I colori del cielo di Francesco Mazza [capitano Achab] è qualcosa che non ha nulla a che fare con il documentario o il film-inchiesta… forse anche con il docu-film…
di Pino Bertelli
“Pensiero meridiano vuol dire fondamentalmente questo: restituire al sud l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri. Tutto questo non vuol dire indulgenza per il localismo, quel giocare melmoso con i propri vizi che ha condotto qualcuno a chiamare giustamente il sud un «inferno». Al contrario un pensiero meridiano ha il compito di pensare il sud con maggior rigore e durezza, ha il dovere di vedere e combattere iuxta propria principia la devastante vendita all’incanto che gli stessi meridionali hanno organizzato delle proprie terre.
In questa vendita all’incanto, in questo assalto volgare e trasformistico alla modernità si sono venute affermando le due facce oggi dominanti del sud: paradiso turistico e incubo mafioso… l’antica spinta egalitaria è affogata nell’anomia generalizzata, nella perdita di riferimento ad un’altra vita… bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo… invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada”.
Franco Cassano
I. Sui cortigiani della macchina/cinema (dissolvenza in apertura)
Per cominciare, come anche per concludere. L’arte di strisciare dei cortigiani nella macchina/cinema è connaturata con il successo al botteghino, il tappeto rosso, i premi Oscar e la stupidità generalizzata degli spettatori… che mediamente hanno una capacità di apprendimento quanto quella di un bambino di dieci anni (Buster Keaton, Erich von Stroheim, Orson Welles, Pier Paolo Pasolini e anche mia nonna partigiana, a ragione, dicevamo) (1). Il cinematografo è la più grande buffonata mai stata inventata (dopo le religioni monoteiste) per educare le masse alla genuflessione… gli artisti che ci sguazzano dentro (insieme a critici, storici, insegnanti, imbecilli a tutto campo che parlano di cinema senza avere piena coscienza di ciò che hanno visto e, più ancora, di quello che hanno scritto sulla sacra sindone dello schermo), esprimono il fascino superficiale del ballo in maschera e perpetuano la farsa dello spirito mercantile dell’universo cinematografico.
I buoni cortigiani della macchina/cinema (specie hollywoodiana, che è solo l’impronta replicata della banalità del cinema-merce di tutto il mondo) sanno bene che “un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale, ma solamente quella del padrone o del ministro…
Un buon cortigiano non deve mai avere ragione, non è in nessun caso autorizzato ad essere più brillante del suo padrone… Deve tenere ben presente che il Sovrano e più in generale l’uomo che sta al comando non ha mai torto” (Paul Heinrich Dietrich, barone d’Holbach (1723-1789) (2). La bellezza, la verità, la giustizia e l’insulto anarchico contro i macellai delle passioni struccate è incompatibile con la meschinità della macchina/cinema. Chi conosce la forca non sempre sa fare il cinema, e chi fa il cinema non conosce la forca, anche se spesso la meriterebbe!
Il cinema di poesia, dell’autentico, di resistenza o d’insubordinazione esiste a margine della macchina/cinema ed esprime la necessità di rovesciare le istituzioni esistenti per fondare una nuova società di uomini liberi e promuovere la pubblica felicità. Gli esempi li fanno i plotoni di esecuzione, i boia della chiesa e gli sbirri dello stato… i grandi film, come i grandi libri, secondo l’espressione di Nietzsche, sono dinamite (3) con la quale si può minare alla radice un’epoca per renderla umana, più umana. Ogni illusione è santa, poiché ogni massacro dell’intelligenza è vero! L’esortazione dei governanti, dei preti, dei militari, degli artisti alla compiacenza significa sacralizzare il fetore dei salotti televisivi… coltivare le apparenze…universalizzare la stupidità a favore delle regole del gioco imposto… una pochezza senza rimedio si affaccia al di là delle briciole di umanità sparse nei trattati internazionali di pace… ogni promessa elettorale delle democrazie consumeriste e le imposizioni autoritarie dei regimi comunisti a favore del “progresso”, implicano una sommatoria di rovine e il tramonto dell’umanità nel ridicolo.
