La corale epopea  dei cafoni marsicani, approdata con tutta la sua forza evocativa su quella immensa parete metamorfizzata da Alleg e dalle altre due co-autrici in una monopagina dell’intero romanzo, rivive così con tutta la sua intatta energia fabulatoria

di Antonio Gasbarrini

Nel continuo farsi e disfarsi della viva lingua dell’arte, anche le parole atte a designare uno stile, una tecnica,

una poetica, possono cambiare di senso e non rappresentare più, compiutamente, ciò che in origine delimitava la loro specificità semantica.

Tra di esse, una particolare attenzione merita il lemma “murales”, che stando ad una delle più affidabili enciclopedie, la Treccani, viene così definito: «Rappresentazioni pittoriche di scene per lo più d’ispirazione socialpopolare, talvolta con intenti politici, eseguite, anche a più mani, su muri, facciate di edifici, grandi pannelli di materiale vario, in genere posti in luoghi aperti. Nei m. la semplicità, spontanea o voluta, del tratto, insieme con la vivacità dei colori, crea un effetto di grande immediatezza visiva».

Erede diretto della pittura ad encausto e di quella “a fresco”, il murales viene sempre più utilizzato quale intermediario visivo ideologico: a supporto di una causa rivoluzionaria (Messico, con i vari Siqueiros, Orozco e Rivera) o al completo servizio di una dittatura (Sironi, autore tra l’altro del Manifesto della pittura murale).

Nei tempi a noi più vicini, una sostanziale mutazione genetica si è avuta con l’avvento della “Street Art”, quasi sempre illegale e clandestina a causa del suo privilegiato rapporto con edifici pubblici. Caratterizzata, ora, dalla velocità della nottambula esecuzione e dalla denuncia iconica sui muri, appunto, delle varie sollecitazioni creative scaturite dalle rivolte giovanili e dai disagi sociali vissuti dalle popolazioni sopratutto nelle periferie metropolitane.

Ben altra genesi, con un forte impatto visivo, ha avuto il murales Fontamara realizzato a sei mani e varie voci nel paesino marsicano di Aielli dalle tags Alleg (l’artista Andrea Parente ideatore e regista dell’intera operazione) e le altre due giovani collaboratrici Sbrama e Ema Jones.

Le non-ingiallite pagine di uno dei massimi capolavori della letteratura italiana ed europea della prima metà del Novecento, il siloniano romanzo Fontamara, sono così affluite lentamente, molto lentamente – parola dopo parola e segni d’interpunzione – su una superficie murale rettangolare di circa 100 metri quadrati e con un’altezza di 5-6 metri ca. affrontata “pittoricamente”, nelle parti non raggiungibili con le mani, “dipingendo il testo” dopo essersi arrampicati su un’apposita impalcatura. Già le modalità di esecuzione, con la continua presenza dei tre artisti e una o più voci recitanti che trasmettevano il contenuto tipografico del romanzo da trascrivere sulla superficie parietale, è stata di per sé, una esperienza unica: sia per i protagonisti di una inusuale performance (di fatto) durata più o meno un mese, che per i coinvolti astanti.

E, se a murales finito, la lettura del romanzo è diventata fattibile fino ad una certa altezza, per le parti più inaccessibili alla vista – data la distanza ed il corpo contenuto della scrittura – occorrerà munirsi di un apposito binocolo. Per leggere o rileggere, sulla sommità, a sinistra, l’incipit (presentazione) scritto nel sanatorio di Davos (1929) da Ignazio Silone mentre da rivoluzionario comunista era in esilio in terra Svizzera, esilio che durerà ben quindici anni, conclusosi con il suo definitivo rientro a Roma dove vivrà con la moglie inglese Darina Laracy fino all’ultimo dei suoi provvisori giorni terrestri (22 agosto 1978):

«Gli strani fatti che sto per raccontare si svolsero nel corso di un’estate a Fontamara. Ho dato questo nome a un antico e oscuro luogo di contadini poveri situato nella Marsica, a settentrione del prosciugato lago di Fucino, nell’interno di una valle, a mezza costa tra le colline e la montagna. In seguito ho risaputo che il medesimo nome, in alcuni casi con piccole varianti, apparteneva già ad altri abitati dell’Italia meridionale, e, fatto più grave, ho appurato che gli stessi strani avvenimenti in questo libro con fedeltà raccontati, sono accaduti in più luoghi, seppure non nella stessa epoca e sequenza. A me è sembrato però che queste non fossero ragioni valevoli perché la verità venisse sottaciuta. Anche certi nomi di persone, come Maria Francesco Giovanni Lucia Antonio e tanti altri, sono assai frequenti; e sono comuni a ognuno i fatti veramente importanti della vita: il nascere, l’amare, il soffrire, il morire; ma non per questo gli uomini si stancano di raccontarseli. Fontamara somiglia dunque, per molti lati, a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori delle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri. Ma Fontamara ha pure aspetti particolari. Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici […]».

