Si potrebbe anche pensare di sfruttare questi modelli per esplorare nuove forme d’espressione e sfidare i limiti tradizionali dell’arte. Cioè, in altre parole, per aiutare l’artista e aumentarne la creatività, ricorrendo al supporto dell’intelligenza artificiale. In realtà non è così
di Luciano Romoli
“Erano diventati pittori proprio perché
esiste qualcosa che non si può dire”
(R. M. Rilke)
Introduzione
Il modo di considerare e definire l’intelligenza è profondamente cambiato nel corso della storia; fino al XVII secolo veniva più frequentemente utilizzato il termine “sapienza”, inteso come l’attività intellettuale rivolta a concepire concetti universali tali da consentire di avere una visione del mondo che ne spiegasse la natura filosofica originaria.
Questo modo di vedere è presente e ben descritto nella Bibbia, dove la vera intelligenza consiste nell’essere “capaci” di Dio, ovvero di essere in grado di concepire l’essenza di una Entità che rappresenti l’Essere e la Causa, il Tutto.
La speculazione intellettuale degli antichi può dunque essere ben rappresentata da una domanda che nel medioevo accalorava molto : “Quanti angeli possono stare sulla punta di un ago?”, alla quale Meister Eckhart, teologo e filosofo domenicano del milletrecento, aveva risposto: “In cielo mille angeli possono stare sulla punta di un ago … vi dirò ancora di più: se Dio avesse creato tanti cieli e tante terre quante creature ha creato, tutto ciò sarebbe ancora più piccolo della punta di un ago, rispetto allo spazio concesso all’anima che viene unita a Dio”. Veniva dunque dato risalto a questo tipo di conoscenza, abbinata alla virtù, che l’Ulisse dantesco riconosce come il carattere distintivo della natura umana.
Col trascorrere dei secoli il termine intelligenza ha iniziato ad assumere significati che si sono sempre più avvicinati a quello di una attività intellettuale in grado di discernere gli aspetti particolari da quelli ontologici di natura più generale, inventando “metodi di spiegazione del mondo” come quello immaginato dal filosofo Guglielmo di Occam, chiamato “rasoio”, che consisteva nell’assumere che “La pluralità non dovesse mai essere postulata senza necessità”. Tale principio, seppur enunciato nel milletrecento, iniziò a trovare applicazione solo nel XVII secolo, in concomitanza con la nascita dell’Illuminismo.
Ecco quindi che i vari tentativi di spiegare i fenomeni naturali,cercando sempre di utilizzare le ipotesi più semplici possibili,ha formato il terreno di coltura delle scienze moderne, in cui l’immaginazione è stata orientata a formulare domande con lo scopo di ipotizzare relazioni di causa/effetto, da verificare sperimentalmente, e che costituiscono l’attuale modo di intendere la conoscenza.
Il termine “intelligenza”si è così rapportato sempre più a quei processi cognitivi che consentono di proporre rappresentazioni del mondo, e di attribuire un significato alle immagini mentali che ci facciamo delle cose e dei fenomeni, in modo da identificarne i comportamenti per arrivare alla “soluzione dei problemi”.
Questa attività, che per due secoli è stata sviluppata in modo relativamente “lento”, dovuto alla necessità di sviluppare a mano i calcoli logico-matematici, ha subìto una svolta improvvisa alla fine degli anni quaranta del secolo scorso, quando due ricercatori dei laboratori Bell, Walter Brattain e John Bardeem svilupparono il primo dispositivo elettronico, il transistor, che consentiva di realizzare, oltre a molte altre funzioni, dei sistemi che potevano compiere operazioni di logica matematica ad altissima velocità, emulando alcuni dei processi del pensiero umano.
Venne quindi naturale domandarsi se, aumentando la complessità dei sistemi elettronici, in termini di connessioni e di quantità di unità elementari, in analogia con il numero e le connessioni neuronali presenti in un cervello biologico, esistesse un limite oltre il quale non fosse più possibile distinguere un interlocutore umano da un sistema artificiale; di fatto,attribuendo a quest’ultimo un comportamento “intelligente”.