Anche il cinema è da distruggere (4), tuonava prima e dopo la rivoluzione dei sorrisi sfrontati del ’68, Guy Debord, il filosofo del rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato…insieme alla bandiglia dei situazionisti che avevano fatto da detonatore alle occupazioni delle università, agli scioperi dei lavoratori, alle barricate nelle strade di Parigi… invitavano a passare dalla vita quotidiana all’arte (e viceversa), a rivoluzionare i desideri e i sogni, a realizzare la libertà iniettandola nel reale, a promuovere un urbanesimo ludico e attraverso la critica radicale del cinema, della televisione, della pubblicità, dei partiti, dei rivoluzionari di professione…si lasciavano andare alle più sprezzanti invettive contro i produttori dell’immaginario assoggettato. Il genio collerico della rivolta dei situazionisti si esprimeva al meglio con la grammatica del sampietrino e metteva fine alle costrizioni, al superamento delle sottomissioni, al godimento dei piaceri e sostituiva il rapporto padrone-servo, con la primavera più splendente (quella del ’68) mai apparsa sulla terra, dopo la Resistenza partigiana (non solo italiana) degli anni ’40. Nel ‘68 anche i vini e le marmellate vennero più buoni.
Portfolio di Pino Bertelli
La costruzione della situazioni nel cinema di Debord (Frank, Marker, Ivens, Grifi o Brocani) scardinava la mistica di sinistra e dissotterrava il ferro dei partigiani per rientrare in servizio a fianco delle giovani generazioni in rivolta… non tanto per conquistare il potere, ma per meglio distruggerlo. Le cose poi andarono diversamente… i partiti si schierarono con i padroni, le chiese, i generali, i vigliacchi, i traditori, gli untori del liberismo crescente… sconfessarono la loro storia e alzarono i patiboli sui rivoluzionari senza causa (cioè senza comitati centrali e commissari del popolo) che avevano incrinato l’ordine costituito. Le riserve d’intelligenza eversiva non sono mai esaurite… l’idiozia che riposa nei partiti come in molti strati della società spettacolare è l’espressione sentimentale dell’incoscienza come caricatura del divenire… al culmine dell’intolleranza dei partiti, gli individui sono prodighi di genuflessioni, aderiscono alle mitologie dei mercati globali e rinunciano passivamente a risvegli e rinascimenti delle minoranze effervescenti che si liberano di tutte le cristologie del “buon governo”, e con una buona dose di cinismo vibrano colpi mortali a quanti li tengono a catena. La conoscenza è l’arma con la quale gli uomini prendono coscienza della verità e mettono fine all’inganno universale. La miseria, la fame, le guerre, l’impoverimento successivo dei popoli, “la precarietà complice dell’infeudamento dei soggetti alla produzione del libero mercato dureranno finché alla violenza di questi stati di fatto, di cui si conoscono le cause, non si opporrà nient’altro che una simpatia aristotelica, una commiserazione agostiniana, una compassione spinozista o un gondoliere kantiano. L’umanesimo presuppone il congedo della politica, la scomparsa della storia a vantaggio di una lettura del reale secondo le antiche categorie della necessità, del destino, della fatalità, dell’inevitabile tragedia, dell’imprescindibile durezza. Non ci si è dunque allontanati molto dal peccato originale da espiare. Così la malvagità si vede promossa a categoria cardinale della filosofia della storia” (Michel Onfray) (5). Tutto vero. La politica del ribelle tracima in ogni aspetto della cultura, della politica, della fede… e si prende la responsabilità di uscire dalla commedia o dalla farsa dei valori e morali dominanti, anche di rompere le quinte della rappresentazione, decretare la fine delle disuguaglianze e affrancarsi al diritto della vita sulle rovine della storia. Sparate allo schermo, prima di strisciare in quella fabbrica di sogni che mortifica l’intelligenza dei poeti (6).
La magia del cinematografo è altra cosa. La menzogna hollywoodiana (e delle sue indegne emulazioni planetarie) è un simulacro spettacolare dove le puttane e le madonne, i mostri e gli eroi, la catastrofe e il lieto fine… sono parte del linguaggio sequestrato delle scimmie e i loro fantasmi si manifestano come semidei di celluloide in attesa di assurgere al più alto dei loro compiti, quello dell’istupidimento dell’immaginario collettivo. Le idee dominanti si celano (nemmeno troppo) nelle università, nelle fabbriche, nelle case, nelle strade, serpeggiano tra le genti e costruiscono bisogni e desideri… la domesticazione dell’immaginario si sostituisce al vero, al giusto, al bello, al bene comune e grazie al consenso generalizzato impone il proprio credo… il modo di apparire è anche il modo d’essere e l’ideologia imperante attiva i propri scannatoi contro quanti si oppongono all’assoggettamento dell’impero.
