«Elementi, animali, umani tutto è in guerra. / Confessiamolo pure, il male è sulla terra [Voltaire] » «Se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto» [Rousseau]

di François Marie Arouet de Voltaire e Jean-Jacques Rousseau

Nell’apocalittico giorno di Ognissanti del 1755 un terremoto classificato al IX grado della scala Richter, con il concomitante innalzamento delle acque marine litoranee di almeno 6 metri (un vero e proprio tsunami lo avremmo definito oggi) e con l’aggiunta di una serie di incendi causati forse dalle candele e dai ceri accesi, ebbe come epicentro la città di Lisbona provocando decine e decine di migliaia di vittime.

Ciò che scosse il pensiero filosofico e intellettuale del tempo era l’illogica coincidenza temporale tra una delle feste religiose più sentite dalla comunità cattolica e la concomitante catastrofe. Quale rapporto esisteva tra l’infinita bontà di Dio sostenuta da filosofi come Bayle o Leibniz e l’innegabile Male esistente sulla terrà?

La teodicea leibniziana (termine coniato dal filosofo tedesco nel primo decennio del Settecento nel suo libro Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male), viene radicalmente messa in discussione da Voltaire, a stretto ridosso del sisma, con il Poema sul disastro di Lisbona (integralmente riproposto su ZRAlt! data la sua forte attualità nel contesto delle varie forme del Male assunte nella società contemporanea, catastrofi naturali su tutte).

Questo il vibrante incipit: «Poveri umani! e povera terra nostra! / Terribile coacervo di disastri! / Consolatori ognor d’inutili dolori! / Filosofi che osate gridare tutto è bene, / venite a contemplar queste rovine orrende: / muri a pezzi, carni a brandelli e ceneri. / Donne e infanti ammucchiati uno sull’altro / sotto pezzi di pietre, membra sparse; / centomila feriti che la terra divora, / straziati e insanguinati ma ancor palpitanti, / sepolti dai lor tetti, perdono senza soccorsi, / tra atroci tormenti, le lor misere vite».

Intriso com’è il Poema di un forte pessimismo di fondo, troverà – tra gli altri interlocutori che sostenevano una visione metafisica diversa – Rousseau, il quale aveva ricevuto una delle copie.

Le sue obiezioni di fondo riguardavano il ruolo rivestito da Dio nelle catastrofi naturali e nei conseguenti Mali che affliggono l’umanità: «Ora, cosa mi dice, invece, il vostro Poema? Soffri per sempre, infelice. Se esiste un Dio che ti ha creato, senza dubbio è onnipotente; poteva evitarti tutti i mali: non sperare, dunque, che questi abbiano mai fine; perché non c’è altro motivo per la tua esistenza, oltre la sofferenza e la morte».

Com’è noto, Voltaire rispose punto per punto alla forti obiezioni dottrinali contenute nella lettera di Rousseau con il racconto satirico Candide.

Ma sarà una seconda lettera scritta, sempre da Rousseau e trascritta integralmente nella sua autobiografia di Les Confessions pubblicata postuma nel 1782 (I parte) e nel 1789 (II), a rincarare la dose della sua visione metafisica alternativa, nonché della sua onestà intellettuale contrapposta a quella del suo interlocutore:

«In quello stesso periodo ebbi un altro infortunio, che motivò l’ultima lettera da me scritta al signore di Voltaire: lettera per la quale egli lanciò alte strida, come per un affronto ignominioso, ma che non ha mostrato mai a nessuno. Supplirò qui a quanto non s’è degnato di fare.

L’abate Trublet, che conoscevo un po’, ma che ben poco avevo visto, mi scrisse, il 13 giugno 1760 (Incarto D, n. 11), per avvertirmi che il signor Formey, suo amico e corrispondente, aveva pubblicato nel suo giornale la mia lettera al signore di Voltaire sulla catastrofe di Lisbona. (P. 281)

