Gli artisti possono e debbono concorrere a migliorare la società non soltanto attraverso il lavoro individuale, ma soprattutto intervenendo pubblicamente in modo partecipato e collettivo
di Giuseppe Salerno
Nella vita di ciascuno vi sono accadimenti che, dettati dal caso, contribuiscono a segnare quel percorso che, rendendoci unici, caricano di senso la nostra esistenza. Quando, sul finire degli anni ’70, scoprii per puro caso il piccolo borgo di Calcata, in un istante mi trovai davanti agli occhi qualcosa di cui da sempre avevo avvertito la mancanza ma che mai avevo cercato.
Un luogo non è semplicemente uno spazio fisico ma un insieme di suggestioni, desideri, possibilità, ambizioni. È il paesaggio sul quale proiettare e lasciare interagire ciò che di profondo è in noi. Calcata fu lo scenario nel quale esercitare il fare con le mani e dare corpo al piacere della costruzione; il luogo dove, azione dopo azione, il futuro assumeva forma; il luogo fuori dalle regole di un quotidiano irreggimentato e nemico dell’immaginazione; il luogo dove si ricostituivano i rapporti con il mondo reale, quello della natura e di una storia povera, tracciata da uomini semplici che con essa facevano quotidianamente i conti.
Per la prima volta mi sentii parte di una realtà con la quale interagire lasciando tracce di un fare che, nel guardare indietro, avrebbero rafforzato in me la gioia e la determinazione dell’andare avanti. La coscienza ed il piacere di esserci e di affermare la mia presenza furono, con Calcata, il percorso intrapreso. Un contenitore povero, ricco di silenziose tracce del passato, privato del tessuto sociale originario e votato all’abbandono ed alla morte, meritava una proiezione salvifica verso un futuro all’insegna del rispetto e della creatività.
“Calcata, scoperta e invenzione. Provino per un futuro reame, fu la manifestazione che in nome dell’arte diede, nel 1982, un importante avvio alla rinascita del piccolo borgo. Fu l’inizio di una storia che con le visioni “uniche” degli artisti segnò la ripresa e la valorizzazione di un luogo che si erse da subito a riferimento per una cultura alternativa a quella massificante della città. Se il senso dell’arte è “attribuire senso”, nessun altro propellente sarebbe risultato migliore per la costruzione di un domani che, “a misura d’uomo”, fosse diverso da quello propugnato dal pensiero unico.
Un futuro a misura d’uomo, ma anche di borgo quando nel 1990 ideai un carnevale riservato ad artisti che, a misura degli stretti vicoli, realizzarono i loro mini-carri su biciclette, passeggini, carriole e carrelli della spesa. Opere in movimento, appendici al mascheramento individuale dell’artista. Iniziativa questa cui fece seguito il 6 gennaio di cinque anni dopo il Primo (ed unico) Congresso Internazionale delle Befane, realizzato con il coinvolgimento di sette artiste internazionali. Un calesse condotto dall’architetto Paolo Portoghesi trasportò in corteo, seguito dalle Befane, i doni provenienti da ogni parte del mondo.
Fu con l’inaugurazione nel 1983 di “Vecchia Calcata”, la più piccola galleria d’Italia (soli tre metri per quattro), che avviai un ciclo di “mostre-incontro” intenzionato a favorire il dialogo tra due pensieri, due modalità espressive, due poetiche. Agli artisti chiesi, sulla base di un progetto comune, di gestire lo spazio facendovi coesistere e, possibilmente, fondere le rispettive creatività. È in tale occasione che si fa spazio la mia visione dell’arte quale momento di collegamento tra artisti e messa a confronto dei relativi elaborati di fronte ad un pubblico cui si sollecita una maggior attenzione ed un coinvolgimento più totale.
Una direzione questa nella quale si inserisce “Coppie Virtuali” (1995), rassegna formata da sei installazioni realizzate da altrettante coppie di artisti che, coppie nella vita, fanno emergere le visioni condivise di un quotidiano in comune.
