I volti dei bambini, uomini e donne fissati prima della gassificazione… mantengono una disperanza infinita, una sofferenza quasi elegiaca, lo smarrimento di una disumanità estranea alla bellezza del buono, del giusto, del bene comune
di Pino Bertelli
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello:
tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia.
Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo Pipel, l’angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito.
Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco…
Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra.
L’ombra della forca lo copriva… I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole.
I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
– Viva la libertà! – gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva.
– Dov’è il Buon Dio? Dov’e? – domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava…
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra.
Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…
Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi.
E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti.
La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare:
– Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca… Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere»1.
Elie Wiesel (superstite dei campi di concentramento di Auschwitz, Buchenwald, Buna)
1. Sulla fotografia dei passatori di confine
Darei tutte le fotografie della Magnum, World Press Photo, Pulitzer Prize for Feature Photography o iPhone Photography Awards per salvare davvero una lucciola o un bambino che muore sotto le “bombe intelligenti” della civiltà dello spettacolo… quando il rispetto della verità raggiunge il tragico trova nell’irrealtà i segreti della realtà… ogni fotografia presuppone un giudizio di valore, un’interpretazione della bellezza violata… si dovrebbe farne un uso poetico della fotografia, non una “bellezza” mercatale: è tipico dei fotografi mediocri abusarne. Per noi è incomprensibile che si possa desiderare di avere discepoli in fotografia e dappertutto… in ogni forma di comunicazione, gli euforici, gli ottimisti, i credenti a tutto danno segnali di squilibri mentali, come d’altronde i “maestri” malati di protagonismo… la caratteristica di “colui che insegna” è quella di riscuotere un’approvazione unanime… e questo vale per gli artisti, i politici, i bottegai di successo… la feccia dell’impero mercatale tiene tutti a libro paga… anche gli “arrabbiati del momento”, basta che non facciano sul serio. La storia della fotografia è la negazione della fotografia… non c’è cazzo che tenga!… è un lungo esercizio del disprezzo verso la dignità che non chiede spiegazioni… le grida degli ultimi ci sopravvivono e senza la sofferenza o una visione di confine, tutta la fotografia non è altro che una buffonata. Un solo bambino che non muore affogato nel Mediterraneo, vale più di tutti saperi prezzolati dei governi! Un fotografo compreso è un fotografo sopravvalutato.
Ci sono tuttavia dei passatori di confine, più o meno ricordati a margine della fattualità fotografica, che hanno lavorato a una geografia dell’umano e lasciato nelle loro opere l’impossibilità di dimenticare… i fotografi che non arrossiscono dei codici, linguaggi, fascinazioni dell’industria culturale sono irrevocabilmente condannati alla bassezza (che è il gusto predominante della volgarità omologata). La fotografia del dispendio esprime un linguaggio/immagine che fracassa i luoghi comuni e porta ai “ferri corti” con l’esistente: “Le tigri della collera sono più sagge dei cavalli dell’intelligenza” (William Blake, diceva). La fotografia consiste nel fare apologie del mercato o generare eresie nell’uniformità… si tratta di conciliare il risentimento con la grazia, screditare tutte le imposture dell’ordine istituito, costruire fasi di passaggio tra la resurrezione dei corpi e la fondata lucidità di abbandonare ogni modello… studiare altre possibilità di fare a pezzi l’intolleranza verniciata di “buoni sentimenti”: le persone più interessanti e le più vere che abbiamo mai incontrato, riuscivano malapena a leggere o scrivere, ma sapevano che il profumo del gelsomino può influire sul mutamento delle costellazioni.
Ci sono autori che hanno fatto della fotografia di confine il portolano dell’umiliazione incatenata e non hanno mai recitato il ruolo di “geni incompresi”, né mai dato nessun credito a elogi o denari elargiti con la frusta del padrone… hanno piantato le loro immagini nel cuore dell’esistenza e mostrato che la fierezza, la dignità, l’orgoglio non hanno mai marciato dietro una bandiera o un dio o un governo… alcuni (come Wilhelm Brasse) hanno mostrato l’inferno della Shoah (dall’interno) e portato alla conoscenza di tutti, compreso gli ingenui dei corsi di fotografia, l’infamia dei tiranni! Fucilare le idee, fino allo sterminio con le camere a gas, è sempre stato un esercizio caro ad ogni potere… nemmeno le chiese monoteiste hanno raggiunto la barbarie del nazismo o del “comunismo”… i fanatici del terrore hanno fatto dell’obbedienza l’apice della vigliaccheria… soltanto chi puzza di una qualsiasi fede ha la tara dell’imbecille e mentre uccide si accompagna a un Dio da qualche parte! Ancora: il colonialista s’è accorto dello schiavo quando lo schiavo gli ha tagliato la gola e ha detto: fine della secolarizzazione delle lacrime.
