Sto solo sognando di dormire e ho perduto il mio corpo da qualche parte in fondo al sogno
di Luigi Fabio Mastropietro
Dall’inverno della vostra vita
ogni voce deve essere bandita,
sola arma una croce smarrita
nell’inverno della vostra vita.
(La parola dell’uomo, Denis Brandani)
Missa brevis
1. Dominus. Paenitentia
(Ariel e Joshua)
30 luglio 2006 – 00,53
«Mi senti Ariel? La situazione non mi piace…agli infrarossi si vede del bianco sui tetti. Confermo, il visore HUD alla massima scansione. Sui tetti sotto il minareto della moschea sono stese delle lenzuola bianche. Sembra una tendopoli di lenzuola e se ci sono dei civili là dentro… »
«Te l’ho già detto, Z43, non fare storie adesso… i droni hanno fotografato tutta la zona di strike a bassa quota, nei minimi dettagli. Con quelle lenzuola ci coprono i loro fottuti missili…vai avanti con la procedura e non discutere.»
2. Gloria. Precatio
(Joshua e Fania)
La prima notte del sogno conto settantasette porte.
Mio fratello cammina davanti a me in un lunghissimo corridoio sotterraneo illuminato a stento da una fila di lampade a petrolio appese ai muri. Gavriel continua ad aprire porte su porte con un mazzo di chiavi verdi che sembrano lucertole.
Il sogno non ha suoni né rumori, come se mi avessero imbottito le orecchie di ovatta. Mia madre ci segue sorridendo appena, con la fronte imperlata di sudore. Vorrei asciugarla quella fronte così trasparente ma sono nudo eccetto gli anfibi neri ai piedi. Mi vergogno di questa mia stupida nudità ma non ho freddo né caldo. Non sento niente, voglio solo andare avanti. Voglio uscire da questa catacomba che si apre nella nostra vecchia cucina della casa di Ramat Gan. Prendere i miei vestiti nell’armadio di quercia in fondo al corridoio.
Ogni porta continua ad aprirsi su un’altra porta dopo pochi metri, all’infinito.
Poi a un tratto le mie orecchie riprendono a udire. Dietro di me, mia madre sussurra Sch´av b´ni schaw bimnucha. Sta cantando la ninna nanna preferita di casa Sharon e io so di essere finalmente davanti all’ultima porta. Mio fratello non la apre come le altre, con il suo mazzo di chiavi gotiche. Si ferma ad accarezzare con la mano una forma graffita nel legno grigio: יהךה. La riconosco. È nella Tanakh della sinagoga. È il tetragramma sacro di Ădōnāy. Il nome impronunciabile di Yahweh. Io sarò quel che sarò, dice mia madre dietro di me, ricordando la lingua che non ha mai voluto parlare.
La porta con il tetragramma si apre docilmente in un soffio sotto le mie dita, ma non vedo nulla perché
mi sveglio in uno schianto del buio, come se tutta la luce del sogno fosse stata ingoiata dalla notte. Le braccia rovesciate dietro la fronte di ghiaccio, nel gesto di chi sta per essere fucilato.
Al mio fianco, Fania continua a dormire, la testa affondata nel cuscino, con l’aria di essere morta. L’ennesima fuga alcolica della sera prima sembra averla sfinita. È il suo modo di dimenticare quello che io non dimenticherò mai, finché avrò vita.
Tutti quei bambini morti.
Al mio rientro quella notte l’ho trovata accucciata sul divano a dondolare con tutto il corpo, come se pregasse leggendo la Tōrāh. Gli occhi chiusi e un bicchiere vuoto tra le mani. La televisione era accesa e trasmetteva l’ennesima diretta sui soccorsi. Appena si è accorta di me, si è alzata senza una parola. Barcollava. Ho dovuto sostenerla con un braccio intorno alla vita perché non cadesse. Allora mi ha puntato i gomiti sul petto guardando a terra e mi ha spinto lontano da sé con un lamento di gola che mi ha fatto venire i brividi.