Nel 1950, il matematico inglese Alan Turing propose un gioco di imitazione, al termine del quale si sarebbe considerata “intelligente” una macchina che, a giudizio di un uomo, avesse fornito risposte indistinguibili da quelle che avrebbe dato un essere umano.
Col progredire delle tecnologie informatiche, sono stati successivamente esplorati i meccanismi di comprensione del linguaggio, rendendo ancora più specifica la definizione di intelligenza. Negli anni Novanta del secolo scorso, l’ingegnere statunitense James Albus definì l’intelligenza come “la capacità di un sistema di agire in modo appropriato in un ambiente incerto, dove le azioni appropriate sono quelle che aumentano le probabilità di successo”.
Oggi, nel XXI secolo, non si può non parlare di intelligenza senza affiancarle l’aggettivo“artificiale”. In realtà questo termine era stato coniato fin dal 1955 da John McCarthy, durante la conferenza “Dartmouth Summer Research Project on Artificial Intelligence”. La parola non indica altro se non la tecnologia, che si sarebbe sviluppata da quel momento in poi, che consente di “simulare” i processi dell’intelligenza umana attraverso la creazione e l’applicazione di algoritmi, integrati in un ambiente di calcolo dinamico.
Alcuni dei modelli oggi più utilizzati e proposti, sono sicuramente quelli che apprendono dal linguaggio naturale e generano risposte che “imitano” quello umano, cercando di rispettarne le caratteristiche di contesto formale.
È quindi evidente che il limite di questi linguaggi artificiali è che non hanno una visione semantica e, di conseguenza, non sono in grado di formulare concetti in modo autonomo, ma solo in modalità “imitativa”; tuttavia, come dice lo stesso Sam Altman, CEO di OpenAI, costituiscono degli “strumenti ausiliari” che “saranno in grado di creare sempre più cose meravigliose”.
Dal punto di vista dell’utilizzo, secondo quanto comunemente riconosciuto, i programmi di AI iniziano già ad assumere un ruolo importante in molte attività umane, quali la sicurezza informatica, la ricerca scientifica, la valutazione del personale, l’educazione, l’editoria, la medicina e la farmacologia dove, oltre a supportare gli operatori nei vari settori, ne possono sostituire la presenza.
L’intelligenza artificiale e le arti visive
Si potrebbe pensare che questa “abilità” sia capace di aprire nuovi orizzonti nell’ambito delle arti visive e magari offrire nuove opportunità creative.
Si potrebbe anche pensare di sfruttare questi modelli per esplorare nuove forme d’espressione e sfidare i limiti tradizionali dell’arte. Cioè, in altre parole, per aiutare l’artista e aumentarne la creatività, ricorrendo al supporto dell’intelligenza artificiale.
In realtà non è così, perché nonostante le straordinarie capacità, è essenziale riconoscere che gli attuali modelli text-to-image presentano ancora limiti ben evidenti; in primis, una limitata comprensione del contesto, che li porta spesso a produrre risultati incoerenti o distorti; inoltre, mostrano difficoltà a catturare i concetti astratti e le sottili sfumature emotive presenti nelle descrizioni testuali.
E questo, di fatto,limita notevolmente la loro capacità di tradurre significativamente l’essenza di un’idea artistica, ancorché ben definita dall’operatore.
Nelle mia ricerca, ispirata dalla idea che Arte e Scienza possano costituire mondi tra loro risonanti, ho cercato di creare forme espressive che, ispirandosi a leggi o principi scientifici, come pure a quelli contenuti in particolari opere d’arte, reinterpretassero forme e contenuti di tipo estetico.
Allo scopo di valutare se e in che modo i programmi di IA possano ri-produrre strutture analoghe, ho utilizzato una forma, derivata da un mio precedente percorso di studio: La Battaglia di San Romano, alla quale mi ero interessato in quanto quest’opera pittorica di Paolo Uccello (1397 – 1475), conservata agli Uffizi di Firenze, è costituita sulla base di conoscenze scientifiche da parte del suo autore.
In particolare è stato utilizzato ChatGPT, un modello di intelligenza artificiale sviluppato da OpenAI, che è in grado di analizzare testi e immagini, offrendo interpretazioni basate su vaste quantità di dati e algoritmi complessi; l’interazione con l’IA ha cercato di evidenziare alcuni elementi particolari: originalità, coerenza, capacità di interpretazione e comprensione contestuale.
