De Sade è lontano dall’esperienza del sublime inteso come un terrifico generato solo dalla impotenza davanti alla forza bruta della natura; con lui il sublime, se lo si vuole riscontrare nel suo richiamo all’umiltà, è partecipe innanzitutto dell’ “umano sentire

di Giuseppe Siano

Gli uomini di cultura che facevano tappa a Napoli durante il Gran Tour rimanevano estasiati e incuriositi, specie se si pensa che durante il periodo di attività del Vesuvio s’imposero anche alcune “nuove” discipline delle scienze naturali.

3. Il Vesuvio nell’immaginario delle narrazioni di esperienze fisiche, scientifiche e di cronaca (dal ’700 all’800)

Bisogna dire che la fuoriuscita del magma dal Vesuvio è stata sempre unica e spettacolare, se confrontata con gli altri vulcani europei. Spesso le persone di lettere, che ammiravano i fenomeni naturali, rimanevano estasiate davanti alle esplosioni tonanti che si sentivano provenire dal vulcano, e poi seguivano con meraviglia la fuoriuscita improvvisa del magma. In verità alcuni erano anche incuriositi; i più spericolati, infatti, si esponevano al pericolo di morte per voler osservare da vicino il fenomeno. Basta ricordare che questo prodigio della natura era considerato inspiegabile per l’uomo del 1700. A quel tempo non erano ancora diventate scienze definite né la geofisica né la vulcanologia. Il primo Osservatorio fondato per studiare i fenomeni eruttivi dei vulcani fu proprio quello del Vesuvio (fu costituito nel 1841 e inaugurato nel 1845 per volere di Ferdinando II di Borbone).

Un’eruzione del Vesuvio è stata descritta in modo diverso da quella che tuttora si osserva, ad esempio, sull’Etna. Doveva produrre certamente una forte emozione. Il magma era lanciato a grandi altezze e fuoriusciva dalla cavità del Monte Somma-Vesuvio insieme al tuono di tanti scoppi naturali di gas. Solo una piccola parte della lava era sparata in alto, e spesso cadeva sull’altro magma che tracimava dal cratere; mentre raramente si aprivano alcuni fori aperti, come ferite, lungo le pendici della montagna.

Lo spettacolo di un’eruzione a Napoli è stato sempre un evento unico. Il vulcano, nel culmine di una sua attività, si presentava agli occhi atterriti di alcuni audaci e incoscienti osservatori che osavano avvicinarsi, ma senza scalare la montagna, con in cima delle fontane di terra fumo e pietre di lava incandescente che s’innalzavano fino a 800-1000 metri dalla caldera. La circonferenza della bocca del Vesuvio è lunga ancora oggi 4 km. Lungo tutto il suo perimetro, durante un’eruzione prima si alzavano i fumi alimentati da gas, si sentivano anche degli scoppi e la terra spesso tremava in tutta la “Campania felix”. La caldera del Vesuvio si formò durante l’eruzione descritta da Plinio nel 79 d.C., e si modellò in uno strato più in basso del precedente edificio vulcanico, allora conosciuto come monte Somma. Oltre alle scosse telluriche, gli effetti devastanti del Vesuvio si propagavano ben oltre i sessanta kilometri del suo circondario. Come non ricordare le piogge di cenere, di pomici e di lapilli, che si diffondevano anche oltre le terre limitrofe alle fertili zone vesuviane raggiungendo a volte la città di Bari? Spesso, però, il peso della cenere, delle pietre pomici e dei lapilli, cadendo in gran quantità anche in zone lontane dalle pendici di questo “terrificante” monte, era in grado di far crollare rovinosamente il tetto delle case e uccidere gli abitanti che credevano di aver costruito in luoghi sicuri le proprie abitazioni.

Come ho ricordato nella I parte, sembra proprio che a tutti questi fenomeni naturali, che si manifestavano contemporaneamente, la temerarietà dell’ascesa al Vesuvio fosse associata al sentimento di sublime che procurava la vista del vulcano durante una sua violenta eruzione. Un posto sicuro da cui assistere da lontano al fenomeno erano le colline – allora di campagna – del Vomero, di Chiaia e di Posillipo. Altri cultori di estetica più recenti, avrebbero potuto annoverare questo coinvolgimento emotivo anche tra quella esperienza estrema di morte dovuta ai pericoli ai quali l’uomo si espone per raggiungere un’esperienza limite – intesa come la descrive George Bataille, per altre situazioni, ne La Somme athéologique, nelle parti Sur Nietsche (II, 1) o ne L’Expérience intérieure (I, 1).

Gli elementi del racconto di un’esperienza sublime, ad esempio, si notano specie nella descrizione di Elisabeth Vigée-Lebrun, per la presenza nella testimonianza dei suoi Souvenirs di termini come «grandioso», «terribile», «spaventoso», «orribile», «penoso», «impotente», «sconvolgente», insieme a un piacere prodotto dallo «spettacolo», dall’«attrattiva» che produce la montagna, dal «mirabile» che ella denota, insieme al «divino» che ella coglie.

I fenomeni naturali narrati nella seconda metà del 1700 ci indicano questa doppia strada: la contemplazione da lontano del terrifico con il sublime e lo scombussolamento dei sensi che si prova nell’esporsi a un pericolo di morte, in cui “si sente” la paura per il coinvolgimento fisico dell’organismo. La natura non è soltanto manifestazione di un ordine ciclico: a volte ne emerge la sua violenza. Questi fenomeni naturali estremi non sono controllabili dagli umani e, spesso, il loro governo è attribuito solo alla Provvidenza, o a un Dio. Si può dire, sommariamente, che da una parte vi era il desiderio dello studio delle scienze naturali – come già dalle testimonianze di Plinio giovane nella grande eruzione del 79 d.C. – e dall’altra lo studio delle reazioni fisiche collegate a esperienze molto forti e violente. Ricordo che le esperienze e le indagini conoscitive – che contribuirono ad alimentare quella ricordata formazione della disciplina estetica, che in quegli anni stava limitando un proprio campo moderno di pertinenza – erano inserite all’interno del giro di perfezionamento che facevano i giovani aristocratici o i rampolli della nuova borghesia europea sulle conoscenze dell’antichità. Era il tempo in cui le origini o i modelli scelti dagli uomini che ci avevano preceduto erano una fonte inesauribile d’insegnamento per le nuove generazioni. Qui ricordo anche che molte sono state le testimonianze, anche in pittura, che hanno immortalato il Vesuvio durante le sue eruzioni “scoppiettanti”.