Ora sento formicolare tutto il corpo e la testa affogare nel gorgo del tempo. Darei un braccio per tornare indietro solo di pochi giorni. Mi alzo e vado in cucina a bere un po’ d’acqua. La finestra sull’acquaio è sollevata a metà e dalla spiaggia vicina il vento non porta con sé l’odore marcio del mare di Jaffa. Questa mattina nell’aria c’è il profumo dei cedri. Come tre anni fa.
Io e Fania eravamo a Sidone sul finire dell’estate. Al tramonto scendevamo nella piccola spiaggia davanti al Castello del Mare. Il mare aveva lo stesso profumo aspro. E l’aria la stessa luce dell’aurora. Solo tre anni fa. Fania aveva già Nathan nella pancia e facevamo progetti. Che non prevedevano di bombardare qualche villaggio intorno.
Non so quante notti dovranno passare prima che io trovi una via di uscita. Una ragione al fatto che non posso tornare indietro a quella sera. Non c’è un modo per continuare a vivere senza ricordare. Non c’è un modo per continuare a ricordare senza morire. Se vivrò, non potrò mai più abbracciare Nathan senza sentirmi perduto per sempre.
Al ritorno dalla missione, sono entrato nella sua stanza come un ladro, con il terrore che si svegliasse e mi guardasse in faccia. Da quella mattina, non posso pensare più a lui senza sentirmi un assassino. Quando vedo Nathan, il tizzone ardente che ho nel petto si immerge nel lago dei suoi grandi occhi neri e frigge e fuma e mi fa piangere per il dolore. Ma non piango per il dolore. Piango perché ho paura di me. È assurdo, ma ho paura di poter fare del male a Nathan. Dopo quello che ho fatto.
Mi sento come se fossi uno di quei bastardi di sceicchi ulema che si nascondono nelle case della gente dei Territori e banchettano con il sangue dei loro figli. Li mandano a farsi esplodere alle fermate degli autobus, davanti ai ristoranti all’aperto, mentre loro se ne stanno al sicuro nell’ombra delle loro moschee, a lavare il cervello dei prossimi martiri. E noi? Il tempo di raccogliere i nostri morti dall’asfalto delle città e andiamo a bombardare con gli elicotteri le spelonche della loro gente. Poi ci chiudiamo in casa ad aspettare il prossimo Shabbath, per recitare il Kiddush su una coppa di vino nero. E nessuno muove più un dito per fare qualcosa. Fino alla nuova strage del nuovo kamikaze e poi di nuovo gli aerei e le bombe e le macerie e i morti.
Quanto può durare tutto questo, senza impazzire tutti in massa, ebrei e arabi? Ma forse siamo già tutti pazzi furiosi se pensiamo di difenderci dai razzi di Hezbollah andando a massacrare degli innocenti. Rispondere colpo su colpo, occhio per occhio, fino a gettare il mondo nell’oscurità.
Che sia maledetto Ehud Olmert e tutto il suo branco di politicanti macellai di guerra che pensano di avere le mani più pulite dei becchini di Tsahal. E che sia maledetto io tre volte, mi si dovevano seccare le mani, come fango al sole, il giorno che ho pilotato il primo F–16. “Con Heyl Ha’Avir, per difendere la pace di tutti dall’alto dei cieli!”, recita la propaganda criminale della IAF. Ma il vero criminale è Klausner, con i suoi slogan di merda. Il suo sostegno psicologico ai combattenti, solo altri slogan di merda. I suoi corsi di addestramento “im siebten Himmel”, solo propaganda di merda. Piccoli ricatti e piccoli premi, uno sull’altro, grado per grado, giorno dopo giorno. Per costruire la scimmia assassina. Ma questa è stata l’ultima volta che la scimmia ha premuto il pulsante.
Almeno potessi sapere se è stata veramente una bomba a teleguida laser a far crollare l’edificio, come dicono.
Domenica notte eravamo in dodici a volare e solo in tre ad avere gli MK–84 a bordo. Ma io ero uno dei tre.
3. Sanctus.Veritas
(Kharim)
30 luglio 2006 – 8,07
Allah, dammi il coraggio di guardare in faccia l’orrore.
