La scrittura è ciò che mi lascio alle spalle
di Marcello Gallucci
L’arte del dharma non riguarda solo ed esclusivamente l’arte e la vita. Ha a che fare con il modo in cui noi ci occupiamo di noi stessi in generale: come prendiamo un bicchiere d’acqua, come lo mettiamo giù, come stringere un cartoncino e farlo diventare uno scettro sacro, come ci si siede su una sedia, come si lavora con un tavolo, come fare qualunque cosa.
… l’arte del dharma si riferisce all’arte che nasce da un certo stato della mente da parte dell’artista, che potremmo chiamare stato meditativo. È un atteggiamento diretto, di consapevolezza non riflessiva nel lavoro creativo di una persona.
Chögyam Trungpai
La scrittura è ciò che mi lascio alle spalle.
Un corpo variamente sezionato i cui dis-ordinati frammenti non meritano maggiore attenzione, né pietas, di un qualunque cadavre exquis.
E non ho tempo da perdere per attardarmi sulla compostezza da canone che qui e lì sembra ancora trasparire. Rifiuto la contemplazione tardiva della catastrofe: non che tema il vento del progresso, ma so che camminando a faccia indietro come minimo andrei a sbattere filato contro le maglie di ferro della teleologia. Lascio perdere, insomma.
Ove possibile, studio invece l’opportunità di un camuffamento. Mi ingegno. Una recita stile antico, metti da tragedia greca, un soliloquio ben ritmato, un lasciar intendere. Svanimenti più che svenimenti.
Dunque, se non scrittura, qual è il nome di ciò che segue?
Farai un vers de dreit nien: / Non er de mi ni d’autra gen, / Non er d’amor ni de joven, / Ni de ren au, / Qu’enans fo trobatz en durmen / Sus un chival.ii
TRUCCHI
Dissipava tramonti. Era la sua migliore specialità. Non fingeva di averne di troppo, non simulava un’abbondanza sospetta, né pretendeva luci meridiane in cambio. Semplice e liquido, in forma di parole, immagini, concetti, in ogni momento l’occaso s’insinuava, come una spontanea fioritura, tenue e quasi inavvertita, in tutte le sue azioni. Appariva come una sorpresa, un regalo, e la piccola pena che vi era nascosta venava il discorso di una mestizia tutto sommato gradevole. Poi, con un rapido cambio di direzione, ciò che era margine, ombra, sospetto soffuso, velatura, si scopriva centro del ragionamento, perno dell’intenzione. Deponeva questo piccolo dono, come una tristezza di troppo, una sovrabbondanza di cui disfarsi con nonchalance, nell’animo di chi lo ascoltava.
E tuttavia quel paesaggio aveva insistito troppo nella sua anima e le lasciava la sensazione di una lieve forzatura. Meglio: nel passare da lui ad un altro, il pensiero esitava un attimo; tentennava; si faceva piccolo, incerto. Come a chiedere il motivo per cui, pur nutrito con amore, accudito, coccolato, ora all’improvviso dovesse esser dismesso.
Sarebbe stato accolto bene? O i suoi nuovi ospiti lo avrebbero frainteso? Avrebbero capito ed accettato la gratuità assoluta del gesto e insieme la grandezza, l’importanza del dono?
In fondo, tutto ciò che chiedeva loro era che si abbandonassero per un momento alla solitaria grazia della riflessione. Lì allora, e solo allora, i suoi pensieri avrebbero preso le ali e sarebbero tornati a partorire, a motivare, a reggere catene di concetti e di deduzioni. Ecco, ispirava sillogismi, sosteneva precipitose fughe di analogie e accostamenti, suggeriva note per mirabolanti contrappunti logici. La grandiosità del progetto era nota solo a lui, eppure sentiva, come un bisogno impellente, di non poter vivere senza comunicarne almeno un esito, una parte viva, un principio essenziale.
Incidere coscienze era il suo sogno. Pian piano, formandosi, ritrovando le linee ideali e necessarie che li sorreggevano, quei pensieri avrebbero potuto generare una nuova armonia nei disegni, una diversa sorte combinatoria i cui esiti egli stesso attendeva con ansia.
Infine, dopo anni di attesa, fu lui a trasformarsi. Entrò nel suo disegno, ne rifinì gli angoli e rafforzò la tessitura. Come un abile sarto, seppe ricamare di tenui raggi ogni ritaglio di spazio, colmando ogni lacuna. Fu geloso solo del suo ultimo pensiero: riservò per sé il suo tramonto.
L’ANELLO
Era al suo dito da così tanto tempo che aveva persino dimenticato di indossarlo. Un anello antico, con un castone importante: un lapislazzulo perfetto chiuso in una delicata rete di rami. Jugendstil, probabilmente. Con venature di un nero profondo intersecate da punte d’oro fino. In casa si favoleggiava di un amore impossibile che quelle volute custodivano e proteggevano per la memoria. Ma, se così, quanto nero e gonfio doveva esser stato quel cuore. E quanta vita pulsava invece nelle sue punte fiammanti. Amore e dolore sembravano abbracciarsi, senza comprendersi. Solo l’azzurro profondo della pietra permetteva loro di riunirsi in una pace lapidea.
Tanto lunga l’abitudine di lucidarlo, al mattino, lievemente, con una pezzuola di daino, da esser diventata rituale; fatto è che non riusciva, malgrado gli anni, ad abituarsi a dormire con quel peso al dito, con quel cerchio che sembrava stringergli l’anulare. Come se le ore notturne, prevalendo sul carattere luminoso della pietra alla luce del sole, gli infondessero nell’anima un dolore arcano.
