Gli anatemi contro gli artisti degenerati furono scagliati, in occasione della inaugurazione dell’Entartete Kunst, dal Fürer in persona

di Antonio Gasbarrini

“Sono riarsa di sete e muoio: ma date, subito, / fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine. / Ed essi ti lasceranno bere alla fonte divina, / e in seguito tu regnerai assieme agli altri eroi”.
(Dall’Editoriale del primo numero di ZRAlt!, Estate 2013)

La Storia dell’arte moderna e contemporanea, d’avanguardia in particolare, è lastricata con molte “pietre d’inciampo memoriali”. Tra di esse, la demenziale rassegna itinerante dell’Entartete Kunst, meglio conosciuta come mostra sull’Arte degenerata (Monaco, Berlino ed altre città tedesche ed austriache, 1937-1938), può essere considerata la summa della feroce avversione degli Stati dittatoriali verso il rigenerante innovamento creativo portato avanti (En avant! aveva proclamato  il giovanissimo Rimbaud) da artisti, scrittori, poeti, musicisti….

I successivi autodafé berlinesi (1939) e parigini (1943) con l’incenerimento di capolavori su capolavori, alla stregua di quanto già avvenuto con gli “scritti eretici” di un visionario, profetico Giordano Bruno (febbraio 1600), sono stati i casi più eclatanti di quella inesauribile, steineriana “Poesia del pensiero” mandata sì al rogo da ottusi e vendicativi inquisitori, ma non per questo privata della sua limpida voce sopravissuta, tramandata com’è sino alle attuali generazioni. I recenti, maleolenti rigurgiti nazi-fascisti circolanti in Italia e nell’intera Europa, già devastata dagli orrori dell’Olocausto e dalle insulse guerre alimentate da retrograde, sanguinarie ideologie totalitarie, vanno contrastati con ogni strumento a disposizione d’una inarrendevole Ragione. Tra di essi, la salvaguardia – al cospetto di menzogneri negazionismi d’ogni genere – d’una salvifica, rammemorante Mnemosine. Da queste considerazioni è nata l’urgenza di riproporre, in merito, un testo scritto una ventina di anni fa titolato “Quando l’arte d’avanguardia si fa mostra”: un non celato calembour del mio contributo al convegno interdisciplinare  “I Mostri” promosso e organizzato dal Dipartimento di Studi Comparati dell’Università G. D’Annunzio di Pescara.

1. Il sonno della ragione genera mostri

Sintetizzando le multiple, interrelate, stratificate matrici etimologico-semantiche di mostro (e nel nostro caso la sua speculare declinazione femminile mostra), Cicerone mette sullo stesso piano dei monstra «gli ostenta, i portenta, i prodigia [che] sono stati saggiamente chiamati così dagli antichi, perché:

portano alla vista” (ostendunt), “annunziano” (portendunt), “mostrano e ammoniscono” (monstrant), “preannunziano” (predicunt).[i]

Definizioni, queste, più ampie del polisemico téras greco che comunque non implicava il più tardo concetto di mostruoso, ovvero di forme antro-zoo e fitomorfe variamente combinate e congiunte in un unico corpo in netto contrasto con il normale corso creativo della natura, e perciò foriere di paure (l’ancestrale paura della diversità).

Baricentro delle metamorfosi linguistiche resterà comunque il verbo monstrare, a sua volta imparentato con moneo, e cioè indicare la via da seguire (spesso d’ordine etico).

Via che nell’Arte d’avanguardia o nello spirito dell’Avanguardia, protostorica (dal 1871-72 al 1908), storica (dal 1909 al 1939) e neo (dal 1940 ai giorni nostri, e con tutti i limiti che ogni periodizzazione comporta)[ii], è progressiva attenuazione – fino alla completa sparizione – del contenuto rispetto alla forma e della parallela prevaricazione del significante sul significato.