La Battaglia di San Romano di Paolo Uccello
La struttura delle opere pittoriche originali evidenzia il sapiente uso delle leggi dell’ottica, della geometria, della prospettiva, per generare un’immagine in cui i diversi punti di fuga e le riflessioni sugli elementi circolari o ellittici, utilizzati come specchi convessi, forzano i vari elementi, lance, elmi, zampe, quasi a ruotare, inseguendosi, intorno ad un centro indefinito.
E proprio su questo ho strutturato la mia ricerca, proponendo una successione di traslazioni, rotazioni e riflessioni di una serie di elementi, sia stilizzati che riprodotti in modo esatto, estratti dell’opera di Paolo e ricombinati fra loro; il risultato mantiene ed esalta il dinamismo, il caos e l’energia della battaglia.
- Figura 1: Luciano Romoli, Dal tema della Battaglia, Piani reiterativi dissociati
- Figura 2: Luciano Romoli, Dal tema della Battaglia, Piani reiterativi in controfase
Per prima cosa è stato chiesto a ChatGPT di descrivere l’opera riportata in fig. 1, per riuscire a valutare il livello di comprensione dell’algoritmo; la risposta, oltre che a identificare i colori e il tipo di linee utilizzate, ha cercato di evocare e suggerire analogie, ma senza riuscire a identificare, ad esempio, la gamba di un cavaliere moltiplicata su di una curva circolare.
E’ stato allora chiesto, per indirizzare, il sistema, se riteneva si trattasse di una rielaborazione di un precedente dipinto; ancora una volta la risposta ha fatto evidente ricorso a ipotesi fantasiose (Kandinsky, Mondrian, artisti del Bauhaus o del movimento futurista), ma ipotizzando addirittura che non si possa trattare della reinterpretazione di un dipinto famoso ma di un’opera originale.
Un ulteriore tentativo di “spingere” il sistema verso l’opera di Paolo Uccello è stato di proporre somiglianze con animali, ma ancora una volta senza riscontro utile; il sistema ha ipotizzato di volta in volta ali stilizzate, artigli o zampe di insetto, fiori astratti e forme tubolari non meglio identificate.
E anche il tentativo di richiedere osservazioni sullo stile non ha dato risultati migliori: il sistema ha proposto “stile astratto con influenze geometriche”, mentre per quanto riguarda la tecnica di realizzazione, oltre ad una palese autoreferenzialità “Algoritmi generativi”, ha finalmente proposto l’utilizzo di software di grafica vettoriale, magari unito a interventi diretti da parte dell’artista.
A questo punto, abbandonata la ricerca sul fronte del riconoscimento dell’opera, è stata sondata la capacità di IA di reinterpretare “La Battaglia di San Romano” nello stesso stile dell’opera di fig.1, naturalmente dopo averle proposto l’opera originale;

Figura 3: Paolo Uccello – La Battaglia di San Romano – Galleria degli Uffizi
questo è stato il primo risultato:
Figura 4: “Ecco la reinterpretazione della ‘Battaglia di San Romano’ nello stile astratto geometrico richiesto. La scena rappresenta il dinamismo e il caos della battaglia attraverso l’uso di linee intersecanti, curve e colori vivaci, principalmente in tonalità di giallo, arancione e rosso, contro uno sfondo scuro. Le forme astratte suggeriscono cavalieri, cavalli e armi, creando un effetto visivo fluido ed energetico.”
E questo il secondo, dopo la richiesta di un maggior astrattismo
Figura 5: “Ecco una reinterpretazione ancora più astratta della “Battaglia di San Romano” nello stile richiesto, con enfasi su forme geometriche e linee fluide, utilizzando colori vivaci come giallo, arancione e rosso su uno sfondo completamente nero. L’opera suggerisce il caos della battaglia attraverso linee e curve dinamiche, creando un forte senso di energia e movimento.”