L’abate Trublet voleva sapere come tale pubblicazione aveva potuto avvenire, e, col suo tipico stile sottile e gesuitico, mi chiese il mio parere sulla ristampa di quella lettera, senza esternarmi il suo. Siccome odio profondamente gli ipocriti di tale stampo, gli espressi i ringraziamenti dovutigli, ma in un tono duro che lui avvertì, anche se non gli impedì di inzuccherarmi ancora in due o tre lettere, finché seppe tutto quanto mirava a sapere. Capii perfettamente, checché ne potesse dire Trublet, che Formey non aveva affatto trovato stampata quella lettera, la cui prima pubblicazione era dunque opera sua. Lo conoscevo come uno sfrontato plagiario che, senza complimenti, rapinava una rendita dalle opere altrui, pur non avendo ancora raggiunto l’impudenza incredibile di togliere da un libro già pubblicato il nome dell’autore per sostituirvi il proprio, e venderlo a suo profitto. Ma come mai quel manoscritto era giunto fino a lui? Era questo il problema, non difficile a risolversi, ma sul quale fui tanto ingenuo da restare interdetto. Sebbene Voltaire fosse onorato all’eccesso in quella lettera, e siccome infine, malgrado la sua condotta disonesta, egli avrebbe avuto ragione di lamentarsi se l’avessi fatta stampare io senza il suo consenso, presi la decisione di scrivergli in proposito. Ecco questa seconda lettera [infra], alla quale non diede alcuna risposta, e per la quale, onde meglio ostentare la sua brutalità, finse di essere irritato sino al furore».

Qui di seguito, la redazione di ZRAlt!, pensando di fare cosa gradita ai suoi internauti, ripropone la versione in italiano dei tre “luministici e illuminanti” documenti.

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Poema sul disastro di Lisbona

di François Marie Arouet de Voltaire

Poveri umani! e povera terra nostra!
Terribile coacervo di disastri!
Consolatori ognor d’inutili dolori!
Filosofi che osate gridare tutto è bene,
venite a contemplar queste rovine orrende:
muri a pezzi, carni a brandelli e ceneri.
Donne e infanti ammucchiati uno sull’altro
sotto pezzi di pietre, membra sparse;
centomila feriti che la terra divora,
straziati e insanguinati ma ancor palpitanti,
sepolti dai lor tetti, perdono senza soccorsi,
tra atroci tormenti, le lor misere vite.

Ai lamenti smorzati di voci moribonde,
alla vista pietosa di ceneri fumanti,
direte : è questo l’effetto delle leggi eterne
che a un Dio libero e buono non lasciano la scelta?
Direte, vedendo questi mucchi di vittime:
fu questo il prezzo che Dio fece pagar pei lor peccati?
Quali peccati? Qual colpa han commesso questi infanti
schiacciati e insanguinati sul materno seno?
La Lisbona che fu conobbe maggior vizi
di Parigi e di Londra, immerse nei piaceri?
Lisbona è distrutta e a Parigi si balla.
Tranquilli spettatori, spiriti intrepidi,
dei fratelli morenti assistendo al naufragio
voi ricercate in pace le cause dei disastri;
ma se avvertite i colpi avversi del destino,
divenite più umani e come noi piangete.

Credetemi, allorquando la terra c’inghiotte negli abissi
innocente è il lamento e legittimo il grido:
ovunque avvolti in una crudele sorte,
in furori malvagi e imboscate mortali,
subendo l’attacco di tutti gli Elementi:
compagni dei miei mali, possiamo pur lamentarci.
È l’orgoglio, direte, il ripugnante orgoglio
che ci fa dir che il mal poteva esser minore.
Interrogate, orsù, le sponde del mio Tago,
frugate, orsù, fra le macerie insanguinate,
chiedete ai moribondi, in preda a gran terrore,
se è l’orgoglio che grida: “aiutami o cielo!
O ciel, pietà per le miserie umane!”

“Tutto è bene , voi dite, e tutto è necessario”.
Senza questo massacro, senza inghiottir Lisbona,
l’universo peggior sarebbe dunque stato ?
Siete davvero certi che la causa eterna
che tutto può, che tutto sa, creando per se stessa
non poteva gettarci in questi tristi climi
senza accenderci sotto dei vulcani?
Così limitereste la potenza suprema?
D’esser clemente allor le impedireste?
Non ha forse l’eterno artigian nelle sue mani
Mezzi infiniti adatti ai suoi disegni?
Umilmente vorrei, senza offendere il Signore,
che questo abisso infiammato di zolfo e salnitro,
avesse acceso il fuoco in un deserto;
rispetto Dio, ma amo l’universo.
Se l’uomo osa dolersi di un sì terribile flagello
non è perché è orgoglioso, ahimè, ma sofferente.

I poveri abitanti di queste desolate rive,
tra gli orrendi tormenti sarebber consolati
se qualcun gli dicesse :“Sprofondate e morite tranquilli,
le vostre case per il bene del mondo son distrutte;
altre mani costruiranno altri palazzi;
altra gente avrà i muri che qui oggi vedete cader;
il Nord si arricchirà delle vostre odierne perdite,
i vostri mali d’oggi sono un ben sul piano generale;
agli occhi di Dio uguali siete ai vili vermicelli
di cui sarete preda nel fondo della fossa”?
Orribile linguaggio per degli infortunati!
Crudeli! Non aggiungete oltraggio al mio dolore!