Scelgo ora un autore il quale  “con il racconto” fa un altro uso del fenomeno naturale. L’esempio ci giunge tra gli scrittori romanzieri non tanto occasionali, che tra la cronaca e il letterario narrano la propria esperienza “estetica” di una natura, che pur alimentando il sentimento del sublime terrifico, la “domesticano” utilizzando il Vesuvio per un proprio racconto simbolico. Il conte Donatien-Alphonse-François de Sade, conosciuto come Marchese de Sade, nelle sue pagine ci ha lasciato alcune testimonianze raccolte nell’esperienza del suo viaggio in Italia, oltre ad aver utilizzato lo scenario vesuviano in un suo romanzo. La manifestazione narrativa di questo autore già assegna un ruolo simbolico al Vesuvio, e palesa quella che poi è stata chiamata da Mario Costa la “strategia del simbolico”. A noi interessa questa narrazione perché dimostra come la nuova scienza della conoscenza sensitiva inizi ad estendere il suo dominio non solo nel letterario, ma anche nelle relazioni sociali ponendo le basi per lo sviluppo politico e sociale dell’immaginario.

Il Marchese de Sade nel suo Voyage d’Italie dà un’immagine della città di Napoli sospesa tra la bellezza del paesaggio e l’abbrutimento dei suoi abitanti. Le sue prime riflessioni, però, sono per i sentimenti che la vista della città gli ispirano. La prima descrizione della città di Napoli riguarda un’impressione che si dischiude dall’alto, dalla Certosa di San Martino, che oggi è un monumento nazionale. Dalla Certosa scrive: «Questa città che si domina e si vede distesa ad anfiteatro lungo il bordo del golfo, il mare a destra, il Vesuvio di fronte, tutti questi oggetti come se fossero ai vostri ordini e ai quali sembra di poter comandare, fanno nascere nello stesso tempo due emozioni opposte e che tuttavia si succedono con grande rapidità, quelle dell’orgoglio e dell’umiltà. Quelle abitazioni magnifiche sembrano da là sopra come un formicaio; quegli uomini superbi che le hanno edificate sono da là sopra quello che essi sono nei confronti della natura, dei fuscelli; e quando si pensa che basterebbe uno solo dei suoi capricci a buttare all’aria e a far ritornare nel nulla tutto quello che sembra esser costato tanti affanni a questi piccoli e inutili uomini, si riflette con mestizia tanto sulle proprie leggi quanto su se stessi» [tratto da D.A.F. de SADE, Voyage d’Italie (Par G. Lely et G. Daumas), Tchou Editeur, 1967, Paris, pp. 388-389].

De Sade è lontano dall’esperienza del sublime inteso come un terrifico generato solo dalla impotenza davanti alla forza bruta della natura; con lui il sublime, se lo si vuole riscontrare nel suo richiamo all’umiltà, è partecipe innanzitutto dell’“umano sentire”. Nel suo racconto il sentimento diventa narrazione simbolica; cioè esso [sentimento] è suscitato dalla ricerca di una relazione con la presenza di una natura violenta che si confronta con le azioni degli uomini che vivono nel regno della dinastia borbonica d’Italia. Ecco, in breve come, dopo quelle prime riflessioni, il paesaggio di Napoli, i costumi dei napoletani e il Vesuvio interagiscono nella narrazione di de Sade e assumono un nuovo segno fabulatorio.

Napoli è «… il più bel paese del mondo abitato dalla specie più abbrutita» [ivi, pag 439]. L’allora re di Napoli Ferdinando IV, soprannominato il “Re lazzarone”– (alias “Re dei pigri”, o “Re dei poco di buono”) – è considerato da Sade un re ignorante e lussurioso e il suo desiderio di continue feste è preso a modello anche dal suo popolo selvaggio per «eccitare o piuttosto perpetuare la sua voracità o il suo amore per il furto» [ivi, pag 440], insieme – re e popolo – offrono ai visitatori uno spettacolo di sublime orrore. Non di meno fanno i nobili, che barano al gioco e rubano le posate d’argento durante le feste a Corte. E poi c’è la sifilide, dai francesi denominato il “male italiano”, che «ha imbastardito tutta la specie» [ivi, pag 454]. Non manca il consiglio di de Sade a tutti gli stranieri: «evitare ogni rapporto con questo popolo corrotto» [ivi, pag 454]. L’intera città di Napoli, per il Marchese libertino, invita al vizio. La presenza di corrotti, di truffatori, di ladri e di assassini, induce la popolazione più povera a vivere di prostituzione. Ogni genere di libertinaggio ha un prezzo nella città più bella del mondo. Agli angoli delle strade si possono incontrare le madri che offrono i loro bambini, le sorelle i fratelli, i padri le figlie, e i mariti le mogli [ivi, pag 455]. Il celebre Marchese nota il contrasto tra la bellezza e l’incanto che suscita il golfo di Napoli, e la ripugnante povertà e abbrutimento che gli trasmettono gli abitanti della città. Egli scrive anche del Vesuvio e lo assume come luogo ideale per fare da sfondo, come un dio, alla crudeltà e alla perversione finale descritta nel suo romanzo Justine. Il vulcano diventava un dio vivente che si risveglia eruttando e gradendo il sacrificio dell’amica della protagonista Olimpia, che viene scaraventata nel magma del cratere per chiudere con un’amicizia che era stata la trasgressione del piacere libertino.

