La Porta del Mare non va considerata solo nella sua compiutezza e nella sua storicità; non è solo un “punto d’arrivo”, ma contiene in se una serie di spunti cruciali dell’arte contemporanea
di Antonio Zimarino
Credo che solo di recente, dopo la retrospettiva Urban Rainbow ospitata nel Museo Michetti di Francavilla al Mare nell’estate del 2016 e grazie anche a nuove pubblicazioni, si sia cominciato a rivedere e a definire meglio la profonda complessità della figura artistica di Franco Summa anche in relazione con l’esperienza dell’arte in Italia. L’insieme della sua produzione artistica appare articolata e interconnessa ed è stata sempre accompagnata da una riflessione teorica, per cui una disamina della sua poetica può essere affrontata non solo attraverso aspetti visivi: Franco Summa è stato ed è uno dei pochissimi artisti formatosi in Abruzzo a riflettere profondamente sul progetto e il suo senso, intersecando con lucidità il “fare” con il pensare creativo ed estetico individuale e l’esperienza dell’arte con la relazione sociale negli spazi urbani.
Ho sempre pensato che molto del lavoro di Summa non può essere definito solo in ciò che immaginalmente rappresenta, proprio perché esso ha estensioni significative sia nella processualità ideativa e fattiva che nelle “conseguenze” ambientali che talune opere pongono e hanno posto ai fruitori. Molti lavori oltre la loro struttura visiva, contengono e avviano complessi processi partecipativi: tale caratteristica rappresenta una intuizione ab origine estremamente interessante, che si ritrova in autori e artisti oggi molto conosciuti nel mondo dell’arte contemporanea internazionale di questo inizio millennio.
Certamente oltre alla particolare formazione filosofica, una delle condizioni determinanti della complessa progettualità creativa di Franco Summa, è quella di essersi formata ed espressa, (e “payresonianamente”, formandola), in un momento particolare e probabilmente irripetibile di una vicenda storica dell’arte italiana come è stata quella del Liceo Artistico di Pescara. Tale storia rappresenta certamente un modello di sviluppo e di sperimentazione creativa inedito e forse impensabile in altri contesti urbani e sociali italiani, del quale ho cercato di studiare l’originalità in un testo di qualche anno fa, oggi di difficile reperibilità[1].
Dalla fine degli anni Sessanta almeno fino alla metà degli anni Ottanta, in una città di provincia come Pescara, distante ma estremamente ricettiva e aperta ai flussi ideali e sperimentali italiani, si sono venute a creare delle condizioni in cui si è potuta liberare un’enorme quantità di energia creativa, espressa da proposte e idee decisamente originali e inedite. Tutto ciò avveniva anche in relazione ad un territorio, forse anche eccessivamente libero da forti vincoli normativi e per questo, in caotico mutamento: ad una ricerca documentaria attenta, Pescara appare in quegli anni, una “città sregolata” a causa delle incertezze politiche, economiche e sociali proprie dello stesso processo di ricostruzione del dopoguerra. In quel contesto sociale, politico e culturale in cui l’esigenza di ricostruzione, novità e di cambiamento coincidevano e confluivano in spinte ideali ed esistenziali, la città era divenuta laboratorio variamente consapevole di esperienze artistiche, modelli didattici, organizzativi, espositivi come non ne esistevano di fatto, in altre città italiane ben più importanti per realtà economica e tradizione: tutto era da costruire e proporre per cui, per l’arte e per il suo contesto, si elaborarono continuamente delle prassi sperimentali e creative. Il Liceo Artistico non era semplicemente una scuola, ma un luogo di progetto, partecipazione e di incontro e in qualche modo, di liberazione di idee in quanto portato avanti da “artisti” che erano insegnanti e che giustamente non insegnavano cose già dette ma insegnavano anche quello che stavano cercando o apprendendo; la formazione dello studente avveniva quindi oltre che su questioni storiche, anche occupandosi di ciò che stava accadendo, con un coinvolgimento e una presa di responsabilità nel reale che era la stessa dei suoi docenti.