Ancora dormivo quando questa mattina Nayef mi ha chiamato dalla Mezzaluna Rossa di Tiro. La sua voce era strana, sembrava parlare con difficoltà. Nelle cantine dell’edificio crollato c’erano molti profughi dai villaggi vicini. Famiglie in cammino per Beirut. Qualcuno aveva detto loro che il posto era sicuro per la notte.
Arriviamo poco dopo le otto. C’è un’aria di desolazione sotto il sole ruggente di Qana. Nelle strade la gente è poca e ci guarda con la febbre negli occhi.
Non ci sono madri intorno a noi, solo i primi morti sulle carriole. Qualche bambino con la faccia bianca e le narici piene di sangue. Su una stuoia, nel parcheggio degli autobus, il corpo impolverato e scomposto di una donna coperta a metà da un lenzuolo a fiori azzurri.
La palazzina crollata è proprio sotto il minareto della moschea. I tre piani si sono sbriciolati sotto il peso del tetto di cemento armato. Un missile teleguidato, dicono. Di fabbricazione americana, a giudicare dai frammenti. Forse un MK–84. Novecento libbre di esplosivo intelligente.
Nayef mi viene incontro con un fagotto bianco tra le braccia. Ha gli occhi arrossati e l’aria di chi sta salendo sul patibolo. Mi dice che forse non c’è più nessuno vivo sotto le macerie. Mi dice di mettere la mascherina e di segnare lo scavo. Poi si allontana di corsa verso le autoambulanze.
Dopo pochi minuti di lavoro la camicia mi si attacca alla schiena e preferisco continuare a scavare a torso nudo. Poi, subito sotto il frontone del tetto, in cima ad un mucchio di terra e cavi divelti, quello che sembra il tubo bianco di una stufa. Ci sono proprio sopra e una mano fredda mi strizza lo stomaco.
Non è un tubo, è un braccio sporco di gesso.
Di colpo, dall’altra parte delle macerie, una voce getta un urlo come un macigno che cade. Sobbalzo e per poco non cado all’indietro nella scarpata di pietre e detriti. Poi il grido si appuntisce in un sibilo acuto senza fine che non può essere sentito senza impazzire. E si perde altissimo in questo mare cobalto scuro che Qana ha per cielo. Alla fine muore in un lamento strozzato.
Adesso le mie mani scavano con furia ma incontrano solo altra terra e altre pietre fino a quando non la vedo in faccia, sotto le mie ginocchia affondate nel tumulo.
Una bambina distesa sul fianco, nel fondo, con un braccio spezzato e l’altro sul viso gonfio di polvere. Tre anni, forse quattro. La bocca è piena dei calcinacci che l’hanno soffocata. Il pigiama sporco di terra strappato sulla piccola spalla vuota.
Mi guarda fisso con un occhio spalancato del verde più smeraldo che c’è al mondo. L’altro è perduto. L’orbita è tumefatta e piena di sangue raggrumato.
Mentre la sollevo piano sotto le ascelle, penso a sua madre e suo padre. E desidero che siano morti anche loro. Lo desidero con tutto me stesso, dal profondo delle viscere. Che la morte li salvi da questa vista.
La sollevo in alto sopra le mie ginocchia e per un momento siamo entrambi senza peso e senza vita.
Quando l’attiro verso di me, il suo piccolo corpo di pezza mi abbraccia come ha fatto con la madre la sera prima di morire.
4. Agnus. Immolatio
(Joshua e Nathan)
La seconda notte del sogno il letto si muove e vibra per qualche istante sotto l’onda d’urto di un terremoto.
Ma non è un terremoto. Passano ancora Apache sulle nostre teste e i loro fari illuminano a giorno i cortili mangiati dal salnitro dove i nostri figli giocano alla morte.
Il rumore dei motori come ferraglia rabbiosa è insopportabile e mi scoppia la testa ma dentro sono vuoto e voglio solo dormire fino a morire. Può andare a fuoco la casa, il mare può inghiottire l’intero quartiere e io non batterò ciglio. Morire e dormire
sono di nuovo davanti all’ultima porta.
La porta con il tetragramma. È rimasta aperta dalla volta scorsa. Spalancata su uno stanzone basso in penombra.
Mia madre e mio fratello devono essere in un altro sogno, perché sono solo. Forse si vergognano di me perché sono un assassino e non sogneremo mai più insieme.
