Nei suoi ostici personaggi dalle mani adunche, dai visi  tesi, dalle deformazioni somatiche tendenti alla raffigurazione di un’animalità aggressiva, è la dimensione psichica dell’odio o della incomunicabilità a raggrumarsi in una energetica cromia materica informale

di Antonio Gasbarrini

Nel 2018 ricorrerà il Centenario della nascita di uno dei principali protagonisti dell’arte italiana ed europea della seconda metà del Novecento: Remo Brindisi.

La sua scomparsa avvenuta nel 1996 nella sua Casa-Museo al Lido di Spina (FE) – attualmente ribattezzata “Museo d’arte moderna Remo Brindisi”, donata al Comune di Comacchio, che ne gestisce l’attività espositiva – non ha fatto venir meno l’attenzione degli storici e critici d’arte sulle sue radicali prese di posizione in qualità di artista engagé secondo i connotati esistenziali a suo tempo fissati dal frequentato Jean Paul Sartre. Ideologicamente non posizionato, ma con uno  sguardo disincantato sulla società – sguardo forgiato in prima persona come soldato-topografo nella II Guerra Mondiale – Remo Brindisi diventava così, con i suoi pennelli e bulini, testimone scomodo d’una realtà in cui la denunciata violenza istituzionale delle tre dittature mussoliniana, hitleriana e staliniana, non risparmiava, né tanto meno assolveva, quella individuale.

Così tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la sua arte germinata dai lividi timbri cromatici dell’amatissimo El Greco, assorbiti e rielaborati formalmente nell’ibridazione stilistica debitrice delle lezioni forti espressioniste e post-cubiste, approdava a quella Nuova Figurazione (o meglio, Figurazione Critica), affermatasi a metà del secolo scorso, a partire dalle dichiarazioni poetiche e dall’attività del “Gruppo di Linea” (Dova, Kodra, Porzio, Quasimodo ed altri artisti e intellettuali) a cui aveva aderito nell’immediato dopoguerra.

E, mentre proprio in quegli anni infuriava l’aspra polemica che contrapponeva gli artisti sostenitori del Realismo a quelli dell’Astrattismo, Remo Brindisi, dopo una breve adesione ad un realismo poeticamente già metamorfizzato con la sua saettante figurazione segnica, se ne andava per la propria strada affidando le sorti della sua arte ad una lacerata e lacerante visionarietà. Ove, nella raffigurazione di eventi e personaggi storicamente  caratterizzati, primeggiava il forte pessimismo goyano de “Il sonno della ragione genera mostri”.

Saranno i grandi oli dipinti su tela (cm. 170×200) dedicati alla ” Storia del Fascismo”, in particolare, a raggiungere l’acme della sua “urlata” istanza est-etica, peraltro sempre dialogante con una parallela e più elegiaca rammemorazione di una giovinezza legata alla vita agreste-pastorale esperita tra i monti d’Abruzzo (Penne, in particolare), fusa con un laicizzato cristianesimo riscontrabile in quegli stessi anni nelle 14 opere facenti parte del ciclo pittorico “Via Crucis”: qui, i protagonisti delle stazioni del dolore, vestono, Cristo a parte, abiti moderni come ai giorni nostri.

Forse, mai come oggi – mentre in Italia ed in Europa nauseabondi rigurgiti neo-fascisti stanno avendo la meglio su debilitate democrazie, con l’alibi delle invasioni di massa da parte di milioni di migranti che cercano di sfuggire dalle mortali grinfie del loro amaro destino – quelle grottesche, livide maschere brindisiane ammoniscono ed insegnano. La deformazione di visi sfatti, i vitrei sguardi, le bocche storte, in una parola, le teste da morto così care e familiari proprio al regime fascista, ci restituiscono tutto il dolore e l’angoscia di una perduta umanità degenerata, storicamente, in animalizzata dis/umanità. Sicché i singoli episodi della lunga catena di eventi drammatici cristallizzati sulle pagine d’una insanguinata Storia tutta da rimeditare da cima a fondo, assurgono a paradigmatici  exempla di tutto ciò che gli esseri umani non dovranno più fare sia per il loro bene individuale, che per quello civile e comunitario. Le sfilacciate, fantasmatiche, slabbrate icone di Mussolini, Claretta Petacci, Hitler, il Cardinal Gasparri o di alcuni eventi significativi quali La marcia su Roma, Piazzale Loreto, I Fucilati di Verona con il loro addensarsi non solo squadristico, sfilano così una  dietro l’altra a mo’ di pupazzi messi sui carnevaleschi carri allegorici d’una “storiaccia” oltraggiosa alla stregua di una bestemmia pronunciata ad alta voce in un luogo di culto.