L’ornamento più esclusivo e partecipato degli addomesticati è la stupidità. I codici del cinema dominante sono gli stessi messi in opera nelle galere, nei manicomi o nei parlamenti, la promessa di felicità insomma che “gli ultimi saranno i primi”… e le umiliazioni saranno rimesse con i peccati, nei confessionali della storia. Sull’orlo della preghiera o nei calchi del consenso non si chiede nessuna libertà vera, ma soltanto l’illusione della libertà.
Questo perché ogni libertà, come ogni religione, “è finita quando smette di generare eresie” (E.M. Cioran). Le rivoluzioni non sono mai state attuali, pretendevano di rovesciare il potere con gli stessi mezzi. La rivoluzione, come la volgarità, è contagiosa, specie nei momenti in cui i rivoluzionari di professione hanno già venduto l’entusiasmo dei loro sostenitori al miglior offerente. La delicatezza non fa parte dei comitati centrali di qualsiasi ordine, solo in punto di morte i fanatici del potere si rendono conto della loro inutilità, ma i mostri che hanno partorito sono già ascesi alla gloria dei cleri e dalle segrete delle banche hanno appestato i banchi del sapere, contaminato gli asili pubblici, oliato la lama della ghigliottina economica… e senza un filo di nobiltà hanno eretto il dogma del mercato globale.
I morti non si contano più. La vendita di armi sì. La Borsa internazionale accomuna gli scempi del progresso alle vacanze degli operai. I bambini si possono uccidere, vendere, stuprare…basta un poco di riservatezza. I prezzi sono buoni. Ci sono tanti padri di famiglia, timorati di Dio e dello Stato, che non sanno rinunciare alla tentazione di violare una bambina, specie se nera, ma vanno bene anche asiatiche, russe, bosniache… occorre soltanto un paio di dollari.
È la stessa gente che chiede il rigore, la serietà, la coerenza ai parlamentari che crede di eleggere, porta i vessilli nelle parate militari, impalma la politica della rapina pubblica… e non trova nemmeno il coraggio di mortificarsi delle proprie tenebre o di spararsi un colpo in bocca.
Non ci sono governi buoni né governanti che non siano ladri di bellezza.
La poesia magica del cinematografo (anche nei film più consumati) emerge là dove il fantastico dà vita a visioni diverse e non omologate all’ordine del discorso. Soltanto il fantastico e il poetico senza misure può suscitare lo sdegno per una quotidianità completamente razionalizzata, ordinata, tesa ad addormentare l’intelligenza e le coscienze critiche di un pubblico che la macchina/cinema considera semplicemente imbecille… è nella messa a morte dell’assurdo e dell’improponibile da Oscar che il pensiero creatore illumina se stesso e permette l’incontro tra il desiderio e l’inatteso, la passione e il sogno e rende possibile l’impossibile e lo sconosciuto reale. Ciò che non inorridisce l’anima è il cinema della sovversione o poesia della bellezza. Un cinema di poesia o di bellezza vale quanto una rivelazione… la stupidità vede ovunque consensi e successi, la passione e l’intelligenza, pretesti e violazioni dei diritti dell’uomo. Con la caduta degli idoli cadono anche i vocabolari impigliati nei merletti… le parole, le immagini, i comportamenti… seguono lo stesso destino degli imperi… prima o poi affogano nella merda dalla quale sono usciti… ai glossatori di certezze della partitocrazia succedono le canaglie che fanno insolenza di pensare (non solo di agire) della civiltà disingannata e si comincia a comprendere l’arte di gioire.