A terra davanti ai miei piedi ci sono tre file di corpi dentro sacchi neri. Ogni fila conta quindici unità, allineate in parallelo con la parete illuminata a giorno dai neon dell’obitorio.
Il nome, l’età e la provenienza del cadavere sono stati scritti con un pennarello rosso sui sudari di plastica. Prima in arabo, poi in ebraico.
Leggo i nomi ad alta voce. Come nel primo sogno, non sento la mia voce, ma sento il mio sterno aprirsi lentamente. Si apre piano, con un dolore dolce al centro del petto e ingoia ogni nome, ogni parola come la gola che beve l’ultima aria.
Mehdi Hashem sette anni Qana, Hussein al–Mohamed dodici anni Qana, Abbas al–Shaloub undici mesi Qana, Khalida Chaloub quattro anni Qana…
Mentre sto leggendo, vedo con la coda dell’occhio il tavolo di dissezione al centro della stanza. Sul tavolo c’è un sacco senza nome. L’unico cadavere non identificato.
Non si devono aprire i sudari dei bambini. Non si devono contaminare i loro corpi con le mani impure di chi ha peccato. Ma è l’unico sacco senza nome. Devo sapere.
Mentre le mani fanno scorrere la zip, la paura mi assale alle spalle e lo sterno si richiude con un tonfo nella roccia.
Il volto di Nathan è bello e sereno come sempre. Sembra dormire. Ma è tutto bianco di gesso.
Due di nulla
“Uno strato di buio, uno di luce,
si salda la ferita lembo a lembo
che da buio e da luce mi conduce
a versare la vita nel tuo grembo”
(Patrizia Valduga)
I
“Una stanza per stanotte”, chiedo al giovane portiere che con la testa china sullo schermo del portatile sta cercando il modo più facile per entrarci dentro.
“Con servizi?”, mi risponde senza guardarmi, sollevando una mano per tenermi lontano dal gorgo cibernetico che lo sta risucchiando.
Quasi stento a credere che quest’albergo dall’aspetto così moderno, persino elegante per una città turca di frontiera come Suruç, possa avere stanze senza bagno. Una cosa è certa: dopo aver dormito per una settimana nella moschea di Kobane insieme ad altri trecento tra volontari e combattenti curdi, anche il bagno in comune dell’intero piano di un albergo in rovina mi sembrerebbe un lusso impagabile.
La mia camera è al terzo piano. C’è perfino una sorta di moquette azzurra e i muri della stanza sono stati ridipinti da poco. L’arredo è spartano, ma la sedia e il tavolino di formica sembrano nuovi. Il bagno piastrellato è piccolo ma pulito.
La luce del tardo pomeriggio scende in lunghi raggi rosso arancio dalle finestre ermeticamente chiuse per l’aria condizionata che però non funziona. Nella stanza il caldo è soffocante e il silenzio tangibile. Sono tagliato fuori dai rumori della strada come dentro una camera iperbarica.
Per la prima volta realizzo di essere veramente solo.
Oggi 19 marzo 2018, dopo sette mesi passati a combattere negli avamposti del Kurdistan siriano prima i miliziani dell’ISIS e poi i turchi e gli jihadisti dell’Esercito Libero Siriano, sono fuggito da Kobane. La “città del sole” è investita da una pioggia di fuoco che la sta incenerendo. E nessuno può scongiurare il suo martirio. L’Occidente la vuole morta e vuole morta l’utopia della repubblica del Rojava.
Prima ancora di Kobane, mi ero rifugiato tra le rovine del tempio di Ayn Dara, a dieci chilometri da Afrin. Con me c’erano Kharim, il libanese della Mezzaluna Rossa, e sei miliziani Curdi dell’YPG. I Curdi erano convinti che nascosti tra le rovine del tempio avremmo evitato i bombardamenti a tappeto dell’aviazione turca. Ishtar, la Dea Madre di Ayn Dara, non avrebbe permesso ai turchi di avvicinarsi. Così dicevano.