Il sublime del naturale non aveva più quasi alcuna attrattiva già alla fine dell’Ottocento, secolo che vide la divulgazione di nuove scienze fisiche, naturali e sociali, nel mentre sempre più interesse assumeva la catalogazione delle strategie simboliche nei racconti. Qualsiasi forma di strategia del simbolico si analizzi, antica o contemporanea, oggi pone al centro il lettore o l’osservatore che è indotto a comprendere anche quali siano gli obiettivi di colui che racconta o di chi interpreta la narrazione. E non è solo il fine di una narrazione a essere coinvolto nell’obiettivo espresso con la nuova scienza della conoscenza sensitiva, ma vi è anche l’osservatore, o il lettore, o l’interprete del racconto che può dare un maggiore assenso o valore a questo o a un altro punto di vista dell’evento o del fenomeno presentato.

L’immaginario dell’Ottocento iniziò nelle arti a prevaricare il “rappresentare”. Ci vogliono i poeti “visionari” maledetti che si affidano allo “scombussolamento dei sensi” per portare una linfa innovativa alla ormai centenaria scienza della conoscenza sensitiva.

La scienza e l’arte della narrazione di fine Ottocento si preparano alla dilagante evoluzione che minerà anche le consolidate fondamenta della nuova scienza della conoscenza sensitiva.

La testimonianza diventa evidente quando la natura terribile non produce alcun effetto sull’immaginario del poeta, come accade nella poesia di Tristan Corbière Vésuves et Cie.

Se l’immaginario non è alimentato da una sempre aggiornata nuova scienza della conoscenza sensitiva, e non fa emergere almeno un’esperienza probabile, costruita su una serie di relazioni che inducono al riconoscimento di comportamenti (o modelli), non riesce a produrre alcuna azione nell’osservatore, anche se viene sollecitato da stimoli. E quando l’immaginario di un poeta si trova davanti alla montagna del Somma-Vesuvio, e sfortunatamente non trova corrispondenza nelle sue esperienze precedenti – anche se solo vissute attraverso la lettura, i racconti suggestivi, le messe in scena farsesche e le ricostruzioni teatrali – allora è meglio che si dia maggior valore alle riproduzioni viste sull’abat-jour della zia, o proposte dall’Opéra Comique, o alla riproduzione incontrata a Marsiglia su un camino. Il poeta “maledetto” afferma, perciò, che il suo immaginario del Vesuvio è più somigliante «negli altri piccoli» di cui aveva avuto esperienza nell’infanzia e nella giovinezza, che non quando egli scala la sua montagna per davvero, per ammirare da vicino il cratere con la guida. E solo perché gli «prendono cento franchi» si accorge di essere salito sul Vesuvio; nonostante ciò il suo immaginario lo convince che «gli altri piccoli erano più somiglianti», e lo rimarranno per lui. Con Corbière una semplice ammirazione suscitata dal sublime naturale mai provato, non può essere posto a fondamento della scienza della conoscenza sensitiva: meglio avvalersi della propria esperienza dell’infanzia. L’immaginario così trionfa sull’esperienza del fenomeno naturale.

Vesuvi e C.

Pompei – stazione. Vesuvio sei ancora tu? / Tu che facesti la mia felicità da piccolo in Bretagna, / — Al bel tempo in cui la fede trasportava la montagna — / Su un bell’abat-jour, da mia zia: // Spiccavi nero, su un fondo trasparente / E la lampada rosolava i fuochi del tuo cratere. / Era stato il confessore di mia nonna, dicevano, / Che ti aveva portato da Roma tutto fiammeggiante…// Più grande ti rivide all’Opéra Comique. / — Ruolo un tempo messo in scena da te: L’ultimo giorno di Pompei —. Il tuo fuoco se ne andava in musica, / Ti soffiavano la parte, e… tu facesti fiasco. // Ci siamo rivisti davanti a un camino, / A Marsiglia, in vacanza, senza musica e senza fuoco; / Blu su un fondo rosa, col tuo Mediterraneo / Che ti rispecchiava capovolto, rosa su un campo blu. // — Spesso sei venuta a me per prima o Montagna! / Ti rendo la visita, espressamente, in campagna. / Il vero Vesuvio sei tu,  visto che mi hanno preso cento franchi. / Ma gli altri piccoli erano più somiglianti. [Tristan Corbière, Les amours Jaunes, (Préface d’Henri Thomas). Gallimard, Paris, 1973, pp. 117/118].

4. Le eruzioni nel Novecento: tra cronaca, reportage fotografico e cinematografico

Con la fotografia, la scienza della conoscenza sensitiva estetica acquisisce la possibilità di rappresentare l’evento in modo più specifico, affiancando all’evocazione della parola anche un’immagine ripresa nel momento in cui si manifesta il fenomeno eruttivo del Vesuvio. L’emozione suscitata dall’evocazione delle parole prodotte dal racconto di uno scrittore si compendia e si estende anche all’esperienza prodotta dall’immagine visiva di una fotografia.

Il “sentire” estetico nei primi anno del ’900 inizia a essere considerato come un insieme e indivisibile modello di osservazione per la scienza fisica, per la cognizione, per l’azione e per l’emozione. Il modello è posto a fondamento dell’esperienza, come una costruzione attiva del soggetto (John Dewey). Si ricostituisce così una continuità tra l’arte, la scienza della conoscenza sensitiva, le altre scienze e la quotidianità. L’evoluzione del pensiero di Dewey induce a osservare “gli oggetti artistici” nel loro emergere come esperienza umana; per la qualcosa quegli oggetti d’arte sono considerati nel loro essere in costruzione non ancora definiti come pensiero, ma sono pur sempre utili per raggiungere un fine. In questo modo è estesa la concezione di esperienza artistica anche al meccanismo costituente un’opera d’arte che impegna l’uomo in un’attività artistica; e per questo motivo si palesano altre attività artistiche, come la fotografia, il cinema e i giornali (Arte come esperienza).