Non opponete più alla mia angoscia
le immutabili Leggi di Necessità:
questa catena di corpi, di spiriti e di mondi.
O sogni dei sapienti! O abissali chimere!
Dio tiene in man la catena e non è incatenato;
Dalla sua saggia scelta tutto è stabilito:
Egli è libero, giusto e affatto implacabile.
Perché dunque soffriam sotto un Signore equanime?

Ecco il nodo fatal che scioglier si doveva.
Osando negarli guarirete i mali nostri?
Le genti tremebonde sotto una man divina
Del mal che voi negate han cercato il perché.

Se la legge che da sempre governa gli elementi
può far cader le rocce con lo spirar dei venti,
se le querce frondute s’incendian con la folgore,
pur non avvertono i colpi che le atterrano;
ma io vivo, io sento ed il mio cuore oppresso
chiede soccorso al creatore Iddio;
suoi figli, sì, ma nati nel dolore,
tendiam le mani al nostro unico padre.

Il vaso, si sa, non domanda al vasaio:
perché mi facesti così vil, caduco e grossolano?
Esso non può parlare né pensare:
quest’urna che si forma, che a terra cade in pezzi
dall’artigian non ricevette un cuore
per anelare il bene ed avvertire il male.
Il suo mal, dite voi, è il ben di un altro…
Il mio corpo insanguinato darà vita a mille insetti.
Quando la morte pon fine ai mali che ho sofferto,
un bel conforto è quello di andare in pasto ai vermi!
Squallidi disquisitori delle miserie umane,
anziché consolarmi, le mie pene rendete ancor più amare;
e in voi non vedo che lo sforzo impotente
di indomito ferito che vuol dirsi contento.

Del tutto io non son che un picciol pezzo:
è ver; ma gli animali condannati a vivere,
tutti soggetti ad una stessa legge,
vivono nel dolore e muoion come me.
L’avvoltoio avvinghiata la timida preda
lieto si pasce delle sue carni insanguinate:
tutto sembra andar bene per lui; ma ben presto, a sua volta,
un’aquila dal becco tagliente divora l’avvoltoio.
L’uomo colpisce col piombo micidial l’aquila altera,
finché lui stesso, in battaglia, disteso sulla polvere,
sanguinante e trafitto dai colpi, con altri moribondi,
serve da cibo orrendo agli uccelli rapaci.
Così del Mondo intero tutti i viventi gemono,
nati per il dolor, si dan l’un l’altro morte.
E voi ricomponete, da questo caos fatale,
dal male di ogni essere, la gioia generale?
Quale felicità! o debole e misero mortale!
“Tutto è bene” gridate con stridula voce:
l’universo vi smentisce, e il vostro stesso cuore
cento volte ha smentito il vostro errore.

Elementi, animali, umani tutto è in guerra.
Confessiamolo pure, il male è sulla terra:
la ragione profonda è sconosciuta.
Dall’autor d’ogni ben provenne il male?
È forse il nero Tifone, il barbaro Arimanno
che con legge tirannica al male ci condanna?
La mente non ammette questi mostri odiosi,
che il mondo tremebondo degli antichi aveva fatto Dei.
Ma come concepire un Dio, la bontà stessa,
che prodigò i suoi beni alle creature amate,
che poi versò su loro i mali a piene mani?
Qual occhio penetrar può i suoi profondi fini?
Dall’Essere Perfetto il mal non poté nascere;
Non può venir da altri, ché solo Dio è Padrone.
Eppure esiste. O tristi verità!
O strano intreccio di contraddizioni!
Un Dio venne a consolar la nostra razza afflitta,
la terra visitò senza cambiarla.
Un sofista arrogante sostien che nol poté;
lo poteva, afferma un altro, ma non l’ha voluto.
Lo vorrà, senza dubbio; ma mentre ragioniamo,
folgori sotterranee inghiottono Lisbona,
e di trenta città disperdon le rovine,
dal greto insanguinato del Tago a Gibilterra.

O l’uom nacque colpevole e la sua razza Iddio punisce;
o il Padrone assoluto del mondo e dello spazio,
senza collera e senza pietà, tranquillo e indifferente,
contempla del suo primo voler gli eterni effetti;
o la materia informe, ribelle al suo padrone,
porta con sé i difetti, com’essa necessari;
o Dio vuol metterci alla prova, ed il mortal soggiorno
altro non è che un misero passaggio al mondo eterno.