E invece, alle prime luci dell’alba del 26 gennaio, è scoppiato l’inferno. Le bombe di Erdogan hanno fatto a pezzi le dodici sfingi di pietra e i due leoni di basalto eretti a protezione del tempio più di tremila anni fa. Le rovine monumentali di Ayn Dara e l’acropoli di Kinalwa sono state praticamente rase al suolo in meno di mezz’ora. Tutti i Curdi sono morti. Io e Kharim ci siamo salvati per miracolo, solo perché non riuscivamo a dormire. Eravamo appena usciti nel portico a fumare una sigaretta, quando una delle prime bombe è caduta a poca distanza dalle quattro gigantesche impronte di piedi umani che la leggenda vuole appartengano all’incarnazione terrestre di Ishtar. La deflagrazione ci ha lasciato quasi del tutto sordi per almeno una settimana.
Tra le mie cose nello zaino avevo anche un rasoio elettrico che non ho mai usato. Non lo trovo più, devo averlo perduto scappando da Kobane. Ho deciso che mi farò crescere la barba come un pezzente salafita e taglierò tutti i capelli, così non potranno cadermi quando farò la chemioterapia per il cancro che sento germogliare nella pancia.
L’armadio a muro di fronte al letto è coperto da uno specchio opaco e lungo fino al soffitto e rimanda la mia immagine con una profondità che mi dà le vertigini. Le tempie mi pulsano a mille watt per canale e il palato è secco come un pugno di sabbia.
Adesso mi piacerebbe veramente riuscire a dormire e svegliarmi in un altro eone, come dopo qualche secolo di ibernazione, completamente insensibile a tutto. Se fanno effetto le ultime due compresse di Stilnox, non ho da chiedere altro fino a domani mattina.
Opere di Michele Gammieri (a cura di Luigi Fabio Mastropietro)
Il letto è fresco e piuttosto ruvido. Di quale materiale erano fatte quelle lenzuola del corredo di Fania che mi scorticavano a sangue i gomiti appena mi giravo nel letto, di lino grezzo, di canapa, di tela finemente vetrata? Fu bello le prime volte ritrovarsi abbracciati nudi nel lettone, pagando questa libertà con vistose abrasioni sui gomiti e le ginocchia. Poi quella biancheria da supplizio di San Bartolomeo fu messa da parte e con gli anni le “stimmate dell’amore” lasciarono il posto alle occhiaie della lettura fino a tarda notte. Sempre che fossi a casa e non in missione, come accadeva sempre più spesso negli ultimi anni prima di separarci.
Dopo mesi di oscuramento, ripenso a Fania e mi accorgo con una fitta di dolore di non ricordare più il suo volto. Per quanto mi sforzi, non riesco a evocare nella mia mente l’incarnato chiaro del suo viso. Non in modo preciso. Vedo solo un’immagine sfuocata e lontana. Invece ricordo bene le sue mani e mi aggrappo al fantasma di quelle dita lunghe e affusolate come un naufrago a un relitto. Sono certo che se anche le sue mani svaniscono, sarò finito.
Per la prima volta dopo anni, questa sera mi manca veramente. Avverto la mancanza di Fania come la mancanza della donna in assoluto. Della mia donna. È un lutto irreparabile e definivo. Un buco feroce nello stomaco, che mi inchioda alla fine. Sento che questa assenza sta divorando la mia vita dal di dentro, riducendola a un guscio vuoto, senz’anima.
Ora sono disteso sul letto a pugni chiusi, mentre la luce del sole si va accartocciando nella stanza come una vecchia fotografia bruciata. Deve essere già tardi e comincia a fare più fresco e mi sento stanco da morire.
Il sole inonda la grande stanza delle sedie rosse e io sono seduto al suo fianco.
Possibile che sia già domani?
Lei si è alzata per passare un bicchiere a qualcuno alle sue spalle. Ora mi sta addosso, con il corpo teso all’indietro, il fianco e l’ascella un solo arco che mi sfiora il viso.
Nel sogno percepisco ogni singolo feromone del suo odore. Un dolce afrore amaro che mi fa socchiudere gli occhi e aspirare ancora più a fondo l’istante eterno della sola cosa per la quale vivo. Catturare il suo profumo per sempre.