L’esperienza artistica, per Dewey, perciò, trova fondamento in tutto ciò che il senso della vita quotidiana fa apparire all’uomo come intenso e pregnante (come ad esempio era considerata importante per i popoli antichi la cura nella fabbricazione degli utensili domestici, che dava enfasi e migliorava la vita quotidiana. Quei popoli non subivano il fascino della separazione tra utile e bello fine a se stesso). In effetti, nell’antica Atene si pensava che vi fosse una stretta connessione tra le belle arti e la vita quotidiana, dove importanti per la conoscenza e l’abilità nelle arti erano le esperienze. A quel tempo l’idea dell’arte per l’arte non avrebbe potuto nemmeno porsi. Per questo motivo una concezione artistica che separa l’oggetto artistico dall’oggetto utile si può considerare finalizzata: o a esibire una grandezza della nazione (nazionalismo), o a suscitare un collezionismo di nicchia che ha il fine di evidenziare il “valore economico dell’opera” (capitalismo), o ad avvalorare la tesi della mercificazione dell’arte (un’arte che è un prodotto umano al pari delle altre merci, per cui è venduta sul mercato libero, in serie o come modello unico).

Questo, per mostrare come la scienza della conoscenza sensitiva nel Novecento si arricchisca di nuovi modelli formativi con la cognitività e l’immaginario proposto dalle nuove arti. Da illuminati come Dewey, poi, sono state poste le basi teoriche per lo studio delle forme e dei linguaggi espressivi dell’arte cinematografica, fotografica e giornalistica. Queste nuove arti hanno introdotto anche altre forme di valutazioni nella scienza sensitiva e metafisica delle qualità delle cose, conoscibili senza fede. L’importante è comprendere alcuni passaggi attraverso cui l’immaginario del Vesuvio si è arricchito anche con le esperienze provenienti da queste nuove forme espressive.

Con la fotografia l’esperienza del reale riduce il campo dell’immaginazione, col giornale sono riportati i fatti da un punto di vista narrativo-scientifico-emozionale da un cronista, e col cinema l’esperienza cognitiva e sensoriale diventa un modello di relazione e di osservazione dell’evento come fenomeno cinetico. In questo modo si specifica meglio l’utilità per la scienza della conoscenza sensitiva di quanto è stato espresso in un precedente paragrafo con le teorie di McLuhan e di Debord.

L’eruzione del Vesuvio del 1906 ha avuto in Italia un testimone di eccezione, la scrittrice napoletana Matilde Serao, che è stata la prima donna a fondare e a dirigere dei giornali quali il Mattino di Napoli e il Giorno. Ecco quanto riportato in modo sinottico dall’Osservatorio Vesuviano su quella eruzione del 1906. Nel catalogo storico dell’eruzione presentato dall’Osservatorio sono ricordati, anche i tanti ingenti danni provocati dall’eruzione del 4-22 aprile del 1906 alla Campania.

«Eruzione mista – Lava tra Boscotrecase e Torre Annunziata. Caduta di prodotti piroclastici verso Ottaviano, Somma Vesuviana e S. Giuseppe Vesuviano. Da una frattura sul versante sudorientale del vulcano fuoriuscì la lava, prima a 1200 metri di quota, poi, in seguito alla propagazione di tale frattura, a 800 metri di quota. Da un’altra bocca apertasi nel Bosco Cognoli fuoriuscì altra lava, relativamente fluida e veloce. Al cratere, nello stesso tempo, era in corso un’attività esplosiva stromboliana. Una nuova bocca, formatasi a 770 metri slm nel burrone della Cupaccia, alimentò una nuova colata di lava molto fluida che scorse sulla lava del 1834 e arrivò a 200 metri di quota. La lava continuò a scorrere in varie diramazioni, invadendo la frazione Oratorio di Boscotrecase, e, proseguendo lungo la trincea della ferrovia circumvesuviana, fino al cimitero di Torre Annunziata. L’otto aprile la fase effusiva finì e l’attività esplosiva aumentò. Si formò un’alta nube eruttiva. L’altezza dei frammenti piroclastici emessi superò i 4 chilometri, la granulometria dei prodotti eruttati diminuì. Le coltri di cenere vennero disperse prevalentemente a est del vulcano. Si formarono anche piccole colate piroclastiche, che tuttavia non raggiunsero le zone abitate. Nelle fasi finali dell’eruzione furono eruttate ceneri rossastre che caddero nel settore nordoccidentale del vulcano. L’eruzione terminò con piogge e colate di fango. Lave per 20 milioni di metri cubi, prodotti piroclastici per 211 milioni di metri cubi. A causa di questa eruzione vi furono 216 morti, 112 feriti gravi, 34232 profughi. Distruzione della frazione Oratorio di Boscotrecase ad opera della lava, distruzione di abitazioni e edifici sacri a Torre Annunziata, Ottaviano e S. Giuseppe Vesuviano ad opera delle ceneri. A Napoli crollo del tetto del Mercato di Monteoliveto. Distruzione di 76735 ettari di campi coltivati per un danno di 60 milioni di lire. Distruzione della funicolare del Vesuvio. Fu l’eruzione vesuviana più violenta del XX secolo. Prima dell’eruzione si verificarono deformazioni del suolo, che provocarono l’abbassamento del livello di falda di 20 – 30 cm e l’arretramento della linea di costa, di 48 cm a Portici. La lava penetrò nella chiesa di S. Anna a Boscotrecase, provocandone la parziale distruzione. L’accumulo della cenere provocò inoltre il crollo del tetto della chiesa di S. Giuseppe Vesuviano, dove erano raccolte più di 150 persone. Durante l’eruzione lo sprofondamento della parte superiore del cono fu accompagnata da un forte terremoto. L’attività sismica fu avvertita anche a Napoli, e si diffuse il panico. L’eruzione fu seguita per tutta la sua durata da R. V. Matteucci, che ne informò le autorità competenti e la stampa mediante telegrammi. Per l’opera prestata gli venne conferita una medaglia d’oro dal Governo. Anche Giuseppe Mercalli, da Napoli, seguì l’eruzione. Dopo l’eruzione l’altezza del vulcano era più bassa di circa 220 metri. Subito dopo l’eruzione e nei mesi successivi vi furono, in occasione delle piogge, episodi di colate di fango e alluvioni. Inoltre, per alcuni anni, a Resina, Portici, S Giorgio a Cremano e S. Giovanni a Teduccio vi furono esalazioni di anidride carbonica (mofete). Dopo l’eruzione vi fu un periodo di inattività di circa 7 anni». [Estratto dal sito web dell’Osservatorio Vesuviano www.ov.ingv.it