Patiamo qui dolori passeggeri;
la morte è un bene che alle nostre miserie pone fine;
ma quando usciremo da quest’orrendo passaggio
chi di noi potrà dir di meritare la felicità?
Quale che sia la nostra decisione, c’è da tremare infatti:
nulla conosciamo e nulla è senza tema.
Muta è Natura e invan la interroghiamo:
ci occorre un Dio che parli all’uomo;
spetta a lui di spiegar l’opera sua,
di consolare il debole e illuminare il saggio.
Al dubbio abbandonato e all’error, senza il suo aiuto,
l’uomo invan cercherà il sostegno di un bastone.
Leibnitz non spiega con quali oscuri fili
nel più ordinato dei possibili universi,
un disordine eterno, un caos di sventure,
al nostro vano piacer dolor reale intrecci;
né mi spiega perché, come il colpevole, pur l’innocente
debba subire il male senza scampo;
né capisco perché tutto sia bene:
ahimè! come un dottor io son che non sa niente.

Sostien Platone che l’uomo un dì fu alato
col corpo invulnerabile ai colpi mortali;
il dolore, la morte mai si avvicinavano
al suo stato di grazia, così diverso dall’odierno stato!
Si aggrappa, soffre, muore; ciò che nasce è destinato a perire;
Della distruzione la natura è l’impero.
Un debole composto di nervi e di ossa
non può non risentir del turbinìo del mondo;
questo misto di polvere, liquidi e di sangue
fu impastato perché si dissolvesse;
e i pronti sensi di nervi tanto vivi
fur soggetti al dolor che poi gli dà la morte.
E’ questo che m’insegna la legge di Natura.
Abbandono Platone, respingo Epicuro .
Bayle ne sa più di tutti: lo vado a consultare:
bilancia alla mano, Bayle insegna a dubitare;
saggio e grande abbastanza per non aver sistemi,
li ha tutti distrutti, mettendo in discussione anche se stesso:
in ciò simile al cieco esposto ai Filistei
che cadde sotto i muri abbattuti con sue mani.

Che può dunque lo spirito vedere all’orizzonte?
Nulla: ché il libro del Destin si chiude alla sua vista.
L’uomo, estraneo a se stesso, all’uomo è sconosciuto.
Che sono? dove sono? dove vado? e donde vengo?
Atomi tormentati in questo ammasso di fango,
che la morte inghiotte e la cui sorte è in gioco;
ma atomi pensanti, atomi i cui occhi
guidati dal pensiero han misurato i cieli:
con tutto il nostro essere tendiamo all’infinito,
eppure non riusciamo a conoscere noi stessi .

Questo mondo, teatro dell’orgoglio e dell’errore,
di disgraziati è pieno che credon tutto bene.
Ognun si duole e geme mentre il bene cerca;
nessuno vuol morir, rinascere nemmeno.
Eppur nei giorni destinati al dolore,
le lacrime asciughiamo col piacere;
ma il piacere svanisce e passa come un’ombra,
mentre le pene, le perdite e i rimpianti sono tanti.
Il passato non è che spiacevole ricordo,
oscuro è il presente se non c’è avvenire,
se il nulla sepolcrale distrugge l’io pensante.
Tutto ben sarà un giorno: è questa la speranza;
tutto oggi è bene: è questa l’illusione.
I saggi mi ingannavan, solo Dio ha ragione.
Umile nei miei sospiri, prono nei miei dolori,
non me la prendo con la Provvidenza.
Di men lugubre umor fui visto un tempo
dei dolci piaceri cantar le leggi seducenti.
È cambiato col tempo il mio costume ed in vecchiaia,
partecipe di umana e malintesa debolezza,
cercando un po’ di luce nella notte oscura,
non posso che soffrire senza dir parola.

Una volta un Califfo, alla fin di sua vita,
al Dio che adorava rivolse una preghiera:
“Ti porto, unico Dio, che limiti non hai,
quel che non hai nel tuo potere immenso:
i difetti, i rimpianti, il male e l’ignoranza.”
Ma aggiungere poteva: la speranza.