Reportage (a cura di Diocleziano Giardini)

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La corale epopea  dei cafoni marsicani, approdata con tutta la sua forza evocativa su quella immensa parete metamorfizzata da Alleg e dalle altre due co-autrici in una mono-pagina dell’intero romanzo – interamente captabile con un sol colpo d’occhio – rivive così con tutta la sua intatta energia fabulatoria. A distanza di oltre ottant’anni dalla seconda edizione (la prima è del 1933) in lingua tedesca, illustrata con le xilografie dell’artista espressionista Clément Moreau, con lo pseudonimo di Karl Meffert è avvenuto che, per la prima volta nella storia dell’arte moderna e contemporanea, l’oraziana “Ut pictura pöesis”, ha trovato secondo noi, una delle più riuscite incarnazioni. La perfetta fusione tra scrittura e pittura – così come avveniva nei sacrali codici miniati, peraltro chiamati in causa con i graficizzati capilettera di ogni capitolo – ottenuta con la sostituzione della penna d’oca e degli inchiostri degli amanuensi con il pennello ed un colore acrilico ben resistente alle prevedibili aggressioni atmosferiche, esalta, poi, la godibilità delle due discipline ricondotte magicamente ad unità. Una unità, vale qui la pena di sottolinearlo, già pre/figurata da Silone e dai suoi Fontamaresi con la redazione, sempre manuale, del loro giornale eversivo (per la dittatura fascista) Che fare?, “effigiata”  con questa inedita scrittura-immagine, nella parte bassa del murales:” […] Noi avevamo innocentemente piazzato la scatola sul tavolino di Marietta, in mezzo alla via, e attorno a essa discutevamo sul giornale da fare, una diecina di persone come ho già detto. Era una stranezza e non ci rendevamo conto.C’era Maria Grazia, che aveva la calligrafia più chiara e avrebbe dovuto scrivere il foglio. C’era Baldissera che conosceva la grammatica e gli apostrofi. C’era Scarpone, al quale il Solito Sconosciuto aveva spiegato il funzionamento della scatola.

La prima discussione l’avemmo sul titolo da dare al giornale. Baldissera voleva un titolo di quelli come si usano in città: “Il Messaggero”, “La Tribuna”, o qualcosa di simile. Ma Scarpone, che aveva ereditato le maniere di Berardo, gl’impose di tacere.«Il nostro non è un giornale imitazione. Prima dì questo non è uscito nessun altro giornale» decise Scarpone.

Michele propose un buon titolo: “La Verità”, che voleva dir molto. Ma Scarpone arricciò il naso: «La verità?» disse. «Chi conosce la verità?» «Non la conosciamo, ma vogliamo conoscerla» rispose Michele.«E quando l’avrai conosciuta» gli rispose Scarpone «con la verità ci farai il brodo?» Era questo il suo modo di ragionare.

Losurdo ebbe anche una buona idea: “La Giustizia”. «Ma tu sei pazzo» gli osservò Scarpone «se la giustizia è sempre stata contro di noi!» Da noi la “giustizia” ha sempre significato i carabinieri. Avere a che fare con la giustizia, ha sempre significato avere a che fare con i carabinieri. Cadere in mano alla giustizia, ha sempre significato cadere in mano ai carabinieri. Dunque non era il caso.

«Ma io intendo la vera giustizia» rispose inviperito Losurdo. «La giustizia uguale per tutti.» «Quella la troverai in paradiso» decise Scarpone.

Cosa gli si poteva rispondere? Marietta propose come titolo del giornale: “La Tromba dei Cafoni”. Ma nessuno discusse la sua proposta.

«Che fare?» disse Scarpone.«Dobbiamo fare il titolo» gli rispose Marietta. «Fa anche tu una proposta.» «La mia proposta l’ho fatta: “Che fare?” » Ci guardammo in faccia sorpresi.

«Ma non è un titolo» si azzardò a osservare Baldissera. «Non è un titolo. Noi abbiamo bisogno d’un titolo da scrivere in testa al giornale, capisci? Con bella calligrafia, capisci?» «Ebbene, scrivici in testa al giornale, con bella calligrafia: «Che fare?» rispose Scarpone. «E così sarà un titolo.» «Ma è un titolo che farà ridere» obiettò ancora Baldissera. «Se una copia del nostro giornale arriverà a Roma, chiunque lo vedrà si metterà a ridere.» Scarpone s’infuriò. Il giornale doveva essere un giornale di cafoni, il primo giornale dei cafoni. Un giornale scritto a mano. Tutto ciò che potevano pensare a Roma gli era indifferente. Baldissera finalmente si convinse. Fu dunque approvata la proposta di Scarpone. Mentre Maria Grazia si mise a scrivere il titolo del giornale, si passò alla discussione sul primo articolo […]».

Preservare l’indiscussa Bellezza di quest'”opera unica”, soggetta ad ogni forma di violenza atmosferica data la sua immanente presenza all’aperto, non sarà facile. Le prevedibili abrasioni testuali non ne inficeranno una partecipata fruizione. Perciò, occorrerà tutelarla e salvaguardarla al meglio. Come?: con l’integrale ripresa digitale delle sue nitide righe: e perché no!, con la sua fattibile edizione cartacea e in formato e-book di una delle più avvincenti storie partorite dall’etico universo siloniano. Nel frattempo che questa proposta un po’ visionaria si concretizzi, andare al cospetto di un’autentica Opera d’arte qual è il murales di Fontamara, “indugiando” con lo sguardo (Gadamer) su questo o quel passo di una ringiovanita scrittura dipinta che ridà fiato alla fantasia e nuovo slancio al pensiero, è un kantiano imperativo categorico.