Forma autonoma ed anarchica, entrata subito in conflitto con i canoni classici dell’ordine, della simmetria e delle proporzioni, e  la cui disintegrazione farà affermare ad Erich Kalher che le “stravaganze e gli eccessi dell’avanguardia sono sintomi della stessa tendenza alla disumanizzazione che ha prodotto i crimini contro l’umanità del nostro tempo”[iii].

Ma l’equazione Forme (mostruose) dell’Avanguardia = male, è una vera e propria falsificazione storica.

Prima di motivare questa asserzione, poniamoci una domanda: perché l’Arte d’avanguardia scandalizzava i benpensanti piccolo-borghesi nel periodo eroico (Futurismo, Dada, Surrealismo), era sostenuta dallo Stato nel periodo pre-rivoluzionario e pre-staliniano russo, tollerata dal Fascismo (non è questa la sede per esaminare gli stretti rapporti intessuti tra i futuristi, Marinetti in primis, ed il movimento-dittatura di Benito Mussolini) e visceralmente odiata dal Nazismo, mentre si limita a disorientare (quando vi riesce) i fruitori d’oggi?

Per sostenere il nostro ragionamento partiamo da lontano, dalla 43° grafica dei Capricci del Goya, El sueño de la razon produce monstruos (Il sonno della ragione genera mostri), profetico titolo che andrà molto al di là – in termini di futuri mostri naziariani prodotti da quel fatidico sonno della rappresentazione, dove la figura di Goya dormiente sul suo tavolo di lavoro cosparso di carte, pennello e bulino, è minacciosamente attorniata  da gufi, pipistrelli, un gatto nero e una lince. Più freudiana che junghiana, l’acquaforte dei Capricci  (subito capiti e apprezzati dai vari Delacroix, Hugo, Baudelaire, Daumier, Manet…), riporta in un manoscritto conservato al Museo del Prado di Madrid, il riduttivo commento “L’immaginazione abbandonata dalla ragione genera mostri impossibili: insieme ad essa è madre delle arti e fonte delle loro bellezze”[iv].

A parte il fatto che i mostri del Goya incisi ne El sueño tutto sono, meno che “impossibili”, ben altre mostruosità denunciate dallo stesso artista possono vedersi nelle circa 80 incisioni dei Disastri della guerra in cui immagini chockanti come Esto es peor (Questo è peggio, raffigurante un combattente spagnolo spogliato, mutilato e quindi “impalato” nell’ano con il ramo aguzzo di un albero), colpiscono la nostra coscienza in modo più drammatico di quanto non faccia l’altra grafica di Contra il bien general (Contro il bene comune, ove un essere antropomorfo questa volta veramente mostruoso con artigli e lunghe ali di pipistrello al posto delle orecchie, sta scrivendo su un grande volume appoggiato sulle proprie gambe).

L’iconografia più specificamente mostruosa legata al mito delle favolose “razze d’oriente”, a loro volta debitrici di una  genesi letteraria della loro esistenza (si pensi al bestiario omerico di sfingi, sirene, arpie, gorgoni, etc.), aveva trovato in alcune figure ricorrenti nella produzione estetica medioevale e rinascimentale di  esseri un po’ strambi – dallo sciapoda (con un solo gigantesco piede, velocissimo), all’antipode (due piedi retroversi), all’acefalo (senza testa e viso sul tronco), al pigmeo e al ciclope, al cinecefalo (testa di cane),  il repertorio più accreditato di resoconti pseudo-cronacistici di vari viaggi effettuati nelle favolose Indie. Ed è stato Rudolf Wittkower, in un suo bel saggio[v], a cogliere molto bene il rapporto – spesso veridico, ma non realistico – esistente tra alcune di queste figure fantastiche  e le loro corrispondenti figure naturali (unicorno = rinoceronte; satiro = scimmia), nonché il disagio, ermeneutico può dirsi, che si provava e si prova ogni qual volta si è di fronte a forme devianti rispetto a quelle “plasmate” normalmente dalla natura.