In quella esperienza Franco Summa è stato probabilmente la personalità che ha avuto più chiara la dimensione teorica, sociale e partecipativa dell’azione creativa: i suoi “interventi” avvenivano sistematicamente con il coinvolgimento dei suoi studenti e di altri collaboratori, erano costantemente collocati nel reale e con duplici finalità: segnalare questioni intervenendo creativamente in luoghi marginali e costruire interazione, coscienza e partecipazione sociale in quei luoghi; insomma, riconnettere in qualche modo gli spazi possibili della vita, con la vita reale della gente per far sì che si potessero creare condizioni in cui si potesse guardare al proprio quotidiano sociale e spaziale, con diversa coscienza e partecipazione. In fin dei conti, una idea “classica” di riconnessione tra le esigenze pratiche e culturali della vita sociale e disposizione e uso dello spazio urbano, ma che al tempo appariva (e in un certo qual modo, anche oggi appare) profondamente “rivoluzionaria”: l’arte doveva uscire fuori dai suoi luoghi di celebrazione e conservazione, doveva incontrare lo spazio del quotidiano, segnalare, evidenziare questioni condivise e condivisibili, intervenire e provare a spingere la vita delle persone al cambiamento della città che abitavano; se le condizioni economiche e politiche non riuscivano efficacemente a migliorare le condizioni sociali, gli interventi culturali e artistici aiutavano senz’altro a cambiare il senso di una appartenenza, in modo da recuperare la responsabilità e la coscienza dello spazio che si abitava e si frequentava.
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Questa era, a grandissime linee, la sostanza degli interventi realizzati da Summa, dai suoi collaboratori e dai suoi studenti, interventi credo unici nel loro genere, nemmeno forse realizzabili in quelle forme e in quei modi, in altre città italiane. I luoghi erano: ponti, cittadini, quartieri degradati, marginali e a rischio, le piazze del centro, i luoghi storici e le memorie, la spiaggia; gli obiettivi erano: segnalare i fenomeni stranianti del pendolarismo e dell’urbanizzazione selvaggia, recuperare socialità e partecipazione, portare le “decisioni” nelle piazze non come discorsi ma come presenza e impegno fisico, cambiare la percezione statica e abituale dello spazio urbano e sociale. Queste vere e proprie performances collettive lasciavano sempre segni evidenti in spazi urbani solitamente marginali e non più compresi, per ricordare, sottolineare, fissare e trasformare almeno gli occhi di chiunque si trovasse ad abitare quello spazio[2].
Ognuno di questi interventi rifletteva una energia solo parzialmente utopica perché erano interventi estremamente concreti; utopici forse solo perché scarsamente comprensibili da chi la città allora (come oggi) la gestiva nell’ottica di un materialismo economico e commerciale pragmatico e per questo non attento a chi quotidianamente la città la viveva.
Certamente ciascuno degli interventi a cui mi riferisco, richiederebbe una ricostruzione contestuale ben più articolata rispetto a queste note che ne definisca l’importanza e la densità concettuale, anche alla luce di un percorso storico dell’Arte Contemporanea in Italia. Questa è una ipotesi di studio che richiederebbe risorse e un complesso lavoro di ricerca e confronto tra fonti, documenti e testimonianze; tuttavia, non sarebbe affatto impossibile, proprio perché da un punto di vista teorico speculativo, le opere di Summa, sono sempre state accompagnate da una riflessione concettuale, che si rendeva necessaria per le complesse implicazioni organizzative e tematiche che certe azioni andavano a toccare.
Per ragioni di spazio, non potendo affrontare in questo contesto l’evoluzione concettuale e speculativa che ha accompagnato tali scelte espressive mi vorrei soffermare su La Porta del Mare, un lavoro credo “esemplare” di quanto detto. Il lavoro realizzato da Franco Summa nel 1993 rappresenta, dal mio punto di vista, l’apice di un suo importante percorso di ricerca svolto tra gli anni Settanta ed Ottanta, ma concettualmente, non databile perché per molti aspetti mette insieme alcuni temi di ricerca che sono diventati, per altre vie e per altri percorsi, centrali in alcune ricerche artistiche di questo primo ventennio del Duemila.
L’analisi del progetto e della realizzazione dell’opera (purtroppo temporanea) è stata molto ben affrontata in un bel volume del 2005[3] da personalità e personaggi ben più capaci e importanti di me, quali, Gillo Dorfles, Enrico Crispolti, Lara Vinca Masini, Adina Riga e Renato Minore; i testi ivi contenuti, ne descrivono molto bene ascendenze, implicazioni, suggestioni profonde nel confronto con la vicenda storico-artistica europea fino al 1993. Quello che a me personalmente ha però incuriosito e incuriosisce dopo questa lettura non è solo ciò che fino a quel punto si è potuto dire di ottimo, riguardo quell’intervento urbano, ma ciò che quel progetto è rispetto a quanto è avvenuto successivamente all’interno dei processi dell’Arte Contemporanea ed in particolare, nel rapporto che essa ha sviluppato con gli spazi cittadini.