In un battito di palpebre lei è in piedi di fronte a me. Mi guarda fisso negli occhi e i suoi occhi sono fondi del blu più nero del nero, perduti ribelli nelle onde dei capelli che bagnano le guance radiose.
Lei mi guarda come nessuno mi ha mai guardato. Mi guarda come se fossi suo da sempre.
Socchiude le labbra e mi guarda dentro come se fossi sangue suo dentro di me.
Le sue labbra tremano appena mentre pensa come io penso lei.
Cadere dentro di lei come pioggia nel pozzo. Bere il suo respiro per vivere. Morire e non avere altro ricordo che le sue mani.
Ormai sono affondato per sempre nel sogno, la mia altra vita che vivo da sempre.
Il richiamo lancinante della sveglia è come un parto brutale e sono strappato dalle viscere del sogno senza pietà.
Questo sogno lacerato dal risveglio mi ha spezzato il cuore e mi ha lasciato ancora più sfinito di ieri.
Si sogna il paradiso una volta sola nella vita, quando la notte muore, per prepararsi a morire. Oggi incontrerai Kharim per attraversare insieme il confine. Non saresti certo il primo a morire sulla linea di una carta geografica. Allora conviene che ti dai una mossa e ti alzi.
Ma il sogno non molla la presa perché non riesco ad alzarmi. Ripenso a lei e al suo profumo e posso vedere con gli occhi della fine come deve essere stato allora. Come deve essere ancora adesso, una donna che mi vuole, che cerca le mie mani, che inarca la schiena per spingere il suo corpo contro il mio, la pelle tesa sotto i vestiti.
Se chiudo gli occhi, posso sentire con tutto il mio corpo il corpo di lei premere sul mio. Quasi la tocco adesso, mentre fa scivolare i suoi capelli tiepidi sul mio viso, guardandomi ancora una volta in fondo agli occhi. Vorrei accarezzarle la testa e dirle che vivo solo di lei ma alla fine il suo respiro si scioglie nell’aria e io la perdo, mi perdo nel suo ricordo ancora una volta.
Sono sempre a letto, sdraiato sulla schiena, paralizzato dal sogno di un sonno invincibile. Avverto una strana rigidità per tutte le membra, dalla fronte fino alle dita dei piedi. Una violenta pausa nello scorrere del sangue che mi riempie di terrore eppure mi solleva verso l’alto, abbattendo la gravità. È arrivata la mia ora?
L’aria, il pensiero, il battito. È tutto finalmente immobile. Sono immerso nell’azoto liquido e ho freddo. Ma non posso muovere un muscolo e allora comincio a scendere. A cadere nel vuoto. Gli occhi stretti e le membra impassibili, sempre più in fondo, senza rumore, sempre più velocemente nel ventre della grande Madre. Là dove finisce tutto perché tutto ha inizio.
Ora sento di aver toccato il fondo della caduta o del sogno, perché mi sento dormire. Riesco appena a socchiudere le palpebre pesanti e intravedo il letto e la stanza in penombra. Mi accorgo di non sentire più il braccio sinistro. Dal gomito in giù è una pietra perduta sotto la nuca.
Provo a girarmi per cambiare posizione ma resto ancorato con il gomito al cuscino. A stento posso ruotare il capo da una parte e dall’altra ma non posso muovere il resto del corpo perché è imprigionato nel sogno per intero e non posso più aprire gli occhi perché sto sognando e nel sogno mi guardo dormire e sognare in questo letto, con la testa affondata nel cuscino e le braccia legate dietro la nuca e se questa è la morte, allora la morte è un sogno di contenzione.
Il sogno procede senza tempo, respirando lentamente e non succede niente. Sto solo sognando di dormire e ho perduto il mio corpo da qualche parte in fondo al sogno.
Un baluginare di sussulti sotto le palpebre serrate e nel braccio mi esplodono mille aghi incandescenti e allora finalmente sono certo di essere sveglio per il dolore lancinante. Provo a sollevare la testa, voglio alzarmi adesso e bere un po’ d’acqua, ma me lo impedisce un peso. Il peso del doppio sogno che ho ancora nella testa.
Sono senza fiato per le fitte di dolore al braccio, quando sento un fruscio morbido sul materasso accanto a me e penso che allora sto ancora dormendo. Devo scuotere il sonno, devo ricordare dove sono, chi c’è al mio fianco.