Alcuni miti e leggende sul Vesuvio sono raccolti proprio dalla Serao e in breve qui si ricordano:

Secondo la scrittrice da sempre c’è un vincolo profondo che lega le viscere della terra e quelle della psiche dell’uomo. Il fuoco del Vesuvio diventa un simbolo che fa emergere nell’uomo metafore e paragoni più disparati: dal fuoco eterno della passione alle paure inarrestabili generate dai sentimenti, al tormento e alla paura di una improvvisa e atroce morte a causa del demonio che alberga sul vulcano. La testimonianza più suggestiva è data dalla Serao nel libro Leggende napoletane: Vesuvio era un giovane nobile di Napoli follemente innamorato di una giovane di un casato o “casa nemica”, la famiglia Capri. Il loro amore era tanto avversato dalle rispettive famiglie, che la fanciulla fu fatta imbarcare su una nave diretta verso una terra straniera. Ella, per questo distacco violento dall’amato, sentendosi “strappar l’anima”, si gettò in mare, «donde uscì isola azzurra e verdeggiante». Il cavaliere innamorato, «quando seppe della nuova crudeltà, cominciò a gittar caldi sospiri e lacrime di fuoco, segno della interna passione che l’agitava: e tanto si agitò che divenne un monte nelle cui viscere arde un fuoco eterno di amore. […] Così egli è dirimpetto alla sua bella Capri e non può raggiungerla e freme di amore e lampeggia e s’incorona di fumo e il fuoco trabocca in lava corruscante…». Ci sono altre leggende su Capri e Vesuvio, ma quella della Serao è la più suggestiva.

Altri scrittori ci ricordano che nelle Egloghe Piscatorie Bernardino Rota racconta di Leucopetra, ninfa marina contesa da due giovani, Vesevo e Sebeto. Per sfuggir al loro inseguimento, la ninfa si gettò in mare e si trasformò in pietra. Allora, Vesevo, disperato, si trasformò in una montagna che rovescia fuoco, fino a raggiungere la sua amata ninfa nel mare; e Sebeto pianse tanto da trasformarsi in un rivolo che versa le sue acque nel mare. Entrambi raggiungono l’amata desiderata, ma Vesuvio fu soprannominato “fumaiolo dell’inferno”. Questo misterioso vulcano ha da sempre suscitato, nell’immaginario collettivo del popolo napoletano, timore e terrore. Gli antichi abitanti dei luoghi associarono la montagna di Somma all’Ade e interpretarono la sua eruzione come manifestazione dell’ira divina. Intorno al II–III sec. d.C. il monte sembra sia diventato per i cristiani l’abitazione del demonio, o il “fumaiolo dell’inferno”, come lo definì Tertulliano. Anche San Gregorio Magno e San Pier Damiani lo paragonarono all’inferno o a un suo antro d’ingresso. Nell’XI secolo, l’abate Desiderio da Montecassino (in seguito assunse il nome di Papa Vittore III) raccontò il seguente singolare episodio: una notte, un monaco napoletano vide molti uomini neri, che trasportavano “some cariche di paglia” lungo la strada. Nonostante fosse fortemente spaventato, chiese loro come intendevano utilizzare quelle grandi scorte. Una voce che pareva giungere dall’ oltretomba rispose: “Noi siamo spiriti maligni e prepariamo […] l’esca per alimentare il fuoco che dovrà bruciare gli uomini cattivi”. Precisò anche che presto sarebbero stati bruciati tali Pandolfo principe di Capua e Giovanni duca di Napoli. Orbene, i due morirono proprio poco tempo dopo, mentre sul Vesuvio divampavano lingue di fuoco altissime. L.A. Villari riferisce un aneddoto sul pittore napoletano Luca Giordano, che avrebbe incontrato un diavolo sul Vesuvio, dopo aver rappresentato l’inferno in un dipinto. Spaventato dai complimenti che questi gli fece per averlo raffigurato magnificamente, ritornò a casa per distruggere il quadro e chiedere aiuto alla misericordia divina. Il Vesuvio è descritto come un diabolico genio del male anche in Tablettes napoletanes, volumetto pubblicato a Parigi nel 1840 e nelle rappresentazioni spirituali, commedie religiose messe in scena a Napoli dopo la spaventosa eruzione del 1631. Ancora oggi, il vulcano è chiamato monte dei diavoli e, com’è noto, sul Vesuvio c’è una valle denominata Valle dell’Inferno, che costituisce la parte orientale della Valle del Gigante (l’avvallamento che separa il Monte Somma dal Vesuvio) e si oppone all’Atrio del Cavallo, vicino alla Fossa del Monaco, in cui – si racconta – fu inghiottito un monaco che sul monte aveva osato invocare “l’aiuto delle potenze magiche per esaudire un desiderio inconfessabile”. Il vulcano, sdegnatosi, vomitò un cavallo con occhi di fuoco e una criniera di serpi che raggiunse il monaco in fuga e fece aprire una voragine sotto i suoi piedi. Curiosa la seguente composizione, una sorta di formula di scongiuro contro l’eruzione del Vesuvio, segno dell’ira divina suscitata dai peccati di Napoli. Fu scritta da Padre Grimaldi per una lapide che non fu mai realizzata.

La letteratura mitica e popolare sul Vesuvio è molto ampia. È ricordata ora in questo excursus sul “sentire estetico” e sull’immaginario del Vesuvio, perché la scrittrice Matilde Serao abbandona agli inizi del Novecento una visione narrativa realistica per rintrodurre il sogno, la psiche e il mito nelle sue opere emozionali. In questo modo la scienza della conoscenza sensitiva si muove tra un’analisi proiettata verso l’immaginario del Vesuvio e l’esperienza conoscitiva, su cui si fonda una conoscenza relazionale, nel letterario come nelle arti, nella scienza e nella vita. Fino a quando il conoscere e lo stimolo percettivo sono oggi intesi in una relazione inseparabile posta da una singolarità e costituenti una forma di apprendimento vicariante.