Appartenendo ad un’altra generazione, ho vissuto personalmente quella installazione urbana dal punto di vista del pubblico comunque specializzato in quanto dopo la laurea stavo completando la mia formazione sulla metodologie analitiche e visuali di Ragghianti. Il ricordo vivo e partecipato di quel lavoro mi spinge a riflettere non solo su ciò che è stato (stupendamente) possibile decodificare dei suoi prodromi o fondamenti concettuali e formali (operazione che già di per sé qualifica ottimamente la struttura culturale dell’opera), quanto piuttosto su quello che in quell’opera c’è come annuncio, rispetto a certi temi fondamentali, presenti in operazioni della ricerca artistica attualissima.
La Porta del Mare non va considerata solo nella sua compiutezza e nella sua storicità; non è solo un “punto d’arrivo”, ma contiene in se una serie di spunti cruciali dell’arte contemporanea che sono “ri-apparsi” in opere recenti come centrali, focali dell’esperienza contemporanea, ma contenuti in nuce in molto del lavoro di Franco Summa ed in particolare, condensato in questo lavoro del 1993.
Ovviamente i rimandi non sono diretti, perché per ragioni oggettive non credo che gli autori che andrò a citare abbiano avuto la possibilità di riflettere sul percorso artistico di Summa; penso piuttosto che esso annunci, intuisca, centri dei temi che sono diventati evidenze necessarie della realtà urbana e sociale contemporanea nell’era delle società “liquide” e della globalizzazione, e che tali temi siano oggi assolutamente “nodali” per la nostra cultura. Diciamo che dal mio punto di vista l’opera realizzata nel 1993 intuisce e imposta delle questioni attualissime, declinate oggi da artisti importanti in modi e forme diverse ma con “ideazione” e concettualità straordinariamente analoghe rispetto a taluni suoi elementi chiave.
La Porta del Mare è una sorta di arco / punto di aggregazione, dalla struttura massiccia e imponente, singolarmente resa immateriale da particolari accostamenti cromatici di colori profondi a campitura unica; una struttura architettonica che diventa un punto di colore puro, grazie alle cromie sintetiche, profonde e unitarie. Nel periodo in cui fu installata, era diventata un “segno” fortissimo non solo nello skyline grigio biancastro del “fronte” della città di Pescara, verso il mare: costituiva una sorta di violenta contraddizione visuale per via degli incroci cromatici duri, puri e luminosissimi, che interrompevano la cromia adriatica, lieve e incerta del frontline della città verso il mare, andando ad attirare attraverso il colore, lo sguardo e le persone verso l’apertura prospettica della strada che dal mare apriva verso l’interno, qualificandosi quindi come vero e proprio “portale”, accesso verso la realtà territoriale.
In senso inverso sottolineava l’accesso ad una zona “altra” rispetto a quella urbanizzata inquadrando l’orizzonte purissimo infinito e tenue del mare. In tal modo la struttura, oltre l’impatto visivo, ma proprio grazie ad esso, diventava punto di collegamento, passaggio e accesso tra dimensione più “naturale” (il mare) e “culturale” (la città) e si poneva come attrattore “sociale” e relazionale verso cui la gente convergeva e che in qualche modo spingeva alla “relazione”. Un luogo dove darsi appuntamento e dove restare, chiacchierando, straniati dal solito passeggiare o dalla funzionalità commerciale dello stesso centro cittadino. La struttura diventava “antagonista” agli stessi splendori commerciali delle vetrine e dei locali solitamente frequentati, un elemento capace di identificare, creare lo spazio, caratterizzare le relazioni, definire il contesto: costruito per il solo scopo di essere tale, cioè di proporre ancora, utopicamente negli anni Novanta, un’idea di relazione umanistica che superasse l’utilitarismo puro del commercio o persino del decorativismo funzionale dei cosiddetti arredi urbani e desse un volto più umano alle funzioni dello spazio cittadino. Un oggetto certamente monumentale ma senza massa percepibile, un disegno astratto ma fisicamente abitabile che nel tempo in cui è stato installato ha naturalmente svolto la funzione immateriale e relazionale che gli era sottesa. Guardando dal suo centro, il cielo diventava elemento cromatico, esaltato ed evidenziato dalle particolari cromie della struttura e riprendendo un progetto di “evidenziazione” che Summa aveva già proposto con alcune azioni, negli anni precedenti.