Il superamento della concezione consolidata dell’arte che vuole l’artista chiuso nel suo mondo e l’urgenza di creare ponti trovano poi nel prezioso capitolo dell’Arte Telematica una piena, reiterata conferma. Con una intensissima attività gli artisti di “Tempo Reale” interagiscono a distanza avvalendosi dei nuovi strumenti di comunicazione e danno vita ad elaborati ed eventi di comunicazione collettiva che impegnano per la prima volta la dimensione virtuale della rete. Tra il 1986 ed il 1990 il gruppo di ricerca di cui mi occupai, conquistò la ribalta della scena internazionale.
Furono anni quelli nei quali promossi altre iniziative con le quali indussi numerosi artisti a produrre opere ispirate ad oggetti e su di esse confrontarsi. “Il Telefono” del 1987 e “La Tele-visione” del 1988 furono le prime rassegne. Rivolgere le proprie attenzioni ad un medesimo oggetto vede le modalità, la materia e la poetica proprie del singolo artista coniugarsi con il mondo concettuale evocato da tale oggetto e poi mettersi a confronto con altre opere, generate allo stesso modo, di fronte ad un pubblico catturato da una pluralità di rappresentazioni che, lontane dalle espressioni più tradizionali, hanno il pregio di avvicinare all’arte chi una mostra di quadri non andrebbe mai a visitarla. Su questa strada numerose sono state le iniziative di “Arte Collettiva” dedicate ad oggetti o tematiche predefinite. Iniziative d’Arte Collettiva, e non collettive d’arte giacché fondate su un progetto condiviso e unificante. Grandi esposizioni a tema il cui carattere contaminante è dato dall’essere itineranti e partecipate da un crescente numero di artisti invitati.
Diverse le esposizioni dedicate all’Uovo d’Artista curate nel Borgo di Calcata a partire dal 2003 e poi a Roma presso l’Ara Pacis nel 2007.
Ospitata a Viterbo in occasione di VitArte (2004) e successivamente dal MoaCasa (2005) presso la Nuova Fiera di Roma, “L’Arte Seduta” consistette in cento sedie allestite a simulare una sala cinematografica sul cui grande schermo venivano proiettate le immagini delle singole opere. Al pari di un direttore d’orchestra mi stavo avvalendo del contributo di tanti bravi artisti per la realizzazione di una grande opera, metafora dell’arte che cresce su se stessa. In quanto autore progettista di tale installazione, per la prima volta in questa occasione presi coscienza di quanto il mio ruolo non fosse diverso da quello dei tanti artisti coinvolti.
Con una prima esposizione romana prende avvio al Parco della Musica nel 2006 la rassegna d’Arte Collettiva “Gli Spaventapasseri scendono in piazza”. L’iniziativa, in favore del verde in città, si ripeterà per alcuni anni sino a dar vita nel 2012 al “Mese degli Spaventapasseri”, festeggiato in contemporanea da centinaia di artisti in 14 località. Ancora del 2006 è “L’Attaccapanni”, l’oggetto che si veste delle nostre esteriorità ogni qual volta ci spogliamo. Nello stesso anno, un pubblico di oltre 1200 persone accorse ad “Artisti con Bagaglio al Seguito” per visionare cento valige allestite come in una sorta di dogana. Una circostanza questa nella quale alcuni artisti presenti con le proprie valige si esibirono in altre forme espressive a dimostrazione di quanto l’arte sia oggi attraversamento e commistione di linguaggi. In seguito sarà “Artisti a Tutto Tondo” (2008) a meglio accendere i riflettori sulla complessità e poliedricità dell’artista. “Città Avite”, “Ricomincio dall’Albero”, “Ri-cicli, Bici d’Autore”, “Materia e Sapere”, “La Polvere e le Stelle”, sono altre avventure a tema.
Gli artisti, gli unici che esprimono liberamente un libero pensiero, sono una risorsa preziosa ma la società non riserva loro alcun ascolto.