Agli albori del 1900 l’immaginario del Vesuvio accresce il campo di pertinenza della scienza della conoscenza sensitiva, che ora si manifesta nel letterario tra la suggestione del mito, del sogno, dell’amore, del desiderio e della sessualità intesa secondo la scienza psicoanalitica, mentre nello scientifico si affermano il reportage giornalistico e il reportage fotografico. Subito dopo incalzano anche le prime suggestioni provenienti dalla testimonianza cinematografica.

L’eruzione del 1929, durante il regime fascista è testimoniata anche da brevi filmati più per pubblicizzare e celebrare la “romana” Pompei che i pochi danni causati agli scavi della città vesuviana.

L’Osservatorio Vesuviano sull’eruzione ha inserito le seguenti informazioni: «Eruzione mista – Terzigno e aree limitrofe (Avini, Pagani, Campitelli). Dal cratere centrale cominciò a tracimare lava che scorse verso est. Dopo aver attraversato la Valle dell’Inferno, la colata si suddivise in due diramazioni, che si diressero, parallele, in prossimità di Terzigno. L’attività esplosiva fu caratterizzata da fontane di lava, accompagnate da intensa attività sismica. Lave per 12 milioni di metri cubi . Distruzione di 54 case coloniche e 80 ettari di boschi, campi e vigneti. L’eruzione fu preceduta da circa due mesi di attività esplosiva del cratere, con forti boati interni, da un’improvvisa diminuzione di tale attività e, appena prima del suo avvio, da crescente attività sismica e, nuovamente, forti esplosioni. L’attività sismica precedente e l’eruzione, fu registrata all’Osservatorio con l’ortosismografo Alfani ed il bipendolo di Agamennone».

La scienza della conoscenza sensitiva proposta coi filmati dell’istituzione pubblica italiana sotto il controllo “didattico” fascista, l’Istituto Luce (L’Unione Cinematografica Educativa), è asservita sia ad evocare il culto del mito e della storia passata e sia a celebrare l’esperienza fisico-scientifica nell’immaginario italiano del primo Novecento, fino a prima dell’ultima eruzione del 1944.

5. L’eruzione del 1944 e il mito moderno cinematografico del Vesuvio

Considerare il Vesuvio nel suo complesso tra mitologia, letterarietà, cronaca, fenomeno fisico, naturale e scientifico, induce anche a tener conto dell’intero sistema con cui si narra un evento.  Il racconto è sottoposto al vaglio della percezione e permette di selezionare e scegliere una tipologia o un indirizzo di narrazione. L’atto del raccontare un fatto con pathos fin dall’antichità emergeva dalla sensibilità recettiva estetica di una singolarità. Questa si manifestava sempre dopo, o contestualmente, alla catalogazione della tipologia del fenomeno. È come se il narratore fosse sedotto dal palesarsi di uno svolgimento dei fatti e che ne scegliesse una direzione attribuendolo – come sistema – a quel fenomeno particolare; che poi poteva anche essere universalizzato come “sentire condiviso” o “sentire collettivo”.

La nuova scienza della conoscenza sensitiva e sensibile va qui intesa come una varietà di strategie cognitive che trovano corrispondenze nel racconto di un modello di percezione degli eventi costruiti – con il rigore scientifico o dell’immaginario – per mezzo di verità che hanno il proprio fondamento nelle logiche sensoriali cognitive ed emotive delle percezioni fisiche. Questo connubio tra il sensitivo e il sensoriale, o tra il cognitivo e l’evento, è ciò che suscita emozioni e costituisce un modello di rappresentazione.

Nel Novecento gli eventi naturali, come l’eruzione del Vesuvio, iniziarono a essere percepiti con drammaticità ed “orrore”. Una narrazione, che poteva contenere sia il mito, il mistico, la religione e il letterario in genere (dal fantastico, allo psicologico, al sociale, etc.), fece crescere in molti la convinzione che la natura provasse quasi piacere nell’irrompere, sovvertendo le relazioni e l’ordine creati dall’uomo. I filmati in un primo momento furono utilizzati per trasmettere una testimonianza del fenomeno naturale; successivamente, si scoprì che i medium dei giornali e dei cinegiornali veicolavano anche i modelli per rappresentare dei sentimenti forti come l’amore, il terrore e la prostrazione provocati o in un individuo o nella popolazione colpita da un evento catastrofico. Come se un evento catastrofico che colpisse una persona o una popolazione quasi potesse suscitare un sentimento comune che fosse condiviso attraverso la rappresentazione entrata nel circuito dei mezzi di comunicazione di massa.

In questo modo, un fenomeno circoscritto a un evento verificatosi in un luogo remoto del nostro globo terraqueo, poteva suscitare, se il reportage fosse stato ben confezionato, un sentimento collettivo quando la comunicazione era condivisa da altre popolazioni del nostro pianeta. Così un orrore circoscritto a un evento locale, divulgandosi, poteva trovare partecipazione in altre popolazioni, come in una sorta di orrore collettivo.

Le arti della fotografia e del cinema contribuirono fin dall’inizio del secolo scorso a dare un duro colpo al modello descrittivo e rappresentativo inteso sia come esperienza individuale che come esperienza collettiva, concordati secondo modelli e obbiettivi.

Solo dopo si comprese che la parola e l’immagine, pur riguardando un fatto, dovevano integrarsi ed esprimere o indicare una “propaganda”, un fine, una direzione. I registi e i montatori del racconto audio-visivo assunsero grande importanza. Il riferimento di un fine era costituito dai collegamenti logici ed emergeva come configurazione di un’epifania dal fine e dal punto di vista scelto per raccontare la visione-cognizione; in questo modo assumeva rilievo la posizione psico-socio-politica dell’osservatore di un evento, ammesso anche che il fenomeno fosse stato solo di matrice fisica o naturale.