2. La mostra dell’ “Arte degenerata” allestita dai mostri nazi-ariani

Forme ciclicamente rimesse in discussione dalle Avanguardie con gli ismi, e, causa spesso di reazioni iconoclaste non necessariamente religiose, come purtroppo ci hanno insegnato i totalitarismi di ogni stampo (staliniani ed hitleriani in particolare).

Sarà proprio il catastrofico sonno della ragione di Hitler, acquarellista d’infimo ordine e pittore mancato di Linz, a scatenare la più furiosa reazione contro l’arte Moderna e d’Avanguardia, prima con la chiusura del Bauhaus di Dessau (agosto ’32), quindi con un decreto che autorizzava il presidente della Camera artistica del Reich, Adolf Zeigler:

a selezionare e mettere al sicuro, allo scopo di allestire una esposizione, le opere dell’arte tedesca della decadenza a partire dal 1910 nei settori della pittura e della scultura, in possesso del Reich, dei Länder e dei comuni tedeschi.[vi]

Prima di ricordare cosa fu e rappresentasse l’esposizione “Arte degenerata” inaugurata il 17 luglio 1937 a Monaco per un giudizio pubblico d’infamia, ed i successivi autodafé berlinesi (1939) e parigini (1943), è necessario precisare che la data del 1910, termine a quo, non è casuale, ma coincide, grosso modo, con la nascita dell’Espressionismo e con la creazione del primo acquerello astratto di Kandisky, del quale riportiamo in nota una pregnante constatazione scritta nel ’43[vii].

Per l’organizzazione della mostra sull'”Arte degenerata” Ziegler nominò una commissione che, dopo aver visitato tutti i più importanti musei tedeschi, sequestrò le opere del gruppo “Il Ponte” (Die Brücke, con Kirchner, Heckel, Nolde, Pechstein ed altri) del “Cavaliere azzurro” (Der blaue reiter, di cui avevano fatto parte, tra gli altri, Kandinsky, Marc, Macke, Münter, Schönberg), degli artisti della denuncia sociale (tra cui Grosz e Dix), dei dadaisti come Schwitters, degli ex docenti della Bauhaus (Schlemmer, Klee, Mooly Nagy), in una parola di tutti coloro che sono rimasti a pieno titolo dentro le pagine più luminose della storia dell’arte del Novecento.

Gli anatemi contro gli artisti degenerati furono scagliati, in occasione della inaugurazione, dal Fürer in persona:

Con questa esposizione è incominciata la fine dell’infatuazione artistica tedesca e conseguentemente la distruzione culturale del nostro popolo. D’ora in poi condurremo una spietata guerra epuratrice. Tutte le cricche di ciarlatani, di dilettanti e di impostori dell’arte che si sostengono a vicenda vanno snidate e eliminate. Questi primitivi, preistorici cavernicoli, balbuzienti dell’arte, possono tornare nelle caverne dei loro antenati per dedicarsi ai loro primitivi sgorbi internazionali.[viii]

Né meno tenera fu la requisitoria dell’esimio prof. Adolf (ah, il destino dei nomi!) Ziegler:

Ci troviamo in una mostra che raccoglie soltanto in minima parte di quanto numerosi musei tedeschi della Germania intera acquistarono con i risparmi del popolo tedesco ed esposero come arte. Intorno a voi vedete questi parti della follia, della tracotanza, dell’ignoranza e della degenerazione. Ciò che questa mostra presenta suscita in noi tutti impressione e disgusto.[ix]

Alla mostra organizzata dai mostri naziariani (si passi il gioco di parole) itinerante di varie città tedesche e austriache seguirono, tra gli eventi più eclatanti, i roghi di Berlino (’39, circa 5.000 opere) e Parigi (’44, con opere, tra gli altri, di Masson, Mirò, Picabia, Valadon, Ernst, Légér, Picasso).