II. I colori del cielo (dissolvenza incrociata)
Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa — non importa ch’io vi dica quanti — avendo poco o punto denaro in tasca e niente che particolarmente m’interessava là dove vivevo (7)… sono andato a girovagare in terre di briganti… lì ho conosciuto una sorta di capitano Achab che diceva: “Sia gioia, intima gioia, a colui che contro gli dèi e i commodori superbi di questa terra oppone sempre il suo inesorabile se stesso” (8). Era gradevole, intelligente quanto un arpioniere di balene bianche senza tatuaggi… un cittadino del cielo… ci siamo intesi subito… così abbiamo pensato d’imbarcarsi su una nave fantastica (il Pequod, una vecchia auto rossa con la radio sempre accesa sui bollettini di guerra metropolitana) e navigare tra terre, monti e mari di Calabria e fare un film e un libro fotografico con i calabresi… della ciurma facevano parte anche Anna Maria, secondo ufficiale del Pequod e Paola, una figlia della Tortuga, che fumava la pipa… in fondo, dissi — “Siamo uomini nel mondo, non del mondo” — e partimmo. Non è stato facile… abbiamo affrontato venti avversi… boschi in fiamme, laghi asciutti, mari deserti… e incontrato tribù che cucinavano tenerezza e accoglienza… il vino ci ha accompagnato in tutte le nostre rotte e i canti delle lavandaie hanno scaldato i nostri sogni di fraternità e uguaglianza… anche davanti ai brutti ceffi che volevano affondare la “nave” non abbiamo avuto paura e senza il timore di dio né del diavolo abbiamo continuato a navigare sulle nostre rotte sconosciute… ci sono state anche battaglie a viso aperto con i mostri di queste terre o cieli o mari profondi… ribelli per vocazione, marinai che fecero l’impresa, siamo sopravvissuti al naufragio nell’asciuttezza dei nostri sospiri estremi! L’epilogo: ne è uscito un libro fotografico e un film del tutto personali… del tutto fuori dai cimiteri del consenso e del successo, e più ancora, ne siamo certi, sono opere non dell’oggi né del domani, ma dell’immaginario del nostro scontento che diventa destino. Ma è del film del capitano Achab che vi voglio ora parlare… con una coppa di vino in mano, un sigaro all’anice e il canto dei gatti in amore sui tetti della città di utopia. Sia lode ora a uomini e donne di chiara fama.
I colori del cielo di Francesco Mazza [capitano Achab] è qualcosa che non ha nulla a che fare con il documentario o il film-inchiesta… forse anche con il docu-film… è una sorta di pamphlet o saggio cinematografico piuttosto anomalo… riprende le radici architetturali delle opere di Straub, Brocani, Pasolini… tanto per fare qualche nome (anche riconosciuto)… e affabula una cartografia dell’esistenza nel trapasso delle ideologie, delle fedi, dei conformismi criminali, anche… alla maniera della bandiglia situazionista (credo) il regista elabora una costruzione delle situazioni in terra di Calabria — ma a ben vedere oltre il tessuto emozionale delle persone che s’interrogano (e rispondono) sulle poche parole di un fotografo di strada (che incidentalmente siamo noi, Ismaele) — dette anche in maniera un po’ dialettale o selvatica… figurano spaccati profondi della loro storia e della loro vivenza. Quello che ne sortisce è un trattato di filosofia etica, non morale… l’etica segue il principio edonista della maggiore felicità per il maggior numero (Epicuro), la morale è una maledizione o una dottrina dell’abbandono che stati, chiese e banchieri prediligono per la domesticazione sociale.
I colori del cielo riparte da Comizi d’amore di Pasolini, certo, riprende lo sconcerto e l’incanto di Pasolini nei confronti del sud e della Calabria, principalmente… ma si chiama fuori, come si è già detto, dal film-inchiesta pasoliniano… quello di Mazza è un rizomario di atti senza apostoli, elaborati fuori dalle preghiere raccomandate o un portolonano di emozioni disseminate su secoli di lacrime e sangue innocente versati tra l’inedia e il gemito di un popolo di antiche culture e profonde bellezze (sovente sfigurate dalla ferocia del malaffare, della politica, della chiesa)… nelle parole dei calabresi però non affiora solo l’incertezza, la paura, il dissidio o il rispetto verso una fatalità ereditaria… nel non detto o appena accennato o nella rabbia rimasta in gola si scorgono forme di saggezza plebea e di liberazione necessaria… e non c’è da stupirsi che l’ultimo dei vagabondi o degli analfabeti valga più dei “dotti” che fanno professione di pensare… poiché la sfera della coscienza affiora sui corpi, volti, gesti degli intervistati come crescono le rose di campo… così, senza una ragione precisa, per volontà di una gioia terrena che si fa bellezza dei giorni… e approdano all’universale.