Consapevole di ciò mi sono sempre più adoperato nello stimolare in loro riflessioni da presentare coralmente. Il pronto accoglimento di queste sfide è stato un incoraggiamento a perseverare nella direzione intrapresa. So bene che gli artisti, sollecitati dalla realtà che li circonda, non necessitano di altri stimoli per manifestare la propria visione critica, ma è mia convinzione che un più stretto rapporto tra loro possa generare un grande valore aggiunto al ruolo sociale dell’arte. Dal mio punto di vista gli artisti possono e debbono concorrere a migliorare la società non soltanto attraverso il lavoro individuale, ma soprattutto intervenendo pubblicamente in modo partecipato e collettivo. Se gli artisti sono l’ultimo baluardo di quella coscienza critica che l’umanità va ogni giorno perdendo, è riposta in loro ed in loro soltanto la speranza in un processo contaminativo al quale sento di dare il mio contributo. In ragione di ciò non mi appartiene il portare in mostra opere prodotte in tempi e luoghi diversi da artisti che si siano dedicati ad una stessa tematica. Avverto invece l’urgenza di offrire espressioni corali di punti di vista diversi scaturiti ad un tempo da una medesima sollecitazione in quanto illuminanti per un pubblico che, posto di fronte ad una articolazione di visioni, vede crescere in sé la coscienza della complessità, la sola in grado di salvaguardarci dalle semplificazioni e massificazioni imperanti.
Con l’esperienza ed il tempo si mettono a fuoco le proprie convinzioni nel mentre che si cresce in sensibilità. La costruzione di atmosfere, con una particolare attenzione all’allestimento, alle luci ed ai suoni, si fa sempre più importante nella proposizione di momenti espositivi il cui successo è in larga parte legato a quel carattere “avvolgente” che ne rende vivo il ricordo. In una manifestazione d’Arte Collettiva a parete l’adozione poi di un medesimo formato è condizione capace di assicurare a tutti i partecipanti una pari dignità di partenza e favorire una esposizione equilibrata, sempre che si adottino i giusti accostamenti. Fattori questi ben considerati in “Mille Artisti per L’Unità” (2008), l’esposizione/evento nella quale trecento opere nel formato 50×50 furono accompagnate dalla presenza di altrettanti artisti in camicia rossa nel mentre che l’Inno di Mameli sottolineava in sottofondo l’ingresso di un migliaio di visitatori nella grande sala del Mitreo di Roma.
Slides (a cura di Giuseppe Salerno)
Nello stesso anno, ancora nel formato quadrato, prende il via “Arte al Centoxcento”, sei esposizioni con 48 artisti che hanno prodotto ciascuno quattro lavori di misura 100×100. Un vincolo riproposto, quello del quadrato, che avrebbe costretto ad un risettaggio mentale. Da sempre gli strumenti a disposizione e le abitudini ci hanno indotto, salvo poche eccezioni, a considerare il rettangolo il formato nel quale iscrivere tanto il mondo reale che quello immaginario. Il teatro, la fotografia, il cinema, la televisione hanno condizionato la nostra visione, e con essa il pensiero.
Ho così ritenuto potesse essere il quadrato il non-formato che, costringendoci a rivisitare con occhi diversi gli universi nei quali navighiamo, ci avrebbe alleggerito dai vincoli del passato. Da allora ho sollecitato tutti a lavorare in quel formato e, con un certo compiacimento, ho visto molti continuare negli anni a produrre, in autonomia, opere inscritte nel quadrato.
Nella micro dimensione (cm.5×5), un’esperienza particolare fu quella di “Macro, Opere in Catalogo” (2010) con la quale promossi un’esposizione di cento lavori che, allestita con il respiro di opere di grande formato, costrinse i visitatori ad avvicinarsi in modo insolito alle pareti per poter essere apprezzata. Mai un pubblico fu così attento a visionare le opere al punto di contenere al massimo gli abituali momenti di convivialità. Giocando sul concetto di visibilità nell’arte, le opere furono riprodotte in catalogo ingrandite quattro volte.