3. Guernica: pietra di paragone dell'”Arte d’Avanguardia” e cattiva coscienza della mostra dell’ “Arte degenerata

Proprio Picasso, d’altro canto, alcuni mesi prima della mostra sull'”Arte degenerata”, aveva ricevuto

l’incarico di rappresentare la Spagna repubblicana (già aggredita a più riprese dal totalitarismo strisciante del generale Franc2o) all’Esposizione di Parigi di quell’anno (’37) dedicata, come era già avvenuto per le edizioni precedenti, al lavoro, al progresso, alla pace. Il Padiglione spagnolo (progettato da due architetti razionalisti Sert e Lacasa) era stato concepito come la vetrina visiva più avanzata dello scontro in atto tra l’ordine civile della Spagna democratica  e le dittature  nazi-fasciste.

Mentre Picasso (il quale aveva già fatto la sua scelta politica ed aveva collaborato alla propaganda repubblicana con le incisioni  Sueño y mentira de Franco, gennaio ’37) stava lavorando ad una grande composizione allegorica d’impronta classica, apprese dai giornali (aprile) la notizia che l’aviazione tedesca al servizio del “generalissimo” aveva bombardato la città basca di Guernica, senz’altro scopo che quello di scatenare il terrore tra la popolazione civile seminando morte a piene mani.

Questo imponente capolavoro di cm.349,3 x 776,6 datato 4/6/’37 (ora la Museo Nacional de Arte Reina Sofía di Madrid),  è posto da Giulio Carlo Argan accanto al michelangioliano Giudizio Universale della Sistina:

Picasso non mira a giudicare un misfatto ed a suscitare sdegno o pietà, ma a rendere presente il misfatto nella coscienza del mondo civile, costringendolo a giudicare e decidere. Il quadro non deve rappresentare o significare, ma sviluppare una forza imperativa; e la forza non deve scaturire dal soggetto o dal contenuto (che tutti conoscono, è la cronaca del giorno), ma dalla forma.[x]

Una forma in cui la destrutturazione cubista dei piani, con un colore (della vita) regredito ai bianchi, grigi e neri (della morte), mostra e ammonisce: una luce spettrale, livida, di una lampadina elettrica e di una lampada a petrolio rischiara la scena della tragedia in cui spezzoni di membra, toro e cavallo, soldato, fiore, uccello, spada, casa in fiamme, madre e bambino, donna in fuga, bocche, occhi e nasi distorti ed asimettrici, si ergono a spietati testimoni delle atrocità commesse, non solo a Guernica, ma in ogni tempo e luogo dalla stolta, gratuita violenza  più che dal goyano sonno della ragione, dalla criminale imbecillità umana.

Una grandiosa opera questa, formalmente e linguisticamente concepita da Picasso sulla scia delle esperienze cubiste e  surrealiste maturate nei tre decenni precedenti, contenente – tra l’altro – le principali coordinate dell’opera d’arte d’avanguardia, così come le ha brillantemente individuate Peter Bürger: il nuovo, l’allegoria, il montaggio[xi].

Il nuovo, in Guernica, consiste nell’aver capovolto radicalmente i presupposti idealistico-romantici del bello e del brutto. Mostruose non sono le sue figure stravolte dalla tragedia (sacre, bellissime ed intoccabili), ma, per dirla con le lucide parole di Claude Roy, la bestialità dei carnefici:

traspare sui loro volti. La grandezza del pittore consiste nel mettere a nudo il mostro che si riveste, come il boia di Franco o lo yankee dei Massacri di Corea di una falsa sembianza umana. Dipingere i mostri come mostri non è stravolgere il volto umano: significa essere realisti.[xii]

Se Giulio Carlo Argan nega l’attributo di allegoria a Guernica, secondo noi, invece, coesistono in essa tutti gli elementi individuati da Benjamin ne Il dramma barocco tedesco e riattualizzati da Bürger nella sua stimolante rilettura dell’opera d’arte d’avanguardia, e cioè: l’isolamento di un frammento di realtà dal contesto per privarne la sua funzione; la creazione di un nuovo statuto conferito allo stesso;  la leva della melanconia nella scelta del frammento; la rappresentazione della storia come declino. E Guernica, secondo noi, è la summa di tali componenti.