Nelle parole, negli sguardi, nelle posture grecaniche dei calabresi filmati da Mazza c’è un coinvolgimento sapienziale che si aggrappa alla radicalità dell’uomo alla sua terra… Ismaele, che si aggira nelle strade di Calabria e incontra centinaia di persone, le fotografa secondo una visione antropologica del vissuto quotidiano, spesso piuttosto sgangherata o inopportuna per le scuole di fotografia… è una sorta di viandante delle stelle o un bracconiere di sogni che il regista filma con determinazione e pervicacia a ricordo dei fotografi ambulanti americani, quando fissavano sulle lastre la magnificenza di un popolo, quello dei pellerossa, destinato al genocidio dall’avanzare della modernità. In apertura di un grande film western, Gli implacabili (1955) di Raoul Walsh, interpretato magistralmente da Clark Gable, Jane Russell, Robert Ryan, Cameron Mitchell (un po’ troppo infarcito di canzoni), Gable e il fratello, Mitchell, affiorano dal fondo della prateria… vedono un uomo impiccato ad un albero e Gable dice al fratello: “Siamo vicini alla civiltà!”. Non c’è differenza tra i sogni di un macellaio e quelli di un banchiere. Il valore di ogni uomo si misura nel valore dei suoi disaccordi! Siccome viviamo nel bel mezzo di terrori eleganti, si può benissimo passare dall’oblìo dell’uniformità all’onorabilità della rivolta (quale che sia), la più ancestrale delle nostre vitalità.
I colori del cielo è una catenaria di popolo calabrese che Mazza (anch’esso di questa terra) sfiora con la cinecamera… sottolinea l’originalità dei tratti, la fermezza e anche l’arroganza degli sguardi… frammenti di Calabria sono intermezzati con le camminate di Ismaele (a dire il vero sembra più un clochard che un fotografo-marinaio) e le persone prese nella loro nudità quotidiana… tutti hanno eguale dignità e libertà d’espressione… rispondono con franchezza o imbarazzo o maldestramente a poche domande sulla famiglia, sull’omosessualità, sul malaffare, le migrazioni, sui giovani in fuga dalle loro città… le speranze o le delusioni che li fanno tremare di fronte all’assenza storica delle istituzioni… sopportano o evadono come possono (anche nell’assurdità del male) gli effetti della tirannide politica che ha una risposta per tutto, purché tutti siano gettati nel giogo della protezione… c’è anche chi trova la forza di dire che l’abbattimento dei “protettori” porta con sé il crollo della ragione imposta.
Un’annotazione fuori margine. Il dittico film-libro I colori del cielo — Genti di Calabria… non è cosa molto comune nella storiografia fotografica — filmica… mentre si conoscono opere di grande bellezza fattuale che hanno intrecciato libri e fotografia… ad esempio Dorothea Lange — Paul Taylor (An American Exodus: A Record of Human Erosion); James Agee — Walker Evans (Sia lode ora a uomini di fama); John Berger — Jean Mohr (Il settimo uomo)… non sono molti i film-atlanti fotografici di un certo rilievo che hanno cercato di scrostare la ruggine della storia con una certa disperata vitalità… e aspirano a scendere fino alle radici delle cose senza praticare il vezzo dei santi… a infrangere i propri limiti, appoggiati ai venti d’inquietudine del pensiero meridiano.
Ismaele, dice… nel nostro atlante di geografia umana (9), abbiamo scavato a fondo nella filosofia del pensiero meridiano: “La fotografia del pensiero meridiano è una filosofia della migrazione, dell’accoglienza, della fraternità, della condivisione e figura percorsi della contraddizione, della bellezza, della grazia nel mare in mezzo alle terre… è una cartografia di corpi in amore che cercano qualcuno che li accetti, porga loro vestimenti, spezzi il pane insieme ai loro bambini e più di ogni cosa che apra le porte della convivenza reale, pacifica tra gli uomini e le donne della terra. La fotografia meridiana fuoriesce da un’etica del comportamento, da un’estetica antropologica dei sentimenti struccati e (fuori da ideologie, dottrine, mercati dei saperi) restituisce dignità e bellezza ai “ritrattati” che rifiutano l’eternità della miseria (della storia) vissuta come destino… nella bellezza c’è anche la giustizia, dicevano gli antichi greci… la libertà, come la bellezza, non si concede, ci si prende.