Lo dicono le annotazioni biografiche. Wilhelm Brasse nasce a Żywiec, una piccola città della Polonia, il 3 dicembre 1917. Prima della seconda guerra fa il fotografo ritrattista… dopo l’invasione della Polonia (1939) si rifiuta di arruolarsi nella Wehrmacht e “dichiarare la sua fedeltà a Hitler”… la Gestapo lo interroga più volte… cerca di fuggire in Francia ma viene catturato al confine con l’Ungheria… sconta diversi mesi in carcere e il 31 agosto 1940 lo deportano nel campo di concentramento di Auschwitz, matricola 3444. Nel febbraio 1941 il comandante del campo, Rudolf Franz Ferdinand Höß (tessera delle SS n. 193.616), ordina a Brasse di documentare i prigionieri ritraendoli sia di fronte che nei profili destro e sinistro per la “Erkennungsdienst”, unità di identificazione fotografica, una sezione della Reichssicherheitshauptamt (Direzione generale per la Sicurezza del Reich), situata negli uffici centrali delle SS. Un covo di assassini, insomma!
Ad Auschwitz Brasse fotografa anche le vittime degli esperimenti del Josef Mengele… il “dottor morte” o “angelo della morte”… questo medico-antropologo e criminale nazista, ossessionato dai gemelli (che chiamava “le mie cavie”) sopravvisse alla caduta del nazismo e riuscì a sfuggire al Processo di Norimberga grazie alla documentazione che il comune di Termeno (Alto Adige) gli procurò per l’espatrio in Paraguay e Brasile… lo stesso comune rilasciò falsi documenti d’identità anche a Adolf Heichmann (uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei) che si rifugiò in Argentina… poi nel 1960 il servizio segreto israeliano (Mossad) organizzò un avventuroso rapimento e dopo un processo piuttosto contrastato, il 31 maggio 1962 fu a ragione impiccato per crimini contro l’umanità, poi bruciato e disperso nelle acque territoriali israeliane. Heichmann – come sappiamo dai resoconti del processo di Hannah Arendt – era l’incarnazione dell’assoluta banalità del male2… ed è una conferma che i burocrati d’ogni potere appartengono alla categoria dei tarati. È deplorevole che un delinquente come Josef Mengele non sia stato impiccato all’asta della bandiera con la croce uncinata né buttato ai porci come avrebbe meritato… è morto nel 1979 per un attacco cardiaco in Brasile, a pochi metri dalla riva dell’oceano Atlantico. Gli uomini di corte sono sempre i più pericolosi, finiscono in politica, negli eserciti o nelle banche per schizofrenia cronica e fanno dell’inganno e della codardia una grammatica di sangue.
Con il crollo imminente della Germania e l’avvicinarsi delle truppe sovietiche in Polonia, i nazisti ordinarono a Brasse di distruggere fotografie e negativi… salvò dal rogo 40 – 50 mila immagini, le nascose nel campo e poi consegnate alla Resistenza… quell’archivio di dolore venne recuperato dai sovietici che tutt’ora lo conservano. I nazisti deportarono Brasse e altre migliaia di prigionieri nei campi di Mauthausen-Gusen (gli ultimi ancora sotto il controllo tedesco) e il fotografo di Auschwitz rimase detenuto nel campo di Ebensee fino all’arrivo degli alleati (maggio 1945). Alla fine della guerra tornò a Żywiec (a pochi chilometri da Auschwitz-Birkenau) ma non riuscì più a fare fotografie… aprì un salumificio, si sposò ed ebbe due figlie… muore a Żywiec il 23 ottobre 2012 (all’età di 94 anni). Molte delle sue immagini sono preservate nel Yad Vashem (Ente Nazionale per la Memoria della Shoah) a Gerusalemme e nel Museo di Auschwitz. Ci sembra inconcepibile che un fotografo che si rispetti possa desiderare e accettare applausi… ma come è stato per Brasse (e non importa fotografare le atrocità dei campi di sterminio), il fotografo dev’essere testimone delle crudeltà che vanno oltre le parole, documentare l’inimmaginabile malvagità di governi che pretendono di scrivere la storia. La fotografia non consiste nel lasciare le cose come stanno, ma cercare di porre rimedio là dove si disonora la povertà, la dignità, la fraternità… tranne la verità, tutto è impostura.