Per quanto attiene poi la tecnica del montaggio (inventato tra l’altro proprio da Picasso e Braque negli Anni dieci con i famosi inserti dei papiers collés), Guernica è un vero e proprio film ottenuto montando (autocitazionismo lo definiremmo oggi) una serie di spezzoni di precedenti opere dello stesso Picasso: La crocifissione del ’30; Il salvataggio del ’32; Corsa dei tori: la morte del torero del ’33; Minotauromachia, VII stato del ’35; Minatauro ferito, cavallo e personaggio del ’36; altre opere ancora.     

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E mentre  Pablo Picasso ridava così fiato alla storia (nonostante il suo lancinante declino) ed alla Modernità Avanguardista contro la regressione barbarica della dittatura nazista, quest’ultima che s’illudeva di distruggere le opere dell'”Arte degenerata” (metafora visiva dell’imminente Olocausto, quella famigerata ed inenarrabile endgültiche Lösung, ovvero soluzione finale, due tremende parole responsabili dello sterminio di sei milioni di ebrei nei forni a gas, ma anche di omosessuali, zingari, ed altri “diversi” discriminati dalla purezza della razza ariana), di fatto uccideva una cultura millenaria (quella tedesca), la cui lingua usata al servizio esclusivo della menzogna (dopo lo stupro subito), non si è ancora ripresa ai giorni nostri.

Denuncia magistralmente in merito George Steiner:

Usate un linguaggio per redigere descrizioni particolareggiate dei forni a gas; usatelo per disumanizzare l’uomo per dodici anni di bestialità premeditata. Qualcosa gli accadrà. Fate delle parole quel che ne fecero Hitler, Goebbels ed i centomila Untersturmfürer: veicoli di terrore e falsità. Qualcosa accadrà alle parole. Qualcosa delle menzogne e del sadismo s’anniderà nel midollo del linguaggio. Dapprima impercettibilmente, come i veleni delle radiazioni che filtrano silenziosi nelle ossa. Ma il cancro comincerà, e la distruzione in profondità. Il linguaggio non crescerà né si rinnoverà più. […] In una nota angosciata del suo diario del 1940, Klaus Mann osservava che non poteva più leggere i nuovi libri tedeschi: “È possibile che Hitler abbia inquinato il linguaggio di Nietsche e Hölderlin?”.[xiii]

La risposta di Steiner, più che motivata successivamente, è categorica:«Sì».

4. Vecchi e nuovi mostri: moderni o post-moderni?

Con il lutto dell’Olocausto non è solo il linguaggio ad essere stato inquinato: conseguenze più devastanti si sono avute nel progetto illuministico della emancipazione, i cui “grandi racconti” (pace, uguaglianza, fratellanza, libertà) per dirla con Lyotard, sono stati messi seriamente in crisi. Ma il rischio di precipitare nell’abisso dell’ “eclisse definitiva della ragione” lo ha corso, e molto seriamente, la Modernità, intesa da sempre quale spinta al progresso, al cambiamento, alla radicale ed insanabile sfida degli emergenti valori di ogni “futuro aperto” (Popper).

Questo rovesciamento di una prospettiva storica accettabile per il genere umano dal punto di vista esistenziale, è stato teorizzato con una certa enfasi e con molti fraintendimenti  fino a qualche anno fa con la svolta post-moderna  o del pensiero debole che dir si voglia (si ripercorrano in proposito i brani più salienti dell’architettura, della pittura transavanguardista, della scrittura e via dicendo).