Maestri del pensiero meridiano come Friedrich Nietzsche, Ernst Jünger, Fernand Braudel, Pierre Bourdieu, Predrag Matvejević, Albert Camus, Pier PaoloPasolini o Franco Cassano ci hanno insegnato la cartografia umana della prossimità, il senso di accoglienza, di ospitalità e convivenza dovuto allo straniero che viene in cerca di un’esistenza meno feroce… ci hanno insegnato che lo stupore del diverso da sé che diviene storia comune, è un messaggio di pace e di scambio, aiuta a valicare la soglia, la frontiera, il limite e l’ospitalità si trascolora in casa della meraviglia… ci hanno insegnato che da sempre l’erranza (migranti, profughi, sopravvissuti a guerre e miserie millenarie) culmina nel principio di ospitalità e le parole di Emmanuel Lévinas illuminano il cielo degli stupidi: “Laddove quel sono è un eccomi”. Si appartiene sempre a una costa, a un popolo o a una terra dove ciascuno è straniero a se stesso… ciascuno è naufrago dei propri sogni e dei propri desideri di fraternità tra le genti… ciascuno porta in sé l’uomo meridiano fatto di terra e di sale, e di rotte immaginarie verso la felicità.
L’uomo meridiano è l’uomo che vive per la giustizia, il bene e la verità. “Vieni, entra. Fermati a casa mia, non ti chiedo come ti chiami, né da dove vieni o dove vai” (Jacques Derrida, Anne Dufourmantelle, da qualche parte)… va’ dove il cuore ti porta: “Non sono gli uomini fatti per le istituzioni ma le istituzioni per gli uomini” (Jean-Marie Déchanet) (10). Le cicogne, come il sorriso dei bambini, non conoscono frontiere, confini, divieti… la sola patria che ha valore universale è quella dell’umanità intera.
Il pensiero meridiano è “la critica del tipo di sguardo dominante nella cultura contemporanea… uno sguardo attraverso il quale il nord-ovest del mondo definisce la realtà, definisce il tempo, definisce le caratteristiche del futuro, definisce l’altro… Il punto di vista del pensiero meridiano è il punto di vista del sud, questo è il programma di ricerca. Esso si propone di guardare la storia dal punto di vista di quella parte del mondo, la quale non è la protagonista dello sviluppo, e quindi, in qualche modo, produce una prospettiva diversa, che non è riducibile soltanto a un insieme di dati negativi, così come invece emerge fondamentalmente nel punto di vista dominante…. Il sud è molte cose, il sud è sicuramente una terra piagata, con molti problemi, però è anche una prospettiva diversa. E lo scopo del pensiero meridiano è di cercare di mettere a fuoco la diversità e la ricchezza di questa prospettiva” (Franco Cassano) (11). Ogni progresso implica un rovesciamento di prospettiva… il brutto uccide la vita, che solo l’uomo in rivolta rende possibile.
Nelle visioni filosofiche di Pasolini o Camus (che sono le medesime di Cassano), il pensiero meridiano è alla radice della civiltà mediterranea, una terra che dona agli uomini la sapienza e il coraggio d’infrangere l’ordine divino per ristabilire il giusto ordine… è il pensiero del mezzodì e della luce, e dei colori, e dei venti, e dei profumi… visto come possibile alternativa alla decadenza, alla crisi della modernità e alle ombre guerrafondaie, appunto, dello storicismo (del pensiero della mezzanotte) contemporaneo” (12). La politica della bellezza ci salva dalla volgarità, dall’infelicità e dal successo! Sapersi parte di una genia che abita la tragedia greca è un’amarezza, una dolcezza, anche, e perfino una certa voluttà che ci sposta fuori dallo scandalo come dall’esilio e condividere le mille differenze dell’infinito “mare di tutti”, farsi ricchi di coraggio e abbracciare quelle virtù inaugurali che smascherano le impudicizie del potere e abbordano i vascelli (neanche signorili o dell’isteria di bassa lega) di una civiltà dello spettacolo che non merita essere sostenuta ma aiutata a cadere.
I colori del cielo dunque figura quel passare da riva a riva, da popolo a popolo, Alberto Savinio, diceva… e fare di ogni circonferenza un centro… rompere le catene dello smarrimento e dare voce e volto alla presenza dell’essere… al principio di libertà della persona singola… a farsi argonauti dell’utopia che nell’ansia libertaria e nella folgorazione dionisiaca disertano, sabotano o si oppongono l’arcipelago dei consumi postmoderni. Mazza non lo grida, tutto questo… lo annuncia, lo accenna, lo disvela poco a poco… il suo film contiene la passione del poeta e la caparbietà del naufrago… come il capitano Achab affronta gli oceani dove il Leviatano (mostro dell’Antico Testamento, re di tutte le distruzioni, nato dal volere di Dio) si nasconde… e mostra che si appartiene sempre a una costa, a un confine, a una terra, ma è proprio sul bordo dove si perde ogni misura che le differenze si toccano… e contadini, artisti, imprenditori, preti, malavitosi, insegnanti, migranti, matti, barboni, giovani, ragazzini… diventano il “mare” che accoglie e la coesistenza tra i diversi sradica ogni barriera e si rovescia nel ritorno (nostos) verso quell’universale che l’umanità sembra aver smarrito.