Nella tragica versione neo-figurativa di Remo Brindisi,  quegli allucinati, grotteschi personaggi non riescono a strappare più né un solo battimani, né tanto meno un complice sorriso d’intesa. Nascosti da qualche parte, mentre avanzava la Resistenza con i suoi coraggiosi partigiani così cari all’artista, dovevano comunque esserci ancora ex gerarchi, cortigiani e complici dei tanti misfatti compiuti durante l’infausto regime. Ad iniziare dai nomi dei dieci pseudo-scienziati firmatari del famigerato Manifesto della razza (1938), ispiratore delle successive emanazioni di leggi, decreti e circolari che costituiranno il breviario ideologico-operativo dei forni crematori tedeschi ( “Camera a gas”, non a caso, sarà il titolo di uno dei suoi capolavori, con quel mucchio di segni ossificati frammisti a fumi), i quali, di fronte a quelle sconvolgenti immagini, avrebbero dovuto battersi mille e una volta il petto per un riparatorio “mea culpa”.

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Volendo inoltre rintracciare nel “sentiero filologico” della poetica brindisiana il brusco passaggio dall’elegiaca raffigurazione dell’agreste vita  abruzzese (ove bidimensionalizzati pastori, agnelli, contadine-madri e bambini rievocavano uno struggente mondo-che-non-c’è-più) alle lancinanti icone partorite da una figurazione completamente rinnovata nei suoi materici impasti formali, ci si può soffermare su un’opera che risulterà centrale per la comprensione dell’impegno es-etico del Nostro, qui sostenuto.

Mi riferisco al monumentale dipinto su tavola (cm. 240×355) ‘”Omaggio ai giovani Nove Martiri Aquilani” del 1954, commissionato all’artista dalla segreteria del PCI aquilano, dipinto che campeggiava in una delle pareti della cittadina  “Mensa del popolo” ed attualmente nella disponibilità del Museo Nazionale d’Abruzzo che ha provveduto anche al suo restauro. Erroneamente intitolato (non da Brindisi) “Lottiamo per la pace” e successivamente cambiato dallo stesso autore a seguito di una mia rilettura iconologica esplicitata sulle pagine del quotidiano Il “Messaggero d’Abruzzo” (24/11/1994). Queste le mie motivazioni: “[…] L ‘erroneo titolo “Lottiamo per la pace”, a suo tempo attribuito da un autorevole studioso sulla base di un’iscrizione visibile nel  retro del quadro, a nostro modo di vedere contrasta e con il tema dell’opera, e con la sommaria immagine del sole, con la colomba con ramoscello di ulivo e dei carri armati, schematicamente disegnati sul retro dello stesso. […] Didascalica nella sua figurazione elementare (a sinistra un soldato nazista minaccioso nei confronti di nove giovani, i 9 Martiri Aquilani; al centro la discinta sconfitta dell’esercito tedesco in rotta, diagonalmente attraversata dalle dirompenti figure di partigiani; sulla destra, infine, il cammino verso il futuro intrapresa da una giovane coppia di sposi attorniata da due bambini mentre giocano), l’opera è, invece, altrettanto “rivoluzionaria” nei suoi esiti stilistici e formali. Da qui la centralità di questo dipinto […] al fine d’interpretare correttamente la svolta poetica e linguistica attuata in quegli anni da Remo Brindisi, riconosciuto Maestro di una  Nuova Figurazione che a livello italiano ed europeo minerà alle radici il realismo di Guttuso e degli altri artisti aderenti a Corrente. Sarà infatti la premonitrice visionarietà già presente in questo dipinto con il mancato rispetto delle profondità prospettiche e delle proporzioni, con le zoomate date ai primi piani di una figurazione primitiveggiante bloccata sul suo nascere con qualche pennellata stenografica, a far venire in superficie tutti i mali recepiti dall’inconscio e dalla dissacrante arte brindisiana, storicizzata poi nei memorabili cicli di Massacri, Oppositori, Reazionari e Uomini-Muro”.

Nei suoi ostici personaggi dalle mani adunche, dai visi  tesi, dalle deformazioni somatiche tendenti alla raffigurazione di un’animalità aggressiva, è la dimensione psichica dell’odio o della incomunicabilità, a raggrumare in quella cromia materica informale, tutta l’energia concentrata nelle striature di segni che nell’hic et nunc del bruciante furore poetico brindisiano, non congelano l’immagine, ma la sciolgono est-eticamente  in una prospettiva storico- temporale ri/umanizzata.

In quel felice  periodo creativo, Remo Brindisi, “è” un Essere, più che Uomo a tutto tondo alla riscoperta di un “neo-umanesimo planetario” (Edgar Morin) praticabile con la messa a nudo delle nefandezze commesse da questo o quel “triste figuro”. Non solo dalle impietose immagini che nulla concedono a menzogneri negazionismi (“Olocausto” sarà il titolo di una sua opera realizzata agli inizi degli anni novanta), bensì dalla fecondante, vigorosa cromia di rossi, verdi, gialli, marroni innervati da un gestualità segnica di matrice neo-espressionista sì, ma con implicazioni est-etiche “altre”.

Infatti, nei cicli visionari appena accennati, primeggia sempre l’io etico d’un artista che non si limita ad affermare il suo disgusto per tutto ciò che di negativo ha vissuto sulla propria pelle,  vendicandosi con l’imbruttimento somatico degli effigiati. Piuttosto è la rinnegata bellezza estetica di quelle anime indurite come sassi, a ricongiungersi, grazie alla sua stravolta Figurazione, ad una più che benvenuta, catartica est-etica.