Come si può notare dalle didascalie prodotte dal sistema di IA e riportate fedelmente, c’è una riproposizione degli stessi concetti, magari utilizzando sinonimi, ma senza in alcun modo chiarire il senso di quanto prodotto; per esemplificare, la figura successiva è stata generata dopo aver fatto osservare che non sono più percepibili gli elementi fondamentali, cavalli e lance.
Figura 6: “Ecco una reinterpretazione astratta della “Battaglia di San Romano” che mantiene i simboli di cavalli e lance, integrandoli nel design astratto. L’opera utilizza forme geometriche e linee fluide con colori vivaci su uno sfondo nero, suggerendo il caos della battaglia e creando un forte senso di energia e movimento. Le figure dei cavalieri, dei cavalli e delle lance sono presenti ma stilizzate, integrandosi armoniosamente nell’insieme astratto”.
E ancora, chiedendo di rielaborare il tutto utilizzando il simbolismo:
Figura 7: “Ecco una versione ancora più astratta della “Battaglia di San Romano”, con simboli di cavalli e lance rappresentati in modo più stilizzato. Le forme dei cavalli sono suggerite attraverso semplici linee e curve, mantenendo un forte senso di movimento ed energia, con colori vivaci su uno sfondo nero. Questo approccio astratto enfatizza il dinamismo della battaglia attraverso un simbolismo geometrico e fluido”.
Risulta evidente, quindi, come l’algoritmo di ChatGPT non sia riuscito a realizzare una vera astrazione dell’opera, pur riuscendo ad ottenere un risultato accattivante. In effetti, gli elementi significativi, cavalli, cavalieri, armi, sono rimasti essenzialmente invariati, subendo solo un cambiamento nei colori.
Il risultato offerto da queste immagini richiama, in certa misura, il Futurismo di oltre cento anni fa, ma solo apparentemente e senza nessuna connessione con il progetto che gli artisti di allora cercavano di sviluppare.
Conclusioni
In definitiva, per riconoscere come “originale” un contributo artistico generato da programmi di intelligenza artificiale occorre, a mio avviso, analizzare quali sono stati i processi di pensiero che hanno contribuito, nel corso delle storia, a generare le forme dell’arte; perché è la filosofia a monte che plasma i concetti sui quali l’artista trova i propri canoni espressivi. Come sosteneva Bertrand Russell nel suo saggio “I problemi della filosofia”: “La filosofia va studiata non per creare risposte precise alle domande che essa pone, perché nessuna risposta precisa si può di regola conoscere, ma piuttosto per amore delle domande stesse; perché esse ampliano la nostra concezione di ciò che è possibile, arricchiscono la nostra immaginazione e intaccano l’arroganza dogmatica che preclude la mente nella speculazione.”
In particolare è interessante ricordare l’evoluzione che è avvenuta, nell’ambito della ricerca artistica, nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, raffrontandola con le nuove visioni dell’esistenza derivate dalle teorie scientifiche che hanno rivoluzionato il posto dell’uomo nel mondo.
Lo storico dell’arte Hans Sedlmayr individua un significativo processo di trasformazioni delle arti figurative alla fine del diciassettesimo secolo, quando lo scopo della espressione artistica si stacca dalla rappresentazione di un mondo collegato al divino e ad una natura unita al mondo:“… le arti cominciano a estraniarsi l’una dall’altra. I vari campi della creazione artistica tendono a divenire, ognuno nel proprio ambito, autonomi, autarchici, assoluti e a rappresentare se stessi in completa purezza, purezza che viene addirittura sentita come un postulato etico”. Quella discontinuità che il filosofo e psichiatra Karl Jaspers descrive come “la mancanza di un limite sicuro costituito da un Tutto”.
Secondo Sedlmayr, infatti, “l’uomo ha perduto il suo centro”, ovvero, “intelletto e sentimento, intelletto e istinto, fede e sapere, cuore e testa, anima e spirito vengono violentemente scissi gli uni dagli altri e si dichiarano avversari. Il desiderio di tenerli uniti, e anche la moderazione, vengono banditi, perché considerati come un sintomo che denota tiepidezza.”
