La visione antropologica della fotografia sociale è al fondo della fotografia di strada… affronta il dolore, talvolta lo sollecita, si ribella a tutto e va verso nuove, altre, più atroci verità calpestate dall’ordine costituito

di Pino Bertelli

I. La fotografia che non è in difesa delle cause perse non serve a niente… per manifestarsi la fotografia esige la verità e spesso vi soccombe, ma non cessa di disseminare ai quattro venti della terra la sua vitalità e utopia libertaria… la condizio­ne esistenziale della fotografia della flânerie (della fotografia di stradadella fotografia della deriva), non è quella che si fa PER la strada ma che affabula una costruzione delle situazioni NELLA strada, smaschera i luoghi comuni e la stupidità sui quali si sostengono religioni, partiti, economie, culture… è un’invettiva contro l’impostura istituzionale che rende il vero che uccide la vita una scenografia da operetta. Quando suona l’ora dell’ideologia, del neoliberismo, delle guerre d’esportazione, del potere “soffice”, delle religioni monoteiste… tutto concorre al successo delle nazioni ricche (e dei regimi “comunisti”)… perfino i terroristi alimentano il mercato delle armi (della droga, dei diamanti, dell’oro, dell’acqua, del gas) che è nelle mani del capitalismo parassitario… la liquidazione dei popoli impoveriti è in atto… (in occidente) quelli che non muoiono sotto le bombe sono affogati nel Mediterraneo, a quelli che rimangono restano la galera e le fogne delle grandi metropoli… le sole verità che passano alla televisione, nei giornali, nelle radio, nei telefoni “intelligenti”, in molte sacche di internet… sono quelle false, quelle diffuse secondo i fini, sempre gli stessi, che incutono la paura e quindi la necessità della nascita di un ordine duro (è la preghiera del vecchio fascismo, nazismo o stalinismo rivisitati per i nuovi servi). Ci pensa la polizia a mantenere nei ranghi chi chiede il rispetto dei diritti umani, al contempo i ricchi si fanno più ricchi, i poveri diventano più poveri.

Portfolio di Pino Bertelli

II. Della fotografia della flânerie… con queste idee in testa, qualche hanno fa, ho preso una manciata di pellicole scadute (poi passate in uno scanner da tre soldi), una mappa di Berlino (alla maniera dei situazionisti) e insieme a mia moglie e mia figlia siamo andati ad iniziare l’anno nuovo a New York… naturalmente, avevo in testa la mia maestra in TUTTO, Diane Arbus… e pensavo a lei, a lei soltanto mentre fotografavo al Central Park… ero commosso di essere lì… sentivo i suoi passi, il suo fiato, l’odore di mughetto che veniva dai suoi abiti sgualciti… poi l’ho vista sulla faccia di un barbone dalla bellezza fulminante… e mi ha detto: “La fotografia non sta nel distruggere i miti, gli idoli, gli oracoli… sta nel non crearne mai”. Poi ho ricordato che si era uccisa nel 1972, forse per coraggio, forse per poesia, forse perché vi­vere in un mondo disabituato all’amore, alla fraternità, alla condivisione… è difficile quanto trovare un uomo onesto nei governi della terra… nulla è più sospetto dei partiti, delle religioni, dell’alta finanza… sono i nuovi feudatari e governano l’universo col ferro e col fuoco.

III. La fotografia, come la proprietà, è un furto… la fotografia non è uno strumento intelligente che aiuta le persone stupide ad essere meno stupide, anzi è uno strumento stupido che funziona solo nelle mani delle persone intelligenti… cos’è la scrittura fotografica se non la dossologia d’immensi ignoranti e di randagi immortali che hanno fatto la storia della fotografia… gli uni non hanno mai compreso nulla della fotografia che facevano, gli altri vivevano la fotografia al fondo della loro magnifica esistenza.

IV. La fotografia ci invita alla libertà d’interpretazione… ci propone molti piani di lettura e ci pone davanti alle ambi­guità del linguaggio e della vita. La fotografia (sovente) ha fatto dello scemo del villaggio un fotografo celebre che si è fatto portatore di verità (non solo artistiche)… il dolore è constatare che il dramma (di qualsiasi fotografo) non sta nell’essere incompreso, ma nell’essere capito.