Si comprese che senza la configurazione di relazioni il racconto non poteva manifestarsi come propaganda di un fine; per cui la più vicina visione estetica, o del “sentire”, ne era condizionata. Il sentire estetico, pur essendo una “conoscenza minore”, era il frammento importante da cui appariva un qualsiasi modello utilizzato per avvalorare questo o quel sistema conoscitivo maggiore della metafisica teologica-cosmologica o filosofica.

In questa fase la disciplina estetica iniziò ad essere considerata come fosse formata da un insieme di altre discipline singolari, che procedevano da quelle analizzanti il fenomeno naturale, a quelle dell’evento fisico, dell’analisi tecnica, dell’interpretazione psicologica, delle relazioni sociali, storiche ed economiche; e che si allargavano fino a inglobare l’esperienza e la conoscenza del cosmo, della apparizione della vita sulla Terra fino a coinvolgere le visioni teologiche o le filosofiche, senza dimenticare che l’organismo fisico, mentale e animico dell’osservatore era coinvolto nel modello con cui aveva deciso di raccontare quell’osservazione e quell’esperienza.

Si teorizzò che ogni espressione estetica si costituisse perché era avvenuta una scelta su un modello con cui raccordare i fenomeni relazionali e cognitivi da parte di un individuo; ovvero c’era stato qualcuno che aveva preso la decisione di un’interpretazione di come si era svolto un fatto, e faceva capo all’individuazione e alla trasmissione di un modello culturale di riferimento, ed era valido solo per quella situazione e per quel momento con cui si era configurato il manifestarsi dell’evento.

L’osservatore delle esperienze nel Novecento spesso non era in grado di spiegare coscientemente il perché di una scelta, ma attribuiva l’analisi degli eventi all’emergenza contestuale di un modello d’analisi (il riferimento è innanzitutto a La filosofia del presente di George Herbert Mead che condizionò poi L’arte come esperienza di John Dewey).

Nel campo dell’analisi estetica in Italia si progettava già la caduta del Metodo di analisi, perché l’esperienza induceva molteplici metodi, così come ci ricordava Luciano Anceschi dopo aver occupato la cattedra della disciplina Estetica a Bologna nel 1963.

Una volta che l’estetico era diventato determinante in qualsiasi forma del racconto, come intreccio e collegamento tra le varie discipline e tra le varie esperienze di osservazione, sembrava che l’espressione estetica della scienza della conoscenza sensitiva e sensibile, pur se era diventata già centro della narrazione, non avesse più alcun fondamento oggettivo.

Specie per quell’Estetica che aveva trovato il proprio Metodo ci fu un momento di paura e di terrore, per la perdita dei fondamenti. Analizziamo per un momento il tipo di esperienza estetica che nel moderno si era imposto con l’avvento del “terrore”.

La paura dei nemici politici, che aveva generato un periodo dittatoriale regolato da orride stragi, aveva già avuto il suo battesimo sociale con la rivoluzione francese, specie sotto il governo di Robespierre. Durante il cosiddetto periodo di «terrore», infatti, s’imposero anche nuovi modelli di relazione nei rapporti tra gli uomini, e alcune nuove visioni della vita che non avevano fondamento sulla parola, ma su quali «atti» umani producevano orrore.

Non a caso fu proprio durante la rivoluzione francese che la visione teologica della vita e delle ”scritture” iniziò a essere sovvertita fisicamente e simbolicamente. Quel potere costituito da secoli, proprio per l’avvento di sistemi filosofici ed artistici dei “lumi” che ebbero influenza specie sulla cultura del letterario, si travasarono nelle sistemiche e nelle visioni emerse con le libere regole logiche della narrazione, favorite anche dalla nuova scienza della conoscenza sensitiva e sensibile di Baumgarten e Leibnitz.

La rappresentazione come racconto di verità e la rappresentazione come racconto della percezione sensibile furono temi che appassionarono il dibattito nell’Ottocento. Si discusse di ciò fino a quando i movimenti artistici del futurismo, dadaismo e surrealismo distrussero lo statuto oggettivo della verità e della percezione umana intesa come universale – anche sulla scia delle teorie di Albert Einstein del 1905 e del 1915 – . Con la fisica delle particelle e con l’arte delle cosiddette avanguardie storiche venne meno la possibilità di fondare una scienza della conoscenza sensitiva e sensibile oggettiva.

In questa ottica di lenta trasformazione s’inscrive il discorso fatto sulla percezione del Vesuvio tra cronaca, reportage fotografico e cinematografico.

L’eruzione del 1944 fu particolare non solo perché fu segnata dalla diffusione mediatica dei cinegiornali nei paesi in guerra, ma anche perché fu classificata come un’eruzione “terminale”: infatti, si presentò all’esperienze delle popolazioni sia con il carattere esplosivo che effusivo. Fu pertanto considerata un’eruzione mista. Questa ultima eruzione ha condizionato anche la trasformazione dello stato del vulcano, che da attivo oggi ha un condotto ostruito da una gran “tappo” di granito.

Si era in guerra, gli Alleati erano entrati in Napoli il primo ottobre del 1943, mentre l’eruzione avvenne nel 1944 con uno sciame sismico a intermittenza dal 18 marzo al 7 aprile.