L’uomo ha dunque perduto il suo centro, quello stesso centro da cui le teorie di Albert Einstein hanno spodestato i modelli assoluti della filosofia naturale per renderli veri e differenti per ogni singolo osservatore. Lo spazio e il tempo sono relativi, e ogni frammento di materia modifica lo spazio intorno a sé; la luce diventa il limite a cui tende ogni moto nell’universo.
E come ogni cambiamento della visione del mondo viene sempre generato dalla filosofia, così pure i nuovi modi di fare arte, apparsi alla fine del precedente millennio, denotano la ricerca di nuovi centri, di nuovi punti di riferimento.
Nascono così i movimenti di avanguardia, cambiano i temi, da quelli divini dell’arte sacra diventano prevalenti quelli riferiti alla natura, all’immagine del mondo suggerita dalla scienza, alla scomposizione delle forme in moduli astratti, dove il concepire si sostituisce al vedere. La rappresentazione formale perde sempre più il carattere mimetico, per inseguire quegli stimoli individuali che ogni artista esprime con i tratti che lui ritiene essere significanti.
Slides (a cura di Luciano Romoli)
Diventano, in questo modo, più complessi e meno naturali l’apprezzamento estetico della forma e il concetto stesso di bellezza come elemento di risonanza tra l’artista e il fruitore dell’opera d’arte. In questo senso, già alla metà del diciannovesimo secolo, nelle “Lezioni di estetica”, Friedrich Hegel affermava la morte dell’arte. L’arte perde cioè la sua funzione all’interno della storia e, come il Dio di Zaratustra, non è più portatrice di verità, come ha ulteriormente specificato Massimo Cacciari: “La fine dell’arte deve essere intesa solo come fine della rappresentazione artistica tradizionale e nascita di una nuova rappresentazione artistica, nella quale il primato è assunto dal concetto. La nostra epoca, pertanto, è segnata non dall’arte, ma dalla rappresentazione intellettuale, e il primato è diventato quello del sapere filosofico e scientifico, primato che viene riconosciuto dall’arte stessa”.
Rimane, in ogni caso, centrale il rapporto fra il concetto di “bellezza” e quello di “estetica”che, secondo Immanuel Kant, rimangono due entità distinte”; la bellezza non è un oggetto o una qualità;è piuttosto un’esperienza derivata dalla formulazione di un giudizio specifico, che il filosofo di Königsberg ha definito giudizio di gusto.
Il senso della bellezza, quindi, è l’insieme delle sensazioni emozionali di piacere provocate dall’osservazione di una forma da parte di un soggetto, e tale senso si sviluppa prescindendo dalla conoscenza specifica dell’oggetto rappresentato.
In altre parole “l’estetica”, secondo Kant, riguarderebbe l’esperienza del bello, mentre “la bellezza” sarebbe un giudizio, che dunque esprime una relazione con il soggetto percepente. La fruizione dell’opera d’arte passerebbe, pertanto, attraverso questo meccanismo che l’artista impiega per comunicare la propria visione del mondo.
Quanto affermato evidenzia, quindi, due specifici aspetti coinvolti nella creazione artistica, aspetti che devono essere tenuti presenti nel valutare un processo algoritmico inteso a fare arte, o a emulare la creazione di opere d’arte; il pensiero filosofico, presente a monte, e il rapporto fra rappresentazione e fruizione dell’opera.
In altre parole, se l’intelligenza artificiale fosse in grado di produrre un’opera d’arte, risulterebbe interessante valutare il tipo di relazione che si instaura tra il fruitore dell’opera e “ciò” che ha generato la forma artistica. Quale sarebbe, quindi, il contenuto che l’artista virtuale, il programma di intelligenza artificiale, vuole o è in grado di comunicare al soggetto fruitore?
Rimane comunque irrisolto il senso estetico che prova l’essere umano nella fruizione dell’opera d’arte. Quel senso che Nietzsche aveva riconosciuto nella “bellezza” quando si rappresenta una perfezione che si riflette sull’uomo, mentre nella “bruttezza” quando l’arte esprime la degenerazione delle caratteristiche umane, il tramonto dell’uomo.
