L’opera, l’artista, il critico finiscono, così, con il costituire un tutt’uno, un oggetto bello e fatto, una sorta di ready-made che l’assessore, novello Duchamp, preleva spostandolo da un contesto ad un altro, dal campo dell’arte al campo del politico
di Filiberto Menna
“Nella loro forma attuale apparati come la televisione o il cinema non servono alla comunicazione, ma ad impedirla”. Così, lapidariamente, Enzenberger nei suoi “Elementi per una teoria dei media” (Torino, Einaudi, 1976).
In questa epigrafe dello scrittore tedesco vorrei sottolineare due termini e precisamente il termine “attuale” e quello “comunicazione” in quanto essi rappresentano una spia per cogliere una sorta di non detto in questo giudizio così reciso. Enzenberger, in sostanza, ci dice che cinema e televisione impediscono la comunicazione nella forma attuale, il che lascia intravvedere una possibilità diversa, una diversa forma degli stessi mezzi di comunicazione in grado di comunicare.
La posizione dello scrittore tedesco si iscrive, così, in una linea di pensiero che abbiamo incontrato altre volte a proposito dell’impiego delle tecniche moderne di produzione e di comunicazione. Si tratta di un orientamento che non dice di no alla tecnica ma soltanto all’uso che se ne fa. Il problema si è posto, ad esempio, per la produzione di serie nell’ambito della progettazione industriale e l’ideologia dell’industrial design, così come si è configurata soprattutto nell’area del Movimento Moderno, é caratterizzata appunto da questa convinzione, di poter controllare i mezzi tecnici e piegarne le ragioni, puramente economicistiche alle ragioni della collettività. Non é un caso che Rino Mele in un suo recente intervento sulla comunicazione televisiva (“Figure. Teoria e critica dell’arte”, n.2-3), riconduce la posizione di Enzenberger alle teorie elaborate da Brecht nel 1932 riguardanti la radio: “Sia Brecht che Enzenberger – scrive dunque Mele – individuano nella capacità di risposta lo sviluppo liberatorio, rivoluzionario, che un medium può sollecitare ed esprimere.
Alla proposizione di Brecht “La radio dovrebbe abbandonare il suo ruolo di fornitrice e far sì che l’ascoltatore diventi fornitore” (“La radio come mezzo di comunicazione”, in “Scritti sulla letteratura e sull’arte”, Torino, Einaudi, 1973) corrisponde quella di Enzerberger: “Nella loro forma attuale apparati come la televisione o il cinema non servono alla comunicazione, ma a impedirla. Non consentono nessuna interazione fra chi trasmette e chi riceve”.
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Brecht e Enzerberger pongono quindi il problema centrale della interazione, della possibilità di innescare processi di feed-back tra le polarità della trasmissione radio e televisiva. Essi pongono, cioè, il problema della comunicazione (e qui introduco una riflessione sul secondo termine impiegato da Enzerberger), un problema che è stato rilanciato in anni recenti da un altro intellettuale tedesco, da Habermas, che ha posto la questione della comunicazione al centro delle sue riflessioni su una possibile inversione di tendenza dell’attuale sistema della informazione generalizzata.
Anche per Habermas la comunicazione delinea un rapporto intersoggettivo in cui il momento critico rimane fondamentale, nel senso che il messaggio non implica una risposta semplice di assenso o dissenso, ma coinvolge la possibilità di risposte caratterizzate da gradienze tra il sì e il no.
Un problema, questo, che si è riproposto recentemente in occasione della trasmissione televisiva curata da Enzo Biagi della proposta di un sondaggio di opinione sulla pena di morte mediante un dispositivo elettrico. I pareri come è noto, si sono divisi in maniera netta sulla opportunità e sulla efficacia della proposta e del dispositivo tecnico: alla interpretazione che ha visto in questo tipo di sondaggio una realizzazione di una interazione comunicativa si è contrapposta, infatti, un’ idea più critica, fondata sostanzialmente al fatto che una risposta affidata a un “sì” o a un “no” non sfugge a quella logica informazionale che il concetto di comunicazione (così come ipotizzato da Brecht, Enzerberger e Habermas) intende in qualche modo contrastare e se possibile, capovolgere.