La scrittura filmica de I colori del cielo è musicale, ritmica… Mazza compone una rapsodia visuale della Calabria attraverso la forza (o l’ombra) espressiva dei protagonisti… la cinecamera, spesso a mano, s’accosta, s’allontana, danza attorno a quei volti, quelle voci, quegli occhi lasciati in libertà… vinti decorosi, ribelli senza causa o reprobi per bene sono intersecati ad altri che respirano parole, rabbie, atteggiamenti corsi da sublimi ironie, metafore, simbologie che sconfiggono profittatori e schiere di eletti senza grazia… c’è dentro questo fare cinema un’idea di amare e di essere amati per quello che siamo. Il regista entra dentro i tremiti dei loro silenzi e nella bava dei loro sentimenti… riconosce affezioni e amarezze, spaventi e indignazioni… recupera una somma di capacità e di talenti altrimenti perduti nella dannazione della storia… ciascuno è il romanzo che ne consegue e nel fascino dell’autobiografia sconfigge tutte le umiliazioni… chi non ha mai conosciuto l’asperità di un confine non ha nemmeno mai provato il risentimento orgoglioso delle migrazioni… i briganti, gli emigranti, i “fuori gioco” calabresi sanno che l’esperienza dell’inferno ha lastricato la loro vita ma qualche volta sono riusciti a dirigere il proprio tremito (e da qui derivano tutte le ribellioni della storia) contro l’origine del male… hanno saputo fare della propria vita la deriva di una verità mai vinta.
Del resto il brigantaggio calabrese (1861 – 1870) non è mai stato padre di nessuna ‘ndrangheta, semmai progenitore della resistenza e guerra di popolo (1943 – 1945) che ha sconfitto il fascismo e permesso l’avvento della democrazia (oggi aggredita da sordide manovre fra politica e criminalità organizzata)… le gesta insolenti di briganti come Pietro Monaco e sua moglie Marianna Oliverio (Ciccilla, “druda di briganti”) — che si contrapponevano allo strapotere feudale e militare dell’epoca — rivendicavano secoli di umiliazioni subite dai ricchi, ai quali sottraevano un po’ delle loro ricchezze per dividerle con i più poveri… i briganti calabresi non erano dei feroci banditi come qualcuno ha voluto insinuare, marchiare, incasellare… erano operai, artigiani, contadini ribelli ai soprusi dello straniero, allo sfruttamento bestiale dei lavoratori, alle ingiustizie sociali, alla corruzione dello Stato e della Chiesa, alle feroci leggi degli oppressori, al disumano trattamento della gente indifesa, alla persecuzione degli innocenti. Le guerre brigantesche furono combattute senza speranze di vittoria… erano destinate a finire nel massacro da parte dei francesi prima e dei piemontesi poi (bruciarono villaggi con la popolazione, eseguirono sentenze sommarie, violentarono donne, uccisero bambini col sarcasmo dei barbari)… i briganti lo sapevano che non potevano avere ragione di tanta violenza, tuttavia continuarono a lottare e a morire per una insperata giustizia sociale.
I tagli di I colori del cielo sono del tutto cinematografici… non hanno la liquidità mondana dei film o serie televisive… la lezione rosselliniana della produzione a basso costo si vede ed è un bene… la troupe era composta di quattro persone, più qualche amico occasionale… il regista filmava e al contempo inventava la lingua della povertà, dell’incompiutezza, faceva dell’accidente la creazione di uno stile! Là, alla periferia di dio, ogni inquadratura eliminava l’inessenziale e di “porto in porto” accartocciava la percezione del reale nel vero (come Swift ne I viaggi di Gulliver). Fuori dal fascino dell’approssimativo e del sensazionale, dove le verità e le finzioni sono la medesima cosa… il film assume su di sé un linguaggio che differisce il consueto, il consumato o l’ortodossia del discorso dominante… sembra “luogo comune” ma lo travalica… attribuisce un supplemento di senso al predestinato e in dispregio della demiurgia verbale/filmica chiede alla poesia del cinema una risposta a tutti gli interrogativi rimasti sepolti nell’orrore del linguaggio quotidiano… la vita vera è oltre la parola, oltre l’immagine e solo nel disinganno della felicità (e nelle rotture radicali che produce) nasce la tentazione di esistere.