[Dalla traduzione di Francesco Tanini, Hyroniche Edizioni Telematiche, marzo 2006, http://www.fondazionefeltrinelli.it/wp-content/uploads/2016/08/Francois-Marie-Arouet-de-Voltaire-Poema-sul-disastro-di-Lisbona.pdf

***

Due lettere a Voltaire sul disastro di Lisbona

di Jean-Jacques Rousseau

(18 agosto 1756)

« […] Vi riferirò senza giri di parole non tanto delle bellezze che ho individuato nei vostri due poemi — il compito spaventerebbe la mia indole pigra — e nemmeno dei difetti dei quali si accorgeranno forse lettori ben più bravi di me, ma dei dispiaceri che in questo momento offuscano la gioia che pur provo dai vostri insegnamenti. […] Tutte le mie rimostranze sono dunque rivolte contro il Poema sul disastro di Lisbona, perché mi aspettavo da voi un risultato più degno dell’umanità che sembra avervelo ispirato. Rimproverate a Pope e a Leibniz di insultare i nostri mali sostenendo che tutto è bene e ingigantite talmente il quadro delle nostre miserie che ne aggravate il peso: invece delle consolazioni in cui speravo, voi finite col rattristarmi; si direbbe che temiate che io non mi renda conto a sufficienza di quanto sono infelice e che crediate — così sembra — di tranquillizzarmi provandomi che tutto è male.
State in guardia, Signore, accade esattamente il contrario di ciò che sostenete. Quell’ottimismo che trovate tanto crudele mi consola, tuttavia, di quegli stessi dolori che descrivete come insopportabili. Il poema di Pope allevia i miei mali e mi invita alla pazienza; il vostro inasprisce le mie pene, mi spinge a lamentarmi e, togliendomi tutto all’infuori di qualche briciola di speranza, mi porta alla disperazione. In questa strana opposizione che regna tra quello che dimostrate e quello che provo, calmate la perplessità che mi agita e ditemi se a sbagliarsi è il sentimento o la ragione.
«Uomo, sii paziente», mi ricordano Pope e Leibniz, «i tuoi mali sono una conseguenza ineluttabile della natura umana e della costituzione di quest’universo. L’Essere eterno e benevolo che lo dirige avrebbe voluto tenerli lontani da te: tra tutte le varianti possibili ha scelto quella che aveva meno male e più bene o, per dire la cosa più brutalmente, se non ha fatto meglio vuol dire che non era possibile farlo».
Ora, cosa mi dice, invece, il vostro Poema? «Soffri per sempre, infelice. Se esiste un Dio che ti ha creato, senza dubbio è onnipotente; poteva evitarti tutti i mali: non sperare, dunque, che questi abbiano mai fine; perché non c’è altro motivo per la tua esistenza, oltre la sofferenza e la morte». Non capisco come una simile dottrina possa risultare più consolatrice dell’ottimismo e della stessa fatalità. Confesso che per me è ancora più crudele del manicheismo. Se il problema dell’origine del male vi costringeva a intaccare qualcuna delle perfezioni di Dio, perché voler giustificare la sua potenza a scapito della sua bontà? Se è necessario scegliere tra i due errori, personalmente preferisco il primo.

[…] Inoltre, credo di aver dimostrato che eccetto la morte, che è un male solo se la si considera alla luce del modo con cui la aspettiamo e ci prepariamo ad essa, la maggior parte dei mali naturali di cui siamo afflitti sono anch’essi opera nostra.
Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi? Forse non sapete, allora, che l’identità personale di ciascun uomo non è diventata che la minima parte di se stesso e che non vale la pena di salvarla quando si sia perduto tutto il resto?
Avreste voluto — e chi non l’avrebbe voluto! — che il terremoto si fosse verificato in una zona desertica, piuttosto che a Lisbona. Si può dubitare che non accadano sismi anche nei deserti? Soltanto che non se ne parla perché non provocano alcun danno ai Signori delle città, gli unici uomini di cui si tenga conto. Del resto, ne provocano poco anche agli animali e agli indigeni che abitano, sparsi, questi luoghi remoti e che non temono né la caduta dei tetti, né l’incendio delle case. Ma che significa un simile privilegio? Vorrebbe forse dire che l’ordine del mondo deve assecondare i nostri capricci, che la natura deve essere sottomessa alle nostre leggi e che per impedirle di provocare un terremoto in un certo luogo basta costruirvi sopra una città?
Ci sono avvenimenti che ci colpiscono di più o di meno a seconda della prospettiva dai quali li si considera e che perdono buona parte dell’orrore che suscitano inizialmente quando si prende a esaminarli da vicino. Ho imparato da Zadig, e la natura me lo conferma ogni giorno, che una morte prematura non è sempre un male assoluto, ma, anzi, che qualche volta essa può avere i risvolti di un bene relativo. Tra tutti quegli uomini sepolti sotto le macerie di quella sventurata città, molti, senza dubbio, hanno evitato sciagure peggiori e malgrado la descrizione toccante e poetica dei vostri versi, non è neanche sicuro che uno solo di quei disgraziati abbia sofferto di più per la morte che l’ha sorpreso piuttosto che se l’avesse attesa con lunga angosciosa agonia e secondo il corso ordinario degli eventi.
Esiste, forse, una fine più triste di quella di un moribondo tormentato da inutili cure, al quale un notaio e gli eredi tolgono il fiato, che i medici assassinano senza scrupoli nel suo letto e al quale dei preti barbari fanno con arte assaporare la morte? Personalmente vedo ovunque che i mali che ci assegna la natura sono molto meno crudeli di quelli che aggiungiamo per nostra scelta ad essi.