Infine, c’è un ultimo aspetto da considerare: nella genesi “umana” dell’opera artistica, l’aspetto “realizzativo”, pur essendo parte integrante della rappresentazione, costituisce un aspetto temporalmente successivo a quello del “concepimento”; in altre parole l’artista sviluppa la propria idea e solo quando essa si è formata, almeno nei suoi elementi essenziali, procede alla realizzazione, durante la quale ha ancora la possibilità di intervenire per esprimere ulteriori elementi sensibili nel frattempo sopraggiunti; e nondimeno l’”opera” finita risente del percorso sviluppato dal faber; proprio quel’intelligenza artificiale trova un altro dei propri limiti, poiché la genesi “meccanica” dell’opera artistica riguarda simultaneamente – o almeno così viene percepito dall’osservatore umano che non può avvertire intervalli di tempo così minuscoli – e in modo interattivo, sia l’aspetto concettuale che quello sensibile, non disgiunti da quello estetico e da quello realizzativo, creando di fatto uno iato evidente rispetto alla creazione “umana”, per lo sviluppo della quale il programma automatico non possiede – e non può possedere – gli elementi.
Questo non può e non deve sorprenderci; l’intelligenza artificiale attiene al mondo della tecnica, con gli aspetti positivi e quelli negativi che ne conseguono. Giusto per esemplificare, in linea di principio un algoritmo di Levenberg-Marquardt (LMA) – un algoritmo di ottimizzazione iterativo per la soluzione di problemi non lineari – si comporta come una “vecchia calcolatrice digitale” che richiede una specifica istruzione e una conduzione umana verso il proprio fine di calcolo. I connotati della prevedibilità e della calcolabilità sono quelli della “macchina pensante” (Denkmaschine) di Heidegger, che però non può fare a meno del mondo-della-vita (Lebenswelt), dove le procedure algoritmiche attuano funzioni specifiche ma senza comprendere, per proprio limite, il senso umano per cui le operazioni vengono compiute.
Il filosofo e psicologo Umberto Galimberti ha sostenuto che “Avvertire la distanza che esiste tra il mondo-della-vita e il mondo digitale non significa delegittimare l’intelligenza artificiale, ma non smarrire la singolarità e la specificità che caratterizza ogni vita umana e in generale tutto ciò che di essa non è traducibile in un algoritmo.”
In conclusione, come rimangono da interpretare compiutamente, sotto la voce di “intelligenza”, i caratteri decisionali che appaiono in tutte le specie viventi, a partire dai batteri, o quelli presenti nei comportamenti di comunità di animali, quali le formiche o le api, che presentano un comportamento teleologico teso ad adottare le azioni appropriate per aumentare le probabilità di successo nei propri habitat, così, alla stessa stregua, rimane una grande incognita quello che potrà essere lo sviluppo futuro delle caratteristiche dei programmi basati su modelli di linguaggio.
A tal proposito ritengo sia utile richiamare ulteriormente, con le parole di Claudio Strinati, un altro aspetto della genesi dell’opera d’arte nei “…meccanismi costanti e in apparenza elementari della mente, primo fra tutti il sogno, che è una delle primissime esperienze provate dall’essere vivente ben prima di acquisire la competenza linguistica. L’immagine, perché tale è prioritariamente il sogno, ha quindi una preminenza antropologica nel meccanismo del pensiero. L’arte è strumento di visione e di conseguente esaltazione dei sensi.”
Il sogno ispiratore della mia ricerca è stata l’esplorazione fra arte e scienza, il concepimento dell’idea che forme astratte, rappresentative di principi della scienza, potessero costituire modi di rappresentare i profondi legami che uniscono i due mondi, e che le suggestioni estetiche delle une costituissero sorgente di immaginazione per le altre. Avendo verificato, nel corso del tempo, quanto abbiano pesato, in questo tipo di percorso, gli stati emotivi oltre alle specifiche conoscenze tecniche, sono sempre più convinto che una intelligenza artificiale non possieda le caratteristiche fondamentali per produrre un’opera che si definisca “arte”, ma che possa solo esprimere un – comunque interessante – virtuosismo grafico o linguistico. Kandinskij sosteneva che “La creazione di un’opera è la creazione del mondo”, ma per costruire un mondo bisogna per prima cosa essere consapevoli del mondo stesso.
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