Gli occhi sono due sacchi di cemento, riesco ad aprirli con un doloroso sforzo di volontà, ma non riesco a girare del tutto la testa. Con la coda dell’occhio vedo di lato il materasso vuoto e poi lo vedo incurvarsi leggermente al centro come sotto l’impronta di un corpo che si sta sdraiando al mio fianco. Possibile che il dolore al braccio non abbia interrotto il sonno e i sogni?
Mi sento così lontano eppure così presente. Penosamente vigile. Il movimento del materasso, il soffio attutito nell’ombra e l’improvvisa inquietudine del desiderio che mi impasta la voce quando apro la bocca per chiedere al nulla: “Chi sei?” Allora il materasso si risolleva e una spuma di vento fresco increspa l’aria sul mio addome, come se lei fosse passata sopra di me.
“Chi sei?”, la voce mi graffia la gola e nello stesso istante dal braccio sinistro ancora formicolante guizza un impulso caldo di energia che mi infiamma le dita. La mano si alza a inseguire stupidamente la presenza appena defluita su di me e, mio Dio!, percepisco sotto i polpastrelli qualcosa, un’effervescenza fluida e appena pastosa. Sembra che bruci al contatto delle mie dita e si accenda allo sguardo di opalescenze rotonde e levigate. Il chiaroscuro della stanza è fluttuante, instabile alla vista adesso, forse per il sudore freddo che mi vela gli occhi.
Il braccio sinistro trascina in alto con sé tutto il mio corpo, finalmente libero per essere inghiottito da quella vertigine galvanica che scende prepotente dentro il mio stomaco esposto, nelle viscere contratte, rimescolando il sangue e gonfiando la linfa nelle membra scosse da un tremito freddo.
Poi vedo lo spazio sopra di me tendersi e incurvarsi nello spasimo del lampo ed esplodere in mille fiotti di colori iridescenti e muti. Fiamme di luce viva che all’unisono con il mio sangue pulsano il mistero della vita, soffiando il corpo di lei nell’aria sopra di me.
Il fuoco dei miei occhi si spegne una prima volta nel buio e poi torna e si spegne ancora, in una successione balenante di lame nere e di folgori corrusche che illuminano per una frazione di secondo la forma che vibra lambendo il mio corpo, imperfettamente racchiusa dalla pelle del mio delirio nella curva del corpo femminile nudo e lunare in trasparenza, finalmente abbandonato su di me, le braccia intorno al mio volto, il ventre e le cosce un’onda aderente al mio pube, cielo che beve la terra.
La luce del suo corpo è appena più chiara dell’aria intorno, anzi la disegna e la concentra in un miraggio lattescente che avvolge la mia pelle con la carezza tenace e vellutata del lago, legandomi all’ultimo suo respiro immortale, come se non ci fosse mai stata morte più bella.
Incredulo e stregato per quello che mi sta succedendo, penso che non può essere vero, che non posso essere sveglio. Eppure percepisco il mio sesso eretto e pulsante, con tutto me stesso dolentemente infisso nel vuoto, mentre il corpo di lei inspira dentro di sé il mio corpo, espira dentro di me il suo nome e la coscienza di essere uno, non più due, sale come l’onda che tutto contiene e tutto impregna di senso.
E come il mare dilaga e risuona potente al ritmo del battito impazzito dei colori che esplodono muti intorno a noi, culmine dopo culmine, fino al culmine ultimo della vertigine che muore a picco dentro il fondo del mondo, risalendo poi dal pozzo come l’alta marea che tutto riempie e affonda nel buio fino all’ultima particella di Dio che va a sciogliersi nella suprema acqua scura, e non vediamo e non sentiamo e non viviamo più questa vita.
II
Non so quanto tempo è passato. È come nascere adesso.
Non so dove sono ma i miei occhi vedono ancora.
Fuori il sole deve essere già alto. Intorno c’è luce bianca.
Sono sdraiato supino sul letto. Le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Davanti a me, lo specchio dell’armadio riflette una stanza pulita e ordinata.
Al centro, un letto disfatto e vuoto.
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