[…] A proposito del bene universale preferibile a quello individuale voi fate dire all’uomo: «lo, essere pensante e senziente, devo stare tanto a cuore al mio Signore quanto i pianeti che, con tutta probabilità, non provano sentimento alcuno». Senza dubbio questo universo materiale non dev’essere più caro al suo creatore di un solo essere pensante e senziente, tuttavia, il sistema di quest’universo che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri pensanti e senzienti deve stargli più a cuore di uno soltanto di questi esseri. Egli può dunque, malgrado la sua bontà o piuttosto a causa di questa sua stessa bontà, sacrificare parte della felicità degli individui per la conservazione del tutto. Credo e spero di valere agli occhi di Dio più del materiale che forma un pianeta, ma se i pianeti sono abitati, com’è probabile, perché ai suoi occhi dovrei valere più io di tutti gli abitanti di Saturno? Anche se spesso ci si beffa di tali idee, è certo che molte analogie fanno propendere per l’esistenza di queste popolazioni siderali e solo l’orgoglio umano vi si oppone. Ora, ammessa l’esistenza di queste popolazioni, la conservazione dell’universo sembra avere per Dio stesso una morale che si moltiplica per il numero dei mondi abitati.
Sapere che il cadavere di un uomo nutra vermi, lupi o piante non è, ne convengo. un modo per risarcirlo della sua morte: ma se nel sistema dell’universo è necessario, per la conservazione del genere umano, che vi sia un passaggio di sostanza tra uomini, animali e vegetali, allora il singolo male di un individuo contribuisce al bene generale: muoio, vengo mangiato dai vermi, ma i miei fratelli, i miei figli vivranno come ho vissuto io e faccio, per ordine della natura, ciò che fecero Codro, Curzio, Leonida, i Deci, i Fileni e mille altri per una piccola parte degli uomini.
Per tornare, Signore, al sistema che voi criticate, credo che non si possa esaminano in modo corretto senza distinguere con cura il male individuale, la cui esistenza non è mai stata negata da alcun filosofo, dal male generale che nega l’ottimismo. Non si tratta di sapere se ognuno di noi soffre o no, ma se sia un bene che esista l’universo e se i nostri mali erano inevitabili all’atto della sua costituzione. Così, mi sembra che l’aggiunta di un articolo renderebbe la proposizione più corretta e, invece di dire tutto è bene, si dovrebbe forse dire il tutto è bene o tutto è bene per il tutto. Allora, è evidente che nessun uomo potrebbe portare delle prove dirette né pro né contro quest’assioma, perché tali prove dipenderebbero da una conoscenza perfetta della costituzione del mondo e dei fini del suo creatore, e una conoscenza di questo tipo è incontestabilmente al di là di ogni intelligenza umana.
I veri principi dell’ottimismo non possono essere dedotti né dalle proprietà della materia né dalla meccanica dell’universo, ma solo per induzione dalla perfezione di Dio che sovraintende a ogni cosa, in modo tale che non si può provare l’esistenza di Dio con il sistema di Pope, ma il sistema di Pope con l’esistenza di Dio ed è, senza dubbio, dalla questione della provvidenza che è derivata quella dell’origine del male. Se queste due questioni non sono state ben analizzate, né l’una né l’altra, lo si deve al fatto che si è sempre ragionato male sulla provvidenza, e tutte le assurdità che sono state dette in proposito hanno ingarbugliato le conseguenze che si sarebbero potute trarre da questo grande e consolante dogma.
I primi ad aver guastato la causa di Dio sono i preti e i devoti, che non possono soffrire che qualcosa non si faccia seguendo l’ordine stabilito, ma che fanno sempre intervenire la giustizia divina negli avvenimenti prettamente naturali e, per essere sicuri di quanto affermano, puniscono e castigano i malvagi, mettono alla prova e ricompensano i buoni, indifferentemente con benefici o danni, a seconda delle circostanze. Non so, da parte mia, se questa sia buona teologia, ma trovo che sia una pessima maniera di ragionare il fondare sui “pro” e sui “contro” le prove della provvidenza e di attribuirle senza discernimento tutto ciò che accadrebbe ugualmente anche senza di essa.