La fotografia mercatale sguazza nell’accessorio… la cosa terribile è che, dopo averla letta, niente ha più senso, perché niente, ma proprio niente resiste quando si esce dall’ovvietà artistica… l’accademismo spettacolare invade tutto e tutto precipita nel naufragio di modelli uniformati… sottrarsi alla tentazione di qualsiasi forma celebrativa non significa avere la volontà dei santi o la smania dei delinquenti… si tratta di non adorare la propria caricatura né vendere l’anima a un qualche Mito, né importa essere capiti da tutti… la fotografia autentica coglie con l’immaginazione ciò che si cela nella vita quotidiana… è un’epifania visuale predestinata alla salvezza o alla dannazione… è lo sguardo che emancipa se stesso sul confine tra la bellezza e l’eternità.
2. Il fotografo di Auschwitz e sulla fotografia della Shoah
Il termine soluzione finale della questione ebraica è stato usato dal nazismo tra la fine del 1941 ai primi del 1942 (sancito nella conferenza che si tenne a Wannsee il 20 gennaio 1942 e alla quale parteciparono alti ufficiali del regime, Hitler non c’era, ma c’erano Reinhard Heydrich 3 e Adolf Eichmann)… si riferisce allo sterminio sistematico degli ebrei4, chiamato anche (malamente) Olocausto o (con più aderenza) Shoah… Olocausto significa “offerta sacrificale”, Shoah “catastrofe, distruzione”… per molti ebrei è la definizione più appropriata riguardo a uno dei genocidi tra i più efferati dell’intera storia umana. Tra il 1933 (ascesa al potere di Hitler) e il crollo del nazismo (1945), furono sterminati tra 15 e 17 milioni di persone, tra cui 5-6 milioni di ebrei… libri, documentari, film, fotografie, resoconti giornalistici… ne danno notizia… in Rete molto è reperibile, non sempre e non tutto è degno di attenzione… come il negazionismo della mostruosità nazista… la Shoah, come tutte le pratiche di sterminio di un popolo o di minoranze etniche, religiose, culturali, linguistiche, sessuali… è una conseguenza dell’ideologizzazione dell’idiozia… un’ubriacatura del pensiero, una degenerazione della politica, una degradazione della cultura… è il crimine di Stato più spregevole, perché è commesso sempre in nome del popolo.
La fotografia della Shoah di Wilhelm Brasse non è solo la documentazione di un orrore programmato, è anche una visione spiazzante che oltre a catalogare i tratti delle vittime (fronte, profilo, trequarti), riesce ad esprimere una fattualità fotografica con sfumature singolari, talvolta estetiche… più dei lavori di Georges Angéli a Buchenwald e Francisco Boix a Mauthausen, Brasse sembra andare oltre le direttive generalizzate delle SS… i ritrattati, specie i bambini, lasciano intravvedere qualcosa negli occhi che contiene se non una speranza, certo un “odore della malvagità” sconfitta dalla bellezza violata. Nel trittico della ragazzina Czeslawa Kwoka (14 anni, marchiata col numero 26947), picchiata e bastonata dai nazisti prima della fotografia… si coglie il requiem del linguaggio fotografico e la perdizione di una civiltà millenaria: nella prima immagine Brasse evidenzia il chiodo dove appoggia la testa la ragazzina, sembra una canna di fucile in attesa del fuoco… non c’è paura negli occhi, forse rabbia, sconcerto… nella seconda immagine il fotografo riesce a cogliere il risentimento che fuoriesce dal fondo dello sguardo spianato contro fotocamera… la terza immagine è sorprendente… la ragazzina guarda verso l’alto, oltre il tetto di legno della capanna e sembra uscire di scena… volare chissà dove, non certo in un forno crematorio! Gli assassini uccideranno solo il suo corpo, mai la bellezza della sua innocenza. Il ritratto sfida tanto la conoscenza quanto l’affabulazione fotografica… attraverso l’afflizione che affiora dalla fotografia di Brasse, emergono gli uccisori più che i morituri… nella fierezza ritrovata di Czeslawa Kwoka – la verità sta nella gioia perduta della vita e insorge contro tutto ciò che abbrutisce quello che una volta si chiamava giusto –.