Ci troviamo di fronte così al binomio comunicazione/informazione e alle ipotesi su una condizione postmoderna che appare sempre più contrassegnata dall’avvento di una logica informazionale relativamente semplice, nel senso che in essa, come ha detto Lyotard scrivendo appunto della “Condition postmoderne”, “bisogna poter trascrivere una frase anche complessa nella forma di unità di informazione/non informazione,cioè secondo la logica binaria dell’algebra: si/no”. Solo a queste condizioni le frasi diventano competitive e possono affermarsi sul mercato del linguaggio. L’affermazione di questa logica informazionale si accompagna, sempre secondo Lyotard, con la trasformazione del sapere tradizionale di ordine denotativo, che ha come termine di riferimento il binomio vero/falso, in un sapere performativo , che si rapporta invece la binomio efficiente/non efficiente. Ne deriva un cambiamento del concetto stesso di scienza di conoscenza e di scienza che viene intesa come pratica di autoregolazione dei sistemi e della loro produttività.
I mezzi di comunicazione di massa, e in particolare la radio e la televisione, sono naturalmente i più esposti, per così dire, alla penetrazione di questa logica informazionale non fosse altro perché devono fare i conti, più di ogni altro mezzo di comunicazione, con la logica del consumo di massa e con la conseguente performatività delle loro prestazioni. In un certo senso, i mezzi di comunicazione di massa compiono una operazione che si potrebbe definire di messa in scena del sapere, intendendo qui con questo termine il sapere, l’apprendere la realtà quotidiana. Si verifica così un pareggiamento degli eventi, un appiattimento delle differenze fino alla loro scomparsa totale e con esse la scomparsa della nozione stessa di valore.
Per la verità non tutti i teorici della postmodernità danno per vero questo passaggio dalla comunicazione alla informazione, dalla denotatività alla performatività. O, quanto meno, non negano che viviamo momenti di opposizione e possibilità di esiti diversi, sia pure parziali, marginali. Lo stesso Lyotard ammette, ad esempio, che a questa tendenza dominante si oppongono alcune pratiche, come quelle dell’artista e del lavoro intellettuale in genere, dello scienziato e del filosofo, che cercano di sottrarsi alla logica informazionale elaborando, scrive Lyotard, “frasi sinora inaudite e quindi per definizione e almeno in un primo/tempo non comunicabili”, se commisurate, ovviamente, alla logica del mercato linguistico corrente. Il lavoro artistico sfuggirebbe, così, al principio della performatività in quanto esso porta a un risultato che trova anzitutto in se stesso i fondamenti della propria legittimazione: “Ciò che importa nell’arte – dice infatti Lyotard – è precisamente la produzione di opere nelle quali le regole che costituiscono un’opera in quanto tale siano interrogate all’interno dell’opera stessa”.
Alcune esperienze dell’arte maturate soprattutto verso la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta, le esperienze concettuali e in generale analitiche, sulle quali personalmente ho richiamato insistentemente l’attenzione per la loro importanza paradigmatica se non proprio per il loro valore artistico in senso stretto, hanno enfatizzato appunto questo aspetto dell’arte, spostando l’attenzione dal piano espressivo o rappresentativo al piano di una autoriflessione linguistica. Ma coerentemente con il loro assunto di base gli artisti sono stati costretti a ipotizzare procedimenti autosufficienti, al limite tautologici, e quindi al di fuori di ogni altro contesto che non fosse il contesto stesso dell’arte. Non è un caso che Kosuth, forse uno degli artisti concettuali più radicali ed estremi, ha preteso addirittura di tagliare ogni relazione con il pubblico, in quanto, egli sosteneva, il pubblico dell’arte è costituito dagli stessi addetti ai lavori. Forse che una proposizione scientifica non si rivolge agli scienziati?
In realtà, le cose non erano e non sono così semplici come la sperimentazione in vitro dell’arte concettuale poteva far pensare. Gli stessi artisti del resto hanno presentato le loro opere in determinati contesti (gallerie, musei, ecc.) e quindi non potevano non presupporre una qualche relazione con il pubblico e con il mercato. Ma c’é di più: le stesse proposizioni linguistiche, con le quali l’opera d’arte veniva assimilata, erano presentate in un certo modo, andavano anch’esse incontro a una sorta di messa in cornice, di messa in scena, dunque.
Senza saperlo, senza volerlo, gli artisti concettuali rischiavano di riproporci una fruizione auratica dell’arte, un rapporto strettamente specialistico che assumeva talvolta quasi l’aspetto di un processo di iniziazione. Il problema consiste invece in una possibile fruizione dell’arte dal punto di vista della vita quotidiana, tale che sfugga agli specialisti (senza peraltro disconoscerne la funzione nella costruzione del sapere) e al vagheggiamento di una cultura auratica che sta oramai alle nostre spalle e che non possiamo (non vogliamo) recuperare; una fruizione che sia consapevole nello stesso tempo del carattere puramente fantasmatico di una esteticità decentrata, destrutturata, ingenuamente spontaneistica.