I filosofi a loro volta, non mi sembrano molto più ragionevoli quando li vedo prendersela col cielo perché non riescono ad essere impassibili o quando gridano che tutto e perduto perché hanno il mal di denti, o perché sono poveri, o perché vengono derubati e vorrebbero, come dice Seneca, incaricare Dio di far la guardia alloro bagaglio. Se qualche tragico incidente avesse provocato la morte di Cartouche o di Cesare durante la loro infanzia ci si sarebbe chiesti che crimine quei bambini avessero mai commesso? Invece, questi due furfanti sono sopravvissuti e ora noi ci chiediamo perché li si sia lasciati vivere? Al contrario, un devoto vi dirà, nel primo caso, che Dio intendeva punire il padre togliendogli suo figlio e nel secondo, invece, che Dio ha voluto mantenere in vita il figlio per castigare il popolo. Così, qualunque sia la decisione della natura, la provvidenza per i devoti ha sempre ragione e per i filosofi sempre torto. Ma, forse, nel corso degli eventi umani, essa, in fondo, non ha né torto né ragione, perché tutto deriva da una legge comune e non ci sono eccezioni per nessuno. Bisognerà credere che i singoli eventi individuali non contano nulla agli occhi del Signore dell’Universo e che la sua provvidenza sia solo universale. Il Signore dell’Universo si accontenta di conservare i generi e le specie e di presiedere al tutto senza preoccuparsi del modo in cui ogni individuo trascorre questa breve vita. Un re saggio, che vuole che ognuno viva felice nel suo regno, ha forse bisogno di sapere se le locande che vi si trovano sono pulite? Il passante brontola per una notte quando le trova sporche e per tutto il resto della sua vita ride al ricordo di un’insofferenza così sproporzionata. «Commorandi enim natura diversorium nobis, non habitandi dedit» [La natura ci ha dato la vita come un luogo nel quale dimorare, non come qualcosa da possedere, Cicerone, De Senectute].
[…] Se riporto tali diverse questioni al loro comune principio mi sembra che si riferiscano tutte all’esistenza di Dio. Se Dio esiste, è perfetto; se è perfetto, è saggio, onnipotente e giusto; se è saggio e onnipotente tutto è bene; se è giusto e onnipotente la mia anima è immortale; se la mia anima è immortale trent’anni di vita non son nulla per me, mentre sono forse necessari alla conservazione dell’universo. Se mi si concede la prima affermazione, le altre saranno di conseguenza inattaccabili; se la si nega, a che serve discutere sulle sue conseguenze?
Né voi né io rientriamo in quest’ultimo caso. Sono ben lontano dal presumere che voi condividiate quest’opinione leggendo la raccolta delle vostre opere. Infatti, la maggior parte dei vostri scritti mi offre le idee più grandi, più dolci e più consolanti della divinità, e preferisco un cristiano come voi a quelli della Sorbona.
Quanto a me, vi confesserò francamente che non mi sembra che i lumi della ragione abbiano dimostrato né il “pro” né il “contro” in merito a questa importante questione e che se il teista basa il suo sentimento solo sulle probabilità, mi pare che l’ateo, con ancor minor precisione, poggi invece il suo semplicemente sulle possibilità opposte. Inoltre, le obiezioni di entrambe le parti sono sempre insolubili perché poggiano su cose delle quali gli uomini non hanno alcuna idea precisa. Ne convengo in tutto e per tutto, e tuttavia credo in Dio con la stessa forza con cui credo in qualunque altra verità, perché credere o non credere sono le cose al mondo che meno dipendono dalla mia volontà. Lo stato del dubbio è una condizione troppo violenta per la mia anima. Quando la mia ragione è indecisa, la mia fede non può restare a lungo in sospeso e decide senza di essa. Allora, mille motivi mi spingono di preferenza sul versante dove vi è maggior consolazione e aggiungono il peso della speranza all’equilibrio della ragione».