Concetti similari appartengono integralmente e completamente anche ad una serie di lavori e azioni realizzati da artisti in un altro contesto e in un altro tempo, cioè il nostro, quello del primo ventennio del Duemila.
Cominciamo dal celebre Cloud Gate (2006) di Anish Kapoor, collocato nel Millennium Park di Chicago, diventato uno dei più importanti “monumenti” della contemporaneità. Questo “oggetto” spaziale è realizzato nei modi e nella tecnologia degli anni 2000 ma esprimendo concetti estremamente vicini all’operazione intesa a suo tempo da Summa, intende creare una sorta di distorsione visuale e spaziale in grado di cambiare la percezione della piazza stessa e dello skyline cittadino dove è collocato. È un oggetto / monumento che cambia tanto la percezione visiva dello spazio che quella reale e urbanistica; che diventa luogo abitabile, senza funzione apparente se non quella di diventare riferimento delle relazioni; con il compito di incuriosire per le prospettive visuali che di là si aprono, verso il cielo e dintorno; per essere semplicemente luogo di una relazione che dentro quel tipo di spazialità diventa semplice e umanamente costruttiva e anche per costruire un contatto diretto tra cielo e terra.
Una seconda esperienza artistica attualissima che richiama alcune tematiche della ricerca di Summa è il confronto con il lavoro di arte “relazionale” portato avanti dalle performances indocumentabili di Tino Sehgal. L’artista propone e realizza delle constructed situations difficilmente catalogabili, fatte più di esperienza e di percezione che non di immagine e visualizzazione: negli spazi espositivi scelti, l’artista dispone delle “condizioni” in cui il pubblico si verrà a trovare in modo inatteso: attori / performers si confondono tra il pubblico e iniziano, con una serie di spunti e di “rituali”, a creare una interazione tesa a sviluppare rapporti di socialità, di riflessione, di analisi, in modo da favorire e innescare quello che in genere la contemporaneità non offre più: il dialogo, il confronto, l’incontro. L’opera di Sehgal è totalmente immateriale e puramente relazionale.
Il lavoro di Summa aveva già percorso questa strada a metà tra la performance e la relazionalità in diverse occasioni, ad esempio nella performance No del 1974, o nell’Arcobaleno dipinto sul Mare del 1977 oppure nel Railway Rainbow del 1987. In questi lavori, ad esempio, oltre il risultato in se, era la costruzione della socialità che diventava un aspetto / conseguenza essenziale del progetto. Ne La Porta del Mare, è la “costruzione del contesto”, l’attrattore fisico della struttura a delineare e disporre l’interazione sociale della comunità come conseguenza autonoma e naturale dell’esistenza dell’opera.
Una terza esperienza artistica mi viene in mente pensando all’evidenziazione e alla delineazione del cielo o dello “spazio” sociale e meditativo e riguarda i cosiddetti Skyspaces [4]sviluppati da James Turrel: l’artista realizza dei luoghi di meditazione laica che inquadrano il cielo e che ne evidenziano le cromie pure anche attraverso un gioco di sfumature realizzato da sistemi di illuminazione di luce led. La luce e il colore (sintetici) sono gli strumenti di evidenziazione del cielo (naturale): “inquadrano” una realtà significativa permettendone una visione altrettanto pregnante all’interno di luoghi in grado di consentire anche la partecipazione collettiva.
L’intuizione di “inquadrare” una realtà, per sottolinearla ed evidenziarla sia per ragioni estetiche che sociali è testimoniata nel lavoro di Summa già nel progetto Farsi un quadro, attivo dal 1970 al 1973 o in altro modo nell’ Histoire d’O, del 1976 nella quale si evidenziava un ex postribolo nella città vecchia di Pescara, attraverso un gigantesco cerchio fluorescente; l’idea di evidenziazione si apre successivamente sia nella Porta del Mare che nella Porta del Cielo, realizzata a Faenza nel 1995. Ovviamente il lavoro di Turrel ha caratteri estremamente differenti, più interiori e meditativi rispetto all’impegno sociale / urbanistico dei “connettori” spaziali e sociali elaborati da Summa. Addirittura l’intuizione meditativa di connessione cielo/terra è storicamente ancora più lontana, ripensando agli antichi chiostri medioevali o alla stessa purissima meditazione laica realizzata dagli architetti di Federico II nel perfetto spazio ottagonale di Castel Del Monte che inquadra la porzione di cielo come elemento concettuale simbolico.
