Dalembert si muove con perizia nel trattare il dolore allo stato puro che attanaglia anche il lettore più freddo e distaccato
di Anna Maria Giancarli
La ballata è un componimento poetico, nella metrica italiana, così chiamato perché cantato da un coro di danzatrici, accompagnato dalla musica.
Ovviamente, il titolo che Louis-Philippe Dalembert ha dato al suo libro, “Ballata di un amore incompiuto”, poco ha in comune con tale definizione se riferito strettamente al genere letterario ma, al contrario, evoca prepotentemente molte affinità se esaminato nella forma che rivela una struttura linguistica fluida, un palcoscenico aperto alle voci, nel quale s’affollano personaggi vari, uniti con sapienza fra di loro dallo sguardo civile e poetico dell’autore.
I capitoli vengono intitolati in successione “Respiro” e “Grida”, parole emblematiche che diventano una chiave di lettura per la decodificazione del romanzo.
Di fatto Dalembert racconta la storia di un amore autentico e passionale, che cresce all’interno di una comunità tradizionalista, che mostra tutte le sue remore, le sue limitazioni culturali nei confronti di un’unione, per così dire, fuori dagli schemi consueti.
Azaka, il protagonista, arrivato in Italia e precisamente nell’Abruzzo aquilano da Haiti, è sfuggito al tremendo terremoto che ha devastato la sua terra e la sua vita, portandosi dentro un lancinante carico di ricordi e sofferenze.
Sappiamo che i cambiamenti radicali rappresentano sempre, oltre allo sconvolgimento, una sfida per nuove opportunità. L’incontro con Mariagrazia, donna ribelle e determinata che lotta contro le diffidenze della sua famiglia e dei compaesani del “Borgo delle cipolle” nei confronti d’una coppia mista, offre ad Azaka un nuovo orizzonte di vita, una concreta possibilità di ricostruzione.
Infatti, persino in un contesto sociale così connotato, ha la meglio la testarda affermazione del loro legame, perseguito dai due protagonisti senza alcuna esitazione. Ma all’interno della vicenda, Dalembert pone in primo piano al lettore, catturato dall’andamento avvincente della storia, uno dei problemi più allarmanti delle nostre società occidentali, cosiddette avanzate che, in tempi di globalizzazione, continuano a rifiutare le diversità, in primis quelle degli stranieri.
L’autore affronta un tema nevralgico che ci riguarda tutti, considerato che anche in Italia, che poggia la sua convivenza civile su una delle costituzioni più democratiche, questo fenomeno dilaga fra tanti italiani ed italiane che un tempo emigravano in altri paesi.
Sullo sfondo di questa narrazione coinvolgente, dolce, nella quale la lingua si piega a quel flusso corale, musicale, prima accennato, troneggia mostruoso il terremoto, che distrugge la città dell’Aquila ed il suo territorio, compreso il “Borgo delle cipolle”, luogo in cui si svolge la storia.
Tutto ciò accade quando Azaka e Mariagrazia, ormai accettati da questa piccola comunità, stanno per realizzare la loro vagheggiata felicità, arricchita dall’attesa d’un figlio.
Le ferite di Azaka, scampato già al terremoto, mai rimarginate ma finalmente mitigate da un futuro di affetti, in quel funesto mese di aprile si riaprono mostrando tutte le loro profonde fessure.
Nell’attesa di ritrovare sua moglie sotto le macerie della loro casa, il suo corpo e la sua mente sono paralizzati dall’incubo.
Il cataclisma ha generato un campo sterminato di rovine e la vastità del disastro gela il suo respiro. La tragedia ha cancellato il suo futuro.
Struggente il dialogo, l’ultimo, tra Azaka e Mariagrazia sepolta. Nel colloquio, ansimante, estremo, ripercorrono fulmineamente la loro vita insieme, i loro progetti, i loro sogni.
Un silenzio tombale li avvolge, interrotto soltanto dal sempre più tenue filo di voce che sale dal buio sotterraneo fino a spegnersi.
È un supplizio che Azaka conosce già e che non avrebbe mai immaginato di rivivere attraverso il corpo di sua moglie e del bambino.
L’evento apocalittico lo proietta di nuovo in un tempo senza inizio né fine, in una dimensione di vuoto.
Il tempo per lui ora ha il volto della morte, del viso insanguinato di Mariagrazia, che bacia e carezza e stringe a sé in un gorgo delirante.
Dalembert si muove con perizia nel trattare il dolore allo stato puro che attanaglia anche il lettore più freddo e distaccato.
Proprio in questi passaggi narrativi, evidenzia una scrittura di sicura abilità, che non indulge, né si impiglia nei pericoli del sentimentalismo o della retorica in agguato.
La voce narrativa si attesta sempre sul crinale della misura, dell’uso lucido della lingua.
Sapiente nell’autore anche la capacità di esplorazione psicologica dei personaggi, cesellati con partecipazione umana e con i quali a volte entra in sintonia profonda.
Il romanzo si chiude proprio con la descrizione della disintegrazione interiore ed esistenziale di Azaka che, ormai senza bussola, “porta in giro il dolore in quella città dell’Aquila naufragata”.
Una sospensione spaesata lo invade, mentre “le immagini di distruzione, di ieri e di oggi, di una terra scatenata, si confondono nella sua mente”.
Infine, la dolorosa esperienza si conclude a causa della sua generosità di “uomo”, in un epilogo che da un lato nega spazio al futuro, e dall’altro apre un varco di luce ad una nuova vita.
P.S. Un sentito ringraziamento, da parte mia, a Louis-Philippe per aver trattato la tragedia della città dell’Aquila nel romanzo Ballata di un amore incompiuto (Frassinelli, 2014) presentato nella Libreria Colacchi contestualmente alla mostra di pittura dell’artista Vincenzo Bonanni.
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