V. La fotografia mercantile è l’orazione dei rassegnati, dei falsi idoli, dei tiranni da avanspettacolo, nella quale gli imbecilli bruciano la voglia di verità, di rivolta e del bene comune. La fotografia risponde alle esigenze di miserie asser­vite e alle implorazioni di codardie secolari… l’unico ordine di grandezza alla quale aspira la fotografia spettacolarizzata è quello del fallimento… tuttavia un mondo senza fotografia sarebbe altrettanto marcio (e impunito) di un parlamento senza iene. “Chi non ha principi morali si avvolge di solito in una bandiera” (Umberto Eco). Gli imbalsamati nelle ideologie, nelle religioni o nel neoliberismo lo sanno bene: il potere è una droga che fa di colui che vi si dedica un demente in potenza.

VI. La visione antropologica della fotografia sociale è al fondo della fotografia di strada… affronta il dolore, talvolta lo sollecita, si ribella a tutto e va verso nuove, altre, più atroci verità calpestate dall’ordine costituito… dato che l’insur­rezione dei popoli è il suo unico lusso, vi partecipa, non tanto per trarne vantaggi o benefici o migliorare la propria sorte, quanto per affermare il diritto all’insolenza contro la consolazione del servaggio e a favore dell’abolizione dei privilegi di pochi sulla povertà di molti. Tutti i regimi fanno schifo… nei governi, anche quelli che si dipingono democratici, vi si segnalano buffoni, mafiosi, assassini in formato grande… il lavoro sporco lo lasciano fare ai fondamentalismi, agli inte­gralismi, ai fanatismi del momento, naturalmente ben fagocitati dalla politica finanziaria, i servizi segreti, le caste degli aiuti internazionali… che bello! Il mondo è in fiamme e non c’è papa, capo di stato o generale che non si faccia carico di carneficine inammissibili a danno degli ultimi della terra: “Il crimine in piena gloria consolida l’autorità con la paura sacra che ispira. L’arte di farsi temere e rispettare equivale al senso di opportunità” (E.M. Cioran) che ne consegue.

VII. La fotografia autentica, come la fierezza, non si può insegnare a scuola, s’impara nella strada… grazie al confor­mismo e all’illuminata stupidità di fotografi votati alla ferocia del successo, la fotografia si riduce a un cumulo di banalità idolatrate dall’industria culturale, invece di lavorare al suo annientamento. La fotografia è insieme il paradiso e la tomba della propria bellezza! La scrittura fotografica si adatta a meraviglia allo stupore del consenso… dinanzi alla sfilata degli stupidi che albergano nelle vetrine del mercato non ci resta che cercare una via estrema, quella che si erge tra il ghigno e la sovversione non sospetta dell’immaginario sociale.

VIII. La fotografia della flânerie (o della deriva) è quella di girare (a fianco di malfattori senza causa, che non sia quella di rivolgimento dei dissimulatori del potere in piena gloria) senza avere una meta in una qualsiasi città, un qualsiasi deser­to, un qualsiasi mare o qualsiasi periferia… fotografare l’epifania di un incontro, quale che sia, e fare (semplicemente) un atlante di geografia umana dove ogni uomo è re perché nessuno è schiavo.

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Per affabulare la fotografia della flânerie non importa avere un corredo di macchine fotocamere di ultima generazione, giubbotti firma­ti, cavalletti di piombo o zaini con dentro anche una televisione portatile… il vero, il bello, il buono e il sommo bene… si possono cogliere con una fotocamera usa e getta, un telefonino, un tablet, una videocamera amatoriale (come hanno insegnato le rivolte arabe, poi finite nell’autoritarismo e nel sangue dei popoli)… per chiudere o forse per aprire, nell’Ecclesiaste (Qohèlet) si legge: “Ciò che è stato quello è ciò che sarà, e ciò che è stato fatto quello è ciò che sarà fatto. E non c’è niente di nuovo sotto il sole”. Ciò che importa è che il fotografo sia un disingannato dalle illusioni di grandezza e disgustato dei piaceri del potere (Voltaire, diceva), più ancora che faccia propria la filosofia epicurea di liberare gli uomini dalle afflizioni degli dèi (quali che siano) e respinga dappertutto l’infelicità (o la denunci).

Lascia parlare il tuo cuore, interroga i volti, non ascoltare le lingue.
Umberto Eco