Turrel realizza degli spazi ieratici nei quali iniziare una sorta di raccoglimento meditativo tendenzialmente individuale ma condivisibile lì dove per Summa lo spazio diventava uno spazio di socialità anzi una rivelazione della socialità e appunto, un elemento di evidenziazione urbanistica che segna luoghi in cui si incrociano orizzontalmente e verticalmente gli spazi della città. La Porta del Mare è funzionale al contesto urbano, non era nata per “separare” (come invece tendono a fare, per altre ragioni speculative i lavori di Turrel) ma piuttosto per riunire, per guardarsi, per riconoscersi come cittadini che condividono un tempo e uno spazio contemporaneo.
La Porta del mare e la ricerca che ha portato alla sua realizzazione ha dunque indotto Summa ad elaborare e definire (e in qualche modo, ad affrontare) alcuni nodi sensibili che sono oggi centrali nella ricerca problematica dell’arte contemporanea destinata agli spazi pubblici: studiare con attenzione il ruolo che l’opera ha con il contesto che la ospita; stabilire la sua qualità visiva e spaziale in esso; proporla come elemento “attivo” e costruttivo della relazione sociale e della vita quotidiana dei suoi potenziali fruitori, riportare l’attenzione, prendere coscienza sia dello spazio che della relazione, “abitare” l’opera.
Ovviamente non si può pensare a rapporti diretti con quanto realizzato e proposto da Kapoor, Sehgal o Turrel ma certamente possiamo notare il fatto che, per altre strade, per altre condizioni, i lavori di Summa siano arrivati ad indicare quelle e non altre situazioni, condizioni, priorità, come “centro” dell’azione dell’arte urbana o comunque di un arte che non sia solo rappresentazione di concetti ma potenzialmente, costruttrice di possibilità.
Dunque ci sono molti spunti passibili di riflessione ma soprattutto questi “incroci” concettuali realizzati praticamente, al di là del tempo e al di là delle conoscenze dirette dell’una o delle altre opere, mi fanno pensare all’esistenza di inevitabili “costanti” che si muovono nella profondità della creazione e della proposta dell’arte. C’è una “antropologia fondamentale”, un sostrato che ritorna ciclicamente nel tempo e che solo chi ha una grande attenzione all’Uomo e alle sue caratteristiche relazionali e interiori, riesce a cogliere. E a questi bisogni fondamentali di essere, di partecipare, di vivere e relazionarsi, di cercare il senso del proprio “abitare” il mondo, si cerca in qualche modo di dare risposte. Certamente i lavori di Summa hanno seguito questa strada e quindi arrivano in qualche modo a certe “essenzialità” di quello che come uomini cerchiamo e culturalmente proviamo ad elaborare.
[1] A. Zimarino, Problemi e prospettive di ricerca: un groviglio da dipanare, in Vicende, testimonianze e contesto di una esperienza italiana. Liceo Artistico G. Misticoni 1947-1998, a cura di A. Zimarino, Provincia di Pescara, 2004.
[2] Cfr. http://www.francosumma.it/Summaars cfr. anche Franco Summa, La vita è sogno, la vita è segno, Tracce, Pescara, 2000. In particolare si possono indicare i seguenti lavori: 1968, Cento pitture – 1970-73, Farsi quadro – 1973, Per incontrarsi – 1971, Un segno rosso nella piazza Luca da Penne; Parametri di Incontri – 1975, Un Arcobaleno in fondo alla via – 1975, Pensierazione a Salerno – 1977, Arcobaleno dipinto sul mare – 1977, En Arché – 1979, Martyr – 1981, Railway Raimbow – 1987.
[3] AA.VV., Franco Summa Town Art L’Arte della Città, Edizioni Gangemi, Roma 2005.
[4] L’artista, al 2013 ne ha realizzati ben 82 in diversi luoghi degli Stati Uniti e d’Europa.
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