L’attività sismica così viene riassunta dall’Osservatorio Vesuviano: «Lave a S. Sebastiano e Massa di Somma. Caduta di prodotti piroclastici a Terzigno, Pompei, Scafati, Angri, Nocera, Poggiomarino e Cava. La lava tracimò dal lato settentrionale del cratere dirigendosi verso est, sud e nord. Mentre la colata meridionale, di portata limitata, si fermò a 350 metri di quota, la colata settentrionale, caratterizzata da una maggiore portata, si diresse nell’Atrio e, da lì, verso ovest, scavalcando il Monte Somma in prossimità del Fosso del Faraone, e raggiungendo i paesi di S. Sebastiano e Massa di Somma. La prima fase, effusiva, cessò quando cominciarono le fasi esplosive. Si formarono diverse fontane di lava, la prima delle quali di altezza superiore a 2 chilometri. Dopo le fontane di lava ebbe inizio il collasso della piattaforma craterica e l’interazione del sistema magmatico con l’acqua di falda, con nubi nerastre che superarono l’altezza di 6000 metri. In questa fase si formarono piccoli flussi piroclastici lungo i fianchi del vulcano. Dopo una breve pausa, si formarono nubi eruttive cipressoidi, da cui ricaddero lapilli e ceneri in direzione sud est. Lave per 21 milioni di metri cubi; prodotti piroclastici per 50 milioni di metri cubi. Sul numero delle vittime non si hanno valori definitivi, 21-45 morti per il crollo dei tetti. Distruzione dei centri abitati di S. Sebastiano e Massa di Somma. Interruzione della strada di collegamento tra i due paesi. 12000 persone evacuate a Portici da S. Sebastiano, Massa e Cercola. La prima fase dell’eruzione fu caratterizzata da un tremore sismico continuo. Gli spessori dei prodotti piroclastici raggiunsero valori di 80 cm. Le ceneri eruttate durante le fasi esplosive giunsero ad Avellino e perfino a Bari. Le ultime fasi dell’eruzione furono accompagnate da intensa attività sismica. Il 24 marzo cadde leggera cenere vulcanica biancastra costituita da piccolissimi cristalli di leucite; tale evento fu considerato come un segnale di imminente fine dell’eruzione. L’eruzione terminò con frane dalle pareti crateriche, i cui detriti ostruirono il condotto vulcanico. Dopo l’eruzione in alcune zone del versante ovest del vulcano (Portici, Ercolano e Torre del Greco) si ebbero esalazioni di anidride carbonica (mofete), che resero l’aria irrespirabile fino ad un metro di altezza».

Maggiore impatto ebbe questa eruzione nell’immaginario del mondo. Le divulgazioni delle riprese dei cineoperatori bellici e dei commentatori al seguito delle azioni di guerra delle truppe Alleate degli anglo-americani fecero molta presa sull’immaginario delle popolazioni belligeranti. Per la prima volta veniva registrata una violenta attività eruttiva del Vesuvio e veniva proposta a cinema con un commento (cinegiornale) agli spettatori [vedi filmato nella 1ª parte].

Dal 1908 furono prodotti ben sei film sugli “Ultimi giorni di Pompei”. Tutte le trame sono ambientate a Pompei con la presenza dell’attività eruttiva del Vesuvio . La sua iniziale versione è ricordata anche come il primo film storico ed epico del cinema italiano. Fu prodotto dalla Società Anonima Ambrosio di Torino. La pellicola è in bianco e nero (film muto con sottofondo musicale), e ha una durata di 13 minuti circa. La storia ha come centro le vicende amorose di Nidia Arbace e Glauco, che si svolgono durante la tragica eruzione del 79 d.C. Già nel 1913 fu fatta una versione più ampia, sempre in bianco e nero, della durata di 78 minuti per l’edizione italiana e di 88 minuti per la versione originale completa distribuita negli USA dalla Kleine Optical Company.

Il film muto più lungo, della durata di circa 146 minuti, è del 1926. La sua trama fu ripresa liberamente – come i precedenti – sempre dal libro “Gli ultimi giorni di Pompei” edito nel 1834 dallo scrittore massone-rosacrociano inglese Edward George Bulwer-Lytton. Solo dopo l’eruzione del 4-10 giugno del 1929 fu messo nel catalogo della produzione negli USA il film sonoro tutto americano della RKO, che uscì nelle sale cinematografiche il 18 ottobre 1935. Fu girato in bianco e nero nei RKO-Pathé Studios, al 9336 di Washington Blvd. a Culver City e nella contea di Los Angeles, nelle Bronson Caves e nel Bronson Canyon a Griffith Park – 4730 Crystal Springs Drive. La fonte ispiratrice è sempre il romanzo di Edward George Bulwer-Lytton, anche se la trama è diversa e i personaggi non si chiamano Nydia, Arbace e Claudio. Gli altri due film sono stati girati dopo l’ultima eruzione del 1944.

La “gnoseologia inferiore”, “l’arte del pensare in modo bello” e “l’arte dell’analogo della ragione” nel 1944, fanno già parte di una superata visione estetica, dove il poetico (la poesia) ha anche sempre meno attinenza con una interpretazione dei fatti attraverso il carattere bello o sublime; non fa più effetto quella paura-terrore che scompagina l’ordine della ragione davanti a un evento “catastrofico” della natura, né tanto meno può essere richiamato solo da una funzione catartica davanti all’orrore di una guerra suscitata dagli uomini. L’esperienza, al più, ci avverte che si è prodotto uno scompiglio nell’organizzazione per l’aspettativa disattesa di una reiterata sequenza di fatti.

Il racconto, composto per la sua funzione catartica attraverso il canto tragico, che si trasmetteva con la stampa fino agli albori del 1900 per mezzo dell’ascolto o della lettura della forza rappresentativa della parola, poteva essere ora tramandato e diffuso anche con la testimonianze delle immagini filmiche d’azioni in movimento. Un nuovo linguaggio e una nuova forma di “cognizione” iniziò a muovere i primi passi. Per questo nuovo modello di trasmissione del sapere, in genere, fu coniato il termine di società di massa e, poi, società dello spettacolo.

Nella società di massa o dello spettacolo, l’emozione, la passione, la logica, la bellezza, … la seduzione, sono rappresentate con gesti o azioni che devono esaltare l’emotività popolare. La narrazione, quindi, segue le regole dell’orazione che non ha fondamento solo su un ragionamento ferreo ma sulla «seduzione dell’ascoltatore», del pubblico che poteva prendere seguendo il fervore dell’oratore «un asino per cavallo», proprio come era affermato alla fine de L’encomio di Elena da Gorgia di Leontini.

Specie dopo la divulgazione dei nuovi i mezzi cinetici di trasmissione del dramma [da dran = azione] aristotelico, s’impone un nuovo modello di trasmettere il rappresentare e il comunicare; da qui, la necessità di riorganizzare la scienza della conoscenza sensitiva secondo i canoni del nuovo campo relazionale e delle nuove forme di comprensione o agnizione estetica. (Fine IIª parte)