civica.

Rezakhan, il critico Antonio Gasbarrini, la poeta Anna Maria Giancarli, hanno sperimentato sulla propria pelle tutte le atrocità compresenti in un’inenarrabile e irrappresentabile tragedia. In gran parte accettabile allorché le forze ctonie della Natura scaricano casualmente e caoticamente  tutta la loro energia catastrofica repressa.

Cercando ora in questa personale – con la muta, eppur euritmica teoria delle opere esposte partorite sotto l’egida dei “22 secondi” (durata della devastatrice scossa sismica, peraltro declinati dai sismologhi anche in 26 o, ancora, in 38 sessantesimi d’un interminabile minuto) – e, con le due testimonianze in catalogo, di sublimarla.

Ventidue fotogrammi (più 2) d’un unico film dell’Universo in/ricostruzione girato da una stordita Mnemosine. Fotogrammi percepibili sia singolarmente, sia in sequenze liberamente frammischiabili dal fruitore. Una serie di “costanti poetiche” rimandano dritto dritto alle lezioni di alcuni dei principali Maestri dell’avanguardia (dal Quadrato nero del ’13 di Malevitch, al «silenzio di 24 minuti, durante il quale lo schermo rimane nero» nel debordiano lungometraggio senza immagini Hurlements en faveur de Sade del 1952). Né sono da meno i riconoscibili lacerti ideogrammatici delle scritture calligrafiche orientali.

L’impeccabile impaginato “pittografico” di Rezakhan è il felice risultato di una serie di manipolazioni analogico-digitali che vale la pena di sintetizzare. Le vedute della città morta, degli altri centri minori dei suoi dintorni, dei giovani sorpresi mentre tentano di riavviare un gioco bruscamente interrotto, dei prestigiosi monumenti ora sfigurati e conosciuti in tutto il mondo, di una Natura plastificata nei suoi striminziti alberi, sono state prevalentemente recuperate proprio da una serie di istantanee scattate nell’auratico tempospazio pre-sismico da Claudio Del Romano. Trasmutate poi “pittoricamente” a quattro mani nell’Officina con un computer, quasi a voler ritrovare nel loro dichiarato impressionismo/puntillismo la felice stagione di un’arte simbiotica con la sua modernizzante storia. Dall’output di questa primigenia immagine, Rezakhan passa alla tecnica del collage cartaceo. Geometrizzandola matericamente con un’astrattizzante cornice per lo più nera al fine di esaltarne la prospettiva, anche se spesso è lacerata; sovrapponendole, ancora, irregolari strisce di carta evocanti rossastre lingue di fuoco o nerastre striature di pece. Infine, un ulteriore intervento con lo scanner ed il successivo congelamento dell’immagine con l’output definitivo sul subjectile prescelto..

Ben al di là di questi passaggi neo-alchemici, conta una concentrata resa creativa fuori del comune. Anziché appellarsi ad un complice pathos o ad una nostalgica, dolente rammemorazione, Rezakhan sceglie la via, tutta in salita, dell’interdizione. Inconsciamente assimilata dai mille e mille divieti tuttora presenti nelle varie zone rosse della città fantasma. Oltre le sue occludenti, strappate e strappabili siepi-palafitte non s’intravvede nessun metafisico infinito leopardiano. Piuttosto il lucido pessimismo d’una “ragione errabonda” (Giorgio Colli) imprigionata negli interstizi delle cataste e cataste di macerie fisiche ed esistenziali.

La vistosa croce di S. Andrea impressa da una irreversibile scossa tellurica su uno scorcio architettonico medioevale, fa un po’ da sigillo al leit-motif  dell’intero ciclo. Baricentricamente e metaforicamente visualizzato nei rossastri bagliori di quella Porta Sacra di pretta matrice culturale persiana, così descritta in un appunto dell’artista: «Le fiamme, nella cultura M. O. sono il segno della sacralità, sacralità che deriva dai tempi antichi, allorché il fuoco era sacro. Aperta per solo poche ore l’anno, assume il significato simbolico che ci sono tempi brevi durante i quali possiamo attraversare un passaggio, altrimenti perderemmo un’occasione irripetibile che non è caratterizzata da un tempo infinito a nostra disposizione».

Quest’opera apparentemente fuori testo, rispetto al contesto dei 22 fotogrammi-secondi, insieme all’altra evocante con dollari sonanti tutto il malaffare scatenatosi sulla carcassa della città distrutta già alcuni minuti dopo il terribile sisma (le compiaciute, quanto oscene risate dell’imprenditore romano), è accostabile, non solo visivamente, alla squarciata veduta dell’altra Porta Santa della Basilica di S. Maria di Collemaggio. In entrambe i tempi del passaggio e della redenzione sono più che brevi: quelli dell’Universo in ri/costruzione di una delle più belle città italiane ed europee, smisuratamente lunghi. Non a caso, in quello che può essere considerato diacronicamente l’ultimo fotogramma del ciclo ispirato ai 22 secondi – una sorta di schermo bianco contornato dalla familiare cornice nera, appena ravvivata da quattro piccole lingue di fuoco – il tempo non fluisce più, sospeso com’è su un presente-assente d’una invivibile quotidianità: «il tempo è gioco di fascinosi ribaltamenti / gemma di prefigurazioni nella pagina bianca del futuro / ora / danza il vuoto tempo dell’attesa / ora / urge il tempo della ricomposizione», (Anna Maria Giancarli).

P. S. Circa i “non-titoli” delle opere, la cui riconoscibilità didascalica è stata opportunamente affidata ai sincretici guizzi semantici di Anna Maria Giancarli, va sottolineato che gli stessi si fondano e fondono creativamente in rapporto alle immagini, con il medium di epigrammatici spunti poetici. Se non altro per invogliare a sbirciare, tra gli screziati vuoti esistenziali delle barriere rezakhaniane, ultronee schegge della ferita memoria: […]«ora nella trappola / richiami di cenere / rantoli di materia»; «paesaggi più della terra duri / trafitti da neri artigli»; «uragani di fiamme offendono il tuo corpo / mente evanescente / città della memoria»; «arcobaleni di liquidi richiami / poi / silenzi svaporati di passato» […].

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