La situazione appare oggi ancora più complessa e difficile in quanto alla messa in scena del sapere compiuta dai mezzi di comunicazione di massa corrisponde, quasi specularmente, una messa in scena dell’arte e della critica. Vediamone, sia pure rapidamente, i modi.
Incontriamo anzitutto la messa in scena dell’arte nelle declinazioni recenti della pittura. L’artista persegue una strategia del limite tendente a restituire alla cornice tutto il suo valore tradizionale di confine tra spazio della illusione, della fabula e spazio della realtà imprimendo alla pratica dell’arte una direzione profondamente diversa rispetto ad alcune linee dominanti del passato più o meno recente caratterizzate da una tendenza allo sconfinamento e alla occupazione dello spazio ambientale. Anche la ripresa di una titolazione complessa, narrativa, conferma questo orientamento a fare del quadro il luogo di un racconto che riconosce senza mezzi termini la propria separazione dallo spazio reale. In termini teatrali, si ridà valore alla ribalta.
A un secondo livello incontriamo la messa in scena dell’arte da parte della critica che crea degli schieramenti e delle aree reciprocamente in contrasto senza però che ad essi corrispondano vere e proprie differenze linguistiche. Anche qui la cornice e la titolazione assumono un rilievo decisivo nella configurazione della scena.
C’è poi la messa in scena della critica da parte della critica stessa: cosa che si è verificata di recente a Pisa nel convegno sulla “Postcritica” curato da Bonito Oliva. Si é trattato di un evento significativo per la sua sintomaticità (indipendentemente cioè dall’apporto del dibattito che peraltro è stato di notevole rilievo) in quanto si è registrata una messa in cornice della critica da parte di un critico che si è posto da un punto di osservazione metacritico.
A questo punto ci spostiamo su un piano ulteriore; dove registriamo la messa in scena dell’evento: la mostra, il convegno, la manifestazione multimediale, e simili. Alla messa in atto di questo momento della generale messa in scena dell’arte concorrono diverse componenti, dall’artista al critico, all’architetto o allo scenografo. Ma l’intero complesso è a sua volta messo in scena dall’intervento politico-amministrativo, e per esso dall’assessore alla cultura.
L’opera, l’artista, il critico finiscono, così, con il costituire un tutt’uno, un oggetto bello e fatto, una sorta di ready-made che l’assessore, novello Duchamp, preleva spostandolo da un contesto ad un altro, dal campo dell’arte al campo del politico.
Ma alle spalle di tutta l’operazione ritroviamo proprio il modello culturale di cui abbiamo parlato all’inizio e che caratterizza l’universo postmoderno, così come teorizzato dai suoi maggiori supporters: un universo, come si e detto, dominato da una logica informazionale e da un atteggiamento performativo che trovano nel generale fenomeno della spettacolarizzazione di massa il luogo privilegiato della propria epifania.
L’evento culturale si presenta così nelle forme di una immagine e trova il principio di legittimazione non tanto nel valore della seconda quanto nella efficacia, nella performatività, appunto, della prima. La messa in scena diventa così una sorta di contenitore, di cornice e viene assumendo addirittura il carattere di un modello linguistico, dotato di una sua logica propria, di una sua sintassi. In questo la messa in scena dell’evento culturale, intesa come immagine doppia, ha come modello implicito il messaggio dei mezzi di comunicazione di massa e in particolare della televisione, che sovrappone “il proprio territorio d’immagini” ai dati della realtà su cui essa opera. I contenuti dell’informazione subiscono una sorta di pareggiamento nel momento in cui vengono riformulati nel flusso spettacolare televisivo.
La questione posta da Brecht, da Enzenberger e da Habermas non riguarda, quindi, solo la televisione e i mezzi di comunicazione di massa ma investe un problema più vasto riguardante il rapporto comunicazione/informazione, e la possibilità stessa della sopravvivenza di una interazione comunicativa.
A questo punto, ritengo necessario rilevare il rischio di un equivoco: che il doppio dell’immagine o l’immagine doppia rappresenti, di per sé, un fenomeno negativo, una sorta di caduta da una condizione anteriore segnata da una mitica coincidenza tra le parole e le cose, da un universo naturale contrapposto a un universo artificiale, dove i termini naturale e artificiale starebbero ad indicare due situazioni diverse, una positiva, l’altra negativa, proprio nell’accezione con cui quei due termini sono tuttora declinati dal senso comune
In realtà è stata proprio l’arte moderna a mettere in crisi una simile concezione nel senso che essa nasce dalla acquisizione teorica e operativa della natura convenzionale ed astratta del linguaggio artistico. Tale acquisizione opera una vera e propria rottura epistemologica nella problematica dell’arte nei confronti di una concezione naturalistica del linguaggio attraverso una messa in questione del presupposto di una corrispondenza immediata tra linguaggio e realtà.