La nascita del post-moderno, secondo Adorno coincide, con l’impronunciabilità di un nome, Auschwitz, appunto, in conseguenza dell’irreversibile caduta del “progetto moderno” di liberazione dal bisogno dell’umanità. Ma la maledizione di quel nome non è riuscita a corrompere del tutto la verginità creativa, e perciò libertaria, dell’Avanguardia, il cui grande merito – durante tutto il corso di questo secolo che va tramontando – è stato quello di tracciare (e lo rileva uno dei padri fondatori del post-moderno, sempre Lyotard), una indelebile linea di resistenza:

Basta ricordare la sorte che i totalitarismi politici hanno riservato alle avanguardie dette “storiche”. O osservare, nel preteso “superamento” dell’avanguardismo dei giorni nostri, che si fa forte della pretesa di ristabilire la comunicazione con il pubblico, il disprezzo per la responsabilità di resistere e di testimoniare, quella responsabilità che le avanguardie si sono assunte per un secolo.[xiv]

Questo elogio all’Avanguardia, può essere compreso solo dando una interpretazione appropriata ad un’altra “sentenza” dello stesso autore:

Un’opera può divenire moderna solo se prima è postmoderna. Inteso in questo senso il postmodernismo non è il modernismo giunto alla fine, ma il modernismo allo stato nascente – e questo stato è costante».[xv]

Ciò, in quanto le istanze avanguardiste sono, a nostro modo di vedere, ontologicamente organiche e  com-presenti in una società tecno-scientifica in cui le frontiere della conoscenza della realtà (ammesso e non concesso l’esistenza di questa realtà al di fuori della nostra rappresentazione) sono spostate sempre oltre, con conseguente cambiamento della precedente Weltanschauung.

Certo, lo scenario dell’Orgia modernista evocato ne La trasparenza del male da un altro pensatore francese, Jean Braudillard (sfrenata, a tratti libidinosa liberazione in tutti i campi: politico, sessuale, artistico) sembra lasciare pochi margini ad un’idea forte, e perciò rivoluzionaria, dell’estetica di rottura dell’Avanguardia (rispetto ai banalizzanti valori accreditati nella società) così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, in quanto:

Tutte le finalità della liberazione sono dentro di noi e ciò da cui siamo assillati, ossessionati, è questa anticipazione di tutti i risultati, la disponibilità di tutti i segni, di tutte le forme, di tutti i desideri. Che fare?[xvi].

Prendere innanzitutto coscienza che le problematiche del sublime contemporaneo (masochistica emozione intellettuale) “assillante” gran parte degli occidentali, sono molto diverse da quelle della morte per fame (almeno 40 mila bambini al giorno, fonte UNESCO) degli abitanti nel Terzo Mondo.

Se così è, gli antichi Mostri dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e delle inaccettabili disuguaglianze sociali conseguenti – la cui punta d’iceberg è il montante razzismo – ed i  nuovi Mostri partoribili da faustiane manipolazione genetiche e transgenetiche della bio-ingegneria (a questo punto del nostro ragionamento non importa più, se moderni o postmoderni), possono continuare ad essere smascherati,  e possibilmente sconfitti, dalle sovversive, ma salvifiche  eresie  dell’Avanguardia nel nome e nel segno di una ri/trovabile Modernità.

 

[Convegno internazionale pluridisciplinare I Mostri, Università degli Studi di Pescara – Dipartimento di Studi Comparati, 1999, Bérénice , N. S., a VII, n. 19, pp. 77-84. La versione, qui pubblicata, presenta alcune marginali variazioni].

 