La fotografia di I colori del cielo è quasi tutta elaborata in luce ambiente e mai tentata di fare il cartolinesco o il pittoresco… opera una divaricazione radicale tra il verbo e la realtà! E, come sappiamo, quando la realtà è più brutta (o minore) della fantasia, si filma la fantasia! (13) La bellezza di un’idea vale più dell’idea stessa. Il montaggio (Mazza e Anna Maria Corea) è minuto, certosino, alchemico… i calabresi irrompono sullo schermo quanto basta… fa da contrappunto alle voci e alla maniera dei romanzi di Balzac o dei film di Pasolini, spezzetta il vero nella sfera della conoscenza ereticale e la detestabilità del cinema mercantile diventa materia poetica… i protagonisti di I colori del cielo diventano trama di una coscienza sociale che sopprime il narrato e gli spettatori si riconoscono come specchio di loro stessi… secondo ogni evidenza si può fare cinema con qualunque cosa… il cinema si presta a tutto quando respinge l’inessenziale, l’accessorio e l’infimo… quando il cinema è archeologo dell’essenza ed esplora gli strati profondi dell’animo umano entra in una terra di nessuno e attraverso lo stupore e la meraviglia fissa nella storia di un popolo il grado esatto della sua agonia o della sua rivolta.
Il mistero violato del cinema rende luminosa l’enunciazione della sua rivelazione… ma l’arrivo a questa rapina del vero non può che nascere dai legami di ogni artista con il dolore, la gioia, la malinconia che si liberano di ogni appannaggio della civiltà contemporanea e rigettano le stigmate del provvisorio per detergere le piaghe velenose di un’epoca delle statistiche, dove i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri più poveri! E se cento, mille volte dava ragione a Lazarillo de Tormes che bruciava i granai dei nobili, quasi per gioco… penso anche che la politica della bellezza è la più alta sovversione picaresca da ricercare in se stessi e non altrove, con la quale dissestare gli idolatri del fucile e dell’aspersorio… l’assassino è l’altra faccia del banchiere e del prete… non sono degni nemmeno del ribrezzo del paradiso… andrebbe cancellato di loro finanche il ricordo. “La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza” (Albert Camus).
Solo i realisti dell’utopia chiedono l’impossibile e cercano di dare una forma al proprio destino… sanno che la distruzione dei miti porta con sé quella dei pregiudizi… e in ogni caso senza nessun rimorso.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 5 volte agosto, 2017
1 Pino Bertelli, La macchina/cinema e l’immaginario assoggettato, Nautilus, 1987.
2 Paul H. Dietrich, barone d’Holbach, Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei cortigiani, il Melangolo, 2009.
3 Friedrich Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Adelphi, 1969.
4 Pino Bertelli, Guy Debord. Anche il cinema è da distruggere, Mimesis, 2015.
5 Michel Onfray, La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione, Fazi Editore, 2008.
6 Pino Bertelli, Guy-E. Debord. Il cinema è morto, La Fiaccola, 2005.
7 È lo straordinario incipit di Moby Dick, di Herman Melville, Bur, 2017.
8 Herman Melville, Moby Dick, Bur, 2017.
9 Genti di Calabria è un’opera di fotografia sociale e la realizzazione di questa avventura culturale (quindi politica) è dovuta all’impegno fraterno di Anna Maria, Paola, Francesco… e altri passatori di confine o bracconieri di sogni che abbiamo incontrato in terra di Calabria.
10 Jean-Marie Déchanet, Va’ dove ti porta il cuore, Cittadella, 1995.
11 Il pensiero meridiano oggi: Intervista e dialoghi con Franco Cassano, a cura di Claudio Fogu, escholarship. Org
12 Pino Bertelli, Genti di Calabria. Un atlante di geografia umana, Suoni & Luci, 2017.
13 Détournement da film western di John Ford, L’uomo che uccise Liberty Valance (1961).
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