Il problema della comunicazione non esclude quindi il doppio del linguaggio, si pone cioè sempre come riformulazione, ma presuppone la possibilità di una articolazione linguistica che per la sua stessa interna struttura è in grado di innescare un procedimento di fruizione critica. Non si tratta tanto di introdurre un effetto di feed-back inteso in senso materiale quanto di mettere in grado lo spettatore di intervenire sì, ma su un piano appunto critico, ossia con una possibilità di scelta tra posizioni diverse, dislocate lungo una linea di gradienze tra il mero “sì” e il mero “no” della logica informazionale. Si ripropone, a questo punto, la questione del progetto, di un progetto critico che presieda alla messa in atto dei processi della comunicazione e che sappia imprimere ad essi una sorta di decelerazione e una serie di scarti rispetto alla transitività veloce e unidirezionale del messaggio puramente spettacolare.
Il problema dei rapporti tra arte, critica e mass-media rientra così nel più vasto problema della comunicazione di massa e coinvolge questioni non solo di ordine tecnico ma anche di ordine politico. Occorre tener ben fermo il concetto che radio e televisione rappresentano una istituzione pubblica e in quanto tale sorretta da una logica che non è (o non dovrebbe essere) la logica delle istituzioni private. Il rapporto tra investimenti e profitti, in quest’ultimo caso, é caratterizzato proprio da quella transitività veloce e unidirezionale di cui si diceva sopra, laddove in una istituzione pubblica quel rapporto non può essere eluso, ovviamente, ma non può nemmeno essere impostato sulla base del riflesso immediato tra i due termini.
Di fatto, però, la televisione in quanto istituzione pubblica condivide il destino delle politiche culturali di altre istituzioni pubbliche e in particolare degli enti locali che vengono sempre più misurando i loro interventi in termini di consenso politico così come la televisione li misura in termini di indici di gradimento.
Si verifica così un pareggiamento tra pubblico e privato in quanto non si riesce più a individuare una differenza sostanziale tra profitti economici, consenso politico e indici di gradimento.
NOTA REDAZIONALE
Il saggio, in forma dattiloscritta, era stato inviato da Filiberto Menna per la successiva pubblicazione degli Atti relativi al Convegno “ MEDIA e CRITICA – Critica d’arte & Mass-media” a cui aveva dato la sua fattiva adesione.
Promosso e organizzato dall’Associazione Artistica “Officina Culturale 77” dell’Aquila, il Convegno (tenutosi nel capoluogo abruzzese nel novembre del 1983) nell’intensa giornata di studio aveva registrato la partecipazione personale o mediante relazione scritta, oltre che dello stesso Menna di: Franco Torriani (Il linguaggio della critica), Paolo Balmas e Lorenzo Mango (I giornali e le riviste), Umberto Allemandi (Una rivista: “Giornale dell’arte”), Guido Aristarco (Il cinema), Gemma Vincenzini (La radio), Rino Mele (La televisione), Gianni Blunthaler (Arte e immagine elettronica), Fabio Mauri (Meta Critica). Per esclusive ragioni d’ordine finanziario, gli Atti non vennero pubblicati.
L’Omaggio di ZRAlt! ad uno dei massimi esponenti della critica d’arte non solo italiana ed agli altri illustri relatori ricordati in questa Nota, può essere considerato come un risarcimento etico-estetico di quella mancata pubblicazione.
Filiberto Menna aveva già compreso il passaggio dal comunicare attraverso lo strumento della parola e della immagine rappresentata all’informare unidirezionale dei nuovi media, i quali raccontano attraverso configurazione di relazioni in un ambiente. Questo è il cambiamento principale che è emerso con le nuove forme di trasmissione unidirezionali dei messaggi: prima elettrici e poi elettronici. Con la teoria dell’informazione (1948) i nuovi messaggi ricevuti sono tradotti da dispositivi esterni al nostro corpo; essi apriranno a un nuovo “sentire estetico” che produrrà una nuova filosofia, un nuovo linguaggio un nuovo universo fisico e psichico gestito dalla ricezione di informazioni attraverso un sistema elettro-sensibili degli stimoli che colpisce direttamente le aree cerebrali. Emerge così un altro sistema che interviene nelle relazioni sociali e nel passaggio delle informazioni, che non si trasmette più solo col dibattito della parola e delle immagini rappresentate.