[i] Cit. in C. BOLOGNA, Mostro, Enciclopedia Einaudi 9, Torino, Einaudi, 1980 p. 562.
[ii] Con epigrafica sintesi: Impressione, levar del sole, quadro dipinto da Monet nel 1872; Fondazione e manifesto del futurismo, pubblicato per la prima volta in francese in Le Figaro del 20 febbraio 1909; Scoppio della II guerra mondiale, primi di settembre del ’39.
[iii] Cit. in E. H. GOMBRICH, Riflessioni sulla storia dell’arte, Torino, Einaudi, 1991, p. 278.
[iv] Dal catalogo Francisco Goya y Lucientes, prefazione di L. SALOMON, cura di R. PARISI, Penne (PE) 1992, p. 40. Su I disastri della guerra si consiglia la lettura del bel volume monografico curato da P. LECALDANO, Milano, Mondadori, 1975.
[v] R. WITTKOVER, Le meraviglie dell’Oriente: una ricerca sulla storia dei mostri, ora in Allegoria e migrazione dei simboli, Torino, Einaudi, 1977, pp. 84-152.
[vi] Il giornale dell’Arte, N. 46, giugno 1987, p. 55. I testi degli articoli su la Mostra degenerata riportati nella pagina sono tratti dal fondamentale saggio La politica culturale del nazismo di H. BRENNER, Bari, Laterza, 1965. Vale qui la pena di accennare alla parallela azione di rapina dei capolavori del passato effettuata da Hitler e Göoering in tutta Europa. Ricorda K.-H. JANSSENS: «Prima di mettersi tra i denti la capsula di veleno e di puntarsi alla tempia la pistola, dettò ad una segretaria il suo testamento personale: “Ciò che possiedo appartiene – in quanto abbia valore – al partito e, se esso dovesse scomparire, allo stato”. Ed inoltre:” Ho raccolto dipinti in collezioni da me acquistate (il corsivo è nostro) nel corso degli anni, non per scopi privati, ma nell’intento di istituire un museo nella mia città natale di Linz sul Danubio.” [..] Per il museo Hitler aveva previsto uno straordinario ponte sospeso, un gigantesco edificio per le collezioni con torre campanaria, nella cui cripta voleva essere sepolto. Ben presto la galleria dei dipinti parve insufficiente e divennero necessari una biblioteca con 250.000 volumi, una sala d’armi, una sezione dedicata alle fortificazioni, una sede per la scultura e un gabinetto numismatico. Sta in Il giornale dell’Arte, cit., p.36. Un utile strumento di consultazione per le problematiche riguardanti il recupero delle opere trafugate dall’Italia è il volume R. SIVIERO, L’Arte e il Nazismo, Firenze, Cantini, 1984.
[vii] «Non si può fermare un fiume,  neppure con chiuse e dighe di sbarramento. Arrestato per un istante, esso balza al di sopra dell’ostacolo e prosegue la sua corsa. Per eliminarlo definitivamente occorrerebbe annullarne la “sorgente”, cosa superiore alle forze umane. Ancor meno si potrebbe fermare la corsa dei fenomeni artistici. La loro “sorgente” si trova nelle profondità stesse del mondo dello spirito. La loro evoluzione è organica, logica, inevitabile, e del tutto necessaria all’umanità. […] Ogni tentativo di regolarne il corso, di selezionarne le manifestazioni, è puerile », ( W. KANDINSKY e M. BRION, Prefazione in un album Domela, 1943, ora in W. KANDINSKY, Tutti gli scritti 2, Milano, Feltrinelli, 1974.
[viii] Il giornale dell’Arte, cit.
[ix] Ibidem.
[x] G.C. ARGAN, Op. cit., p. 572. Dello stesso autore, sempre su  Guernica, altre illuminanti considerazioni si trovano  nei saggi Il moralismo di Picasso e Classicismo e anticlassicismo di Picasso, ora in Da Hogart a Picasso, Milano, Feltrinelli  1983, pp. 465-488.
[xi] P. BÜRGER, Teoria dell’Avanguardia, Torino, Bollati Boringhieri, 1990. Per la tesi da noi sostenuta, si veda in particolare il Cap. 3 L’opera d’arte delle avanguardie, pp. 64 -93.
[xii] Cit. in P. ELUARD, Antologia degli scritti sull’arte, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 200.
[xiii] G. STEINER, Linguaggio e silenzio, Rizzoli Editore, 1972, p. 122.
[xiv] J. F. LYOTARD, Il postmoderno spiegato ai bambini, Milano, Feltrinelli 1987, p. 109-110.
[xv] Ivi, p. 21-22.
[xvi] J. BAUDRILLARD, La trasparenza del male, Sugarco, Milano, 1990, p. 9.