La mattina che non riuscì a trovarlo non gli parve troppo strano. Aveva semplicemente sbagliato posto nel riporlo, confuso dal sonno e dalla stanchezza. Oppure era scivolato dietro il suo pesante comodino. Iniziò a preoccuparsi dopo una ricerca affannosa e vana per tutta la casa. Uscì, per le solite faccende, con un po’ d’apprensione. Fuori, il tempo era lo stesso: con l’anello o senza, il suo lavoro lo chiamava. Una corsa fino alla sua aula, la lezione, Nietzsche, l’incipit ormai consunto del libro di Kundera…, durante l’analisi della struttura interna della temporalità, gli venne inevitabile ripensare al suo anello.
Carlo fu il primo a fargli capire che qualcosa non andava. Come al solito avevano fatto un pezzo di strada insieme, chiacchierando, e lui disse qualcosa, confusamente, a proposito della sua mania dell’anello. Sulle prime non capì, poi pensò che l’amico aveva notato l’assenza del gioiello e ne fosse incuriosito. Rispose con un generico “Eh, sì!” alla domanda, che non aveva ben compreso.
La signorina accanto a lui, al ristorante, invece lo impensierì. Guardava con una certa insistenza l’anulare della sua mano sinistra. Erano stati presentati da poco, e questo bastava a giustificare la reciproca attenzione; fosse curiosità o interesse era presto per dirlo, per cui pensò che forse tentava di intuire dal segno sul dito se era o meno sposato, più o meno disponibile ad un’avventura. Sorrise divertito. Alla sua età…
Adele gli provocò una reazione diversa. Tutte le volte che toccava un bicchiere di cristallo, lei raccomandava “attento con quell’anello”, in ricordo di un servizio più volte mutilato. Quando se lo sentì ripetere pensò ad un’abitudine. Ma poi avvertì, netto, il tintinnio del metallo contro il bicchiere.
Capì allora che l’anello era lì, al suo posto. Solo, lui non poteva più vederlo. La cosa divenne preoccupante.
Dopo fu la volta dell’orologio. Né d’oro, né pregiato, né antico: un normalissimo orologio meccanico, solo da tasca, usato per la fastidiosa sensazione che provava nel legare al polso qualcosa. Aperto, l’orologio rivelava un delicato cuore d’ingranaggi, di vita, istanti incatenati l’un l’altro a muovere il complesso arco dei fatti e delle memorie. Sul quadrante esterno, la ruota della spirale si duplicava, in forma di mulino ad acqua. All’improvviso non riusciva più a vederlo, ma sapeva dal peso nella tasca che era al suo posto. Poteva anche toccarlo, sollevarlo, e tuttavia la catena gli sembrava vuota. Era lì, ma non per lui.
Un handicap sormontabile, tuttavia. Cominciò a controllare l’ora sul quadrante luminoso del cellulare. Fu la solita domestica ad avvisarlo che, prima di spedire i pantaloni in lavanderia, aveva riposto l’orologio sul comodino.
Si precipitò in camera da letto. E non riuscì a vedere neppure la catena.
L’appuntamento urgente dall’amica oculista. L’attenzione all’inizio divertita, poi persino supponente con cui lei l’aveva ascoltato. I diversi, tanti suggerimenti sulle possibili cause non mediche del disturbo. L’amico comune, valente psichiatra, e le sue discettazioni imbarazzate. Poi visite su visite, con frequenza crescente. Tutte indilazionabili, tutte improrogabili. Analisi sempre più approfondite, alla ricerca di un tumore che non c’era, di una macula del cristallino che non si vedeva, di un deficit organico o mentale che non si riusciva a diagnosticare. Eppure il malessere cresceva, e – a giudicare dalle reazioni dei tanti medici che andava consultando – era evidente anche agli altri, stigmatizzato dal pallore cadaverico del viso, dall’aspetto diafano, quasi consunto, della pelle che veniva pian piano come rivelando la riposta fatica delle vene.
Lasciò l’insegnamento. Gli era diventato penoso persino il semplice supporre che gli sguardi degli studenti potessero cogliere in lui qualcosa fuori posto. Col passare dei giorni si abituò ad una specie di litania, da recitare ogni mattina come una filastrocca infantile, che enumerava gli oggetti essenziali del piccolo universo cui si era ridotto, quelli senza i quali non poteva azzardarsi neppure ad uscire di casa per la sua passeggiata.
La macchina, aveva rinunciato a guidarla da quando aveva perso le chiavi e, senza indagare oltre, si era rifiutato di cercarle.
I libri lo lasciarono per ultimi, sfilandosi dalle sue dita con delicatezza, come per un congedo affettuoso. Mentre leggeva, le pagine gli divennero sabbia e corsero via veloci. Allora ripensò al pomeriggio in cui all’improvviso aveva sentito che la sua immagine si svuotava dall’interno. Divenne un’impercettibile sfumatura di colore su uno sfondo variegato. Svanì così al mondo, e non gli importò poi molto che mondo svanisse per lui.
i Ch. TRUNGPA, The collected works of Chögyam Trungpa, a cura di C. Rose Gimian, Boston & London, Shambala, 2003-2004 vol. VII, 2004, rispettivamente p. 157 (“Art begins at home”) e p. 13 (“Dharma Art – Genuine Art”).
ii Guglielmo IX d’Aquitania (1071 – 1126): Farò un verso di un bel niente: / non su di me né su altra gente / non sull’amore né sulla gioventù, / né su niente altro, / perché l’inventai dormendo / su di un cavallo.
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