[http://www.parodos.it/letters/rousseau.htm]

«Montmorency, 17 giugno 1760

Non avrei mai creduto, signore, di dovermi ritrovare in corrispondenza con voi. Ma, venuto a conoscenza che la lettera scrittavi nel 1756 è stata pubblicata a Berlino, devo rendervi conto della mia condotta a questo riguardo, e adempirò tale dovere con verità e semplicità.

Quella lettera, essendovi stata realmente indirizzata, non era destinata a pubblicazione. La comunicai, sotto condizione, a tre persone alle quali i diritti dell’amicizia non mi consentivano di rifiutare nulla di simile, e alle quali i medesimi diritti ancor meno consentivano di abusare di quanto custodivano violando la loro promessa. Queste tre persone sono la signora di Chenonceaux, nuora della signora Dupin, la signora contessa d’Houdetot, e un tedesco chiamato signor Grimm. La signora di Chenonceaux si augurava che la lettera venisse pubblicata e me ne sollecitò il consenso. Le dissi che dipendeva dal vostro. Vi fu chiesto, voi lo rifiutaste, e non se ne parlò più.

Tuttavia, il signor abate Trublet, col quale non ho nessun genere di rapporto, mi ha testé scritto, con una premura piena di onestà, che, avendo ricevuto i fogli di un giornale del signor Formey, vi aveva letto quella stessa lettera, con un’avvertenza nella quale l’editore afferma, in data 23 ottobre 1759, d’averla trovata qualche settimana addietro, presso i librai di Berlino, e che, siccome si tratta d’uno di quei fogli volanti che scompaiono in breve senza traccia, ha creduto di doverla ospitare nel suo giornale.

Ecco, signore, tutto quanto ne so. È certissimo che sin qui non si era neppure udito parlare a Parigi di quella lettera. È certissimo che l’esemplare, manoscritto o stampato, caduto nelle mani del signor Formey non poté venire se non da voi, cosa inverosimile, o da una delle tre persone che ho nominate. Infine, è certissimo che le due dame sono incapaci di una simile infedeltà. Non posso saperne di più, dal mio ritiro. Voi disponete di corrispondenti tramite i quali vi sarebbe agevole, se ne valesse la pena, risalire alla fonte e verificare il fatto.

Nella stessa lettera, il signor abate Trublet mi comunica che tiene in serbo il foglio, e non lo presterà senza il mio consenso, che io non gli darò certo. Ma quell’esemplare può non essere l’unico a Parigi. Mi auguro, signore, che questa lettera non vi sia stampata, e farò del mio meglio per impedirlo; ma se non riuscissi ad evitare la pubblicazione, e se, avvertito in tempo, potessi avere la preferenza, allora non esiterei a farla stampare io stesso. Mi pare giusto e naturale.

Quanto alla vostra risposta alla stessa lettera, essa non fu comunicata a nessuno, e potete contare che non verrà pubblicata senza il vostro consenso, che certamente non avrò l’indiscrezione di chiedervi, ben sapendo come quanto un uomo scrive a un altro, non lo scriva per il pubblico. Ma se desiderate scrivermene una da pubblicare, e indirizzarmela, vi prometto di unirla fedelmente alla mia lettera, e di non ribattere una sola parola.

Io non vi amo affatto, signore; voi mi avete inferto le ferite che potevano essermi più dolorose, a me, vostro discepolo entusiasta. Voi avete rovinato Ginevra quale prezzo dell’asilo che vi avete ricevuto; voi mi avete alienato i miei concittadini, quale compenso per gli applausi che vi ho prodigati fra loro: siete voi che mi rendete insopportabile il soggiorno nel mio paese, voi che mi farete morire in terra straniera, privo di tutte le consolazioni dei morenti, e gettato per tutto onore in un immondezzaio, mentre tutti gli onori che un uomo può attendersi vi accompagneranno nel mio paese. Io vi odio, insomma, perché voi l’avete voluto; ma vi odio da uomo anche più degno di amarvi, se voi l’aveste voluto. Di tutti i sentimenti di cui era colmo il mio cuore per voi, non resta che l’ammirazione che non si può ricusare al vostro bel genio, e l’amore per i vostri scritti. Se non posso onorare in voi altro che il talento, la colpa non è mia. Non mancherò mai al rispetto dovutogli, né alla condotta che tale rispetto esige».

[Stralcio dal testo integrale di Le Confessioni disponibile su internet all’indirizzo

http://sentieridellamente.it/files/rousseau-Le-confessioni.pdf]