L’arte è vita, e in me si fa strada l’idea che il prodotto artistico non possa ritenersi estraneo ai meccanismi che governano l’esistenza nel suo vorticoso divenire. Nulla è mai come prima, non fosse altro per i segni del tempo. E così è inconcepibile che l’opera possa sottrarsi alle trasformazioni che coinvolgono inesorabilmente tanto il mondo naturale che quello generato dall’uomo. Non vi è realtà che emerga dal nulla e tutto è un rimaneggiamento del preesistente. L’opera stessa non è mai creazione, ma rielaborazione di quanto l’artista ha visto, sentito, conosciuto o di cui si è appropriato. Quello dell’arte è un rimaneggiamento, un valore aggiunto a quanto è in natura o a ciò che altri hanno in precedenza realizzato. È con questo pensiero che nasce “Sopraffactions” (2009), un progetto che impegna tre artisti nel portare a termine ciascuno quattro opere a parete e poi scambiarsele per realizzarvi sopra i propri lavori avvalendosi, in tutto o in parte, di ciò che il precedente artista ha elaborato. Non opere a quattro mani, nate da progettualità condivise, ma vere e proprie “azioni sopra”, metafora di quel divenire da cui questa volta l’arte non resta immune. Che alcuni artisti abbiano affidato ad altri i propri elaborati con la piena consapevolezza che su di essi qualunque intervento sarebbe stato possibile segna un cambio di passo coraggioso e rivoluzionario che infrange l’antica concezione sacrale dell’arte destinata a sconfiggere il tempo. Il progetto attraversa cinque città e ad ogni tappa si aggiungono tre nuovi artisti con 12 opere sino a concludersi, dopo quattro anni, con 18 artisti e 72 opere, ovviamente nel formato 100×100.
Sulla strada intrapresa “Dissolvenze Incrociate” (2017) mette in scena un processo che, mutuato dal mondo del cinema, genera opere che sollecitano una particolare attenzione in un pubblico chiamato a ripercorrerne mentalmente le fasi realizzative, riconoscerne meccanismi e implicazioni. Cambio di scena che nel mentre una realtà lentamente svanisce, una nuova emerge, la dissolvenza incrociata è un dialogo tra immagini. Ventuno coppie di artisti hanno prodotto altrettante opere composte di quattro tele in cui si realizza il graduale passaggio dai caratteri dell’uno a quelli dell’altro. Risultato di progettualità condivise, poetiche, tecniche, materie, forme e colori si incontrano e si fondono in lavori che aprono a scenari insoliti, carichi di prospettive e stimolanti interrogativi. Ecco un altro momento significativo per artisti che, educati a rivendicare la paternità del proprio lavoro, accantonano l’ego e mettono in mostra con forza, coscienza e collegialità le risultanti di un processo relazionale che si chiede a noi di svelare e interpretare.
Un percorso appassionato, il mio, lungo il quale mi faccio sempre mille domande intorno all’arte, costretta come è da scenari e strumenti sempre nuovi a continue mutazioni. Un incessante riposizionamento mentale cui non corrisponde però un adeguamento delle parole in uso.
Da qualche tempo rifletto sulla dizione “Arte Contemporanea”, dove “contemporanea”, nulla specificando circa l’oggetto dell’arte, sottolinea unicamente lo spirito che lega sintonicamente l’artista al suo tempo. Sin dai primi decenni del secolo scorso il focus dell’arte si sposta dalla “bellezza” dell’opera alla sua “significatività” essendo le specificità del tempo e del luogo a suggerire, ispirare e condizionare l’artista alimentandone pensiero ed emozione. L’artista è dunque un interprete del proprio tempo e l’“arte contemporanea” ne è testimonianza. Con riguardo però allo spettatore, sempre più spesso chiamato in causa quale coprotagonista nell’arte degli ultimi decenni, dovrà intendersi contemporanea l’arte di artisti che, condividendo con esso la medesima condizione spazio/temporale, si avvalgono, fatte salve le differenti sensibilità, di chiavi interpretative a entrambi ugualmente accessibili. Detto ciò mi chiedo come possano oggi certe espressioni artistiche del ‘900 essere considerate “contemporanee” da un pubblico anagraficamente estraneo a quel mondo con il quale non abbiamo più nulla a che fare. A ciò aggiungiamo che avendo la digitalizzazione e la telematica realizzato la coesistenza dialettica tra ogni tempo e luogo, quella che sino a ieri era prerogativa dell’arte (conciliare l’inconciliabile) è oggi il connotato del mondo nel quale tutti siamo immersi. Groviglio inestricabile di realtà e finzione in una dimensione nella quale tutto coesiste fuori da ogni rapporto spazio/temporale, l’oggi vede assolutamente inadeguato l’appellativo “contemporanea”. Con questa riflessione mi chiedo se non sarebbe più appropriato parlare oggi di “Arte della Coesistenza”, e questa volta per sempre.
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