Naturalmente il “mondo libero” sapeva e tacque 5… la carta stampata, i cinegiornali, la radio… oscurarono la Shoah per anni… non ci furono (quasi mai) sabotaggi alle rotaie dei treni pieni di esseri umani condotti al macello, e anche la complicità dei “circoli ebraici” con le SS all’interno dei campi è tutta ancora da studiare (anche se ne abbiamo nota da qualche parte6): la storia della Shoah è stata una sorta di miseria delle miserie politiche di molti Paesi… i “grandi” sistemi economici/bellici sono sempre stati conniventi con i regimi tirannici… anche se qualche volta si fanno la guerra, in realtà riproducono secoli di violenze contro gli ultimi e l’hitlerismo (come lo stalinismo o il capitalismo “comunista” cinese o russo d’oggi) non è altro che il cristianesimo materializzato… non bisogna ingoiare Dio, bisogna invece sputarlo: è il solo modo per liberarsene. Né inferno né paradiso, ma una società di liberi e uguali che spezza le catene dell’idolatria, dell’ammirazione e della soggezione… ci vuole più intelligenza per fare a meno dei campi di sterminio che introdurli nell’estasi della mattanza.
In un acuto articolo sul “fotografo dei lager”, Wilhelm Brasse, Michele Smargiassi scrive: “Brasse è un privilegiato, e ne è consapevole. Il lavoro ufficiale gli garantisce la vita, mentre quello ufficioso (ritratti per gli ufficiali) gli procura qualche agio di contrabbando, cibo, sigarette. Per cinque anni si vede sfilare davanti i volti e i corpi dei morituri. Sa cosa succede fuori dalla baracca-studio del blocco 26 da cui evita più che può di uscire. Se non lo sapesse, glielo direbbero i volti che il suo obiettivo cattura: ebrei emaciati, prigionieri russi, zingari pesti, ragazzine quasi bambine. Ravvivati dalla narrazione, gli episodi della memoria di Brasse prendono vita. Neppure gli autori però osano prestare al loro protagonista romanzato la coscienza che le sue fotografie, e quindi il suo stesso lavoro, non sono i documenti burocratici di uno sterminio, ma ne sono uno strumento letale”7. Tutto vero. Se come “strumento letale” s’intende che la fotografia è un mezzo per portare la sofferenza all’espressione ed è la migliore introduzione alla conoscenza del fotografato.
L’iconografia di Brasse (nel suo insieme) travalica l’origine della seduta fotografica e rende la paura sottile, talvolta fino a rovesciarla… non sempre c’è bisogno di un fucile per abbattere gli edifici della tirannia, può bastare anche un colpo di vento della fotografia… la sacralità di uno sguardo in momenti eccezionali, certo, è anche una profanazione dell’elevazione o della caduta dell’uomo. Le immagini di Brasse, appunto, dopo una prima sensazione di sgomento, contengono un silente medesimo grido: la verità si rivela all’innocenza condannata, a coloro che non accetteranno mai la violenza dell’uomo sull’uomo!… i carnefici hanno tutti le medesime stigmate, anche quando sembrano socievoli, per questo non vanno dimenticati, perché si ripresentano a ogni giro di sangue della storia e commettono in perfetta sintonia con le masse i medesimi delitti. Quando si versano lacrime secche, quando lo sguardo si fa dissidio è segno che si è capito! Non c’è sorriso sotto il cappio del boia! L’indifferenza è il dizionario degli idioti che impedisce di raggiungere la bellezza (e la giustizia che si porta dietro) per nascita.
Brasse ha documentato il male di Auschwitz in maniera duale, che invita all’equivoco, anzi lo nutre, e Smargiassi vede bene questa profondità lessicale: “Qualche ritocco, di nascosto, e Brasse ingentilisce i tratti di un condannato: piccolo regalo clandestino di dignità «perché gli esploratori del futuro si rendessero conto di avere di fronte uomini e non bestie». Ma ogni difesa crolla quando gli viene chiesto di documentare i ‘pazienti’ del dottor Mengele (ecco quattro ragazzine scheletriche, nude, derubate anche dal pudore per i corpicini che non hanno più nulla da mostrare), e poi gli esiti sanguinolenti dei suoi esperimenti, spesso praticati davanti all’obiettivo per non perdere l’atroce attimo fuggente. Qui forse matura la sorda, istintiva decisione di ribellarsi in qualche modo: alla vigilia della caduta degli dèi con la svastica, Brasse inizia a collaborare con la resistenza polacca del campo, e all’ultimo, nel fuggi-fuggi letale, con l’Armata rossa alle porte, decide a rischio della vita di disobbedire all’ordine di bruciare tutto l’archivio”8. Non è detto che la fotografia si faccia solo con la macchina fotografica… a volte è necessario passare dalla fotocamera ad azioni altrettanto espressive e dare inizio allo smantellamento del vaneggiamento radicato in ogni convinzione dove il potere è tutto e l’uomo niente! La verità non sta nella reazione né nella rivoluzione… sta nel mettere in questione sia le politiche totalitarie sia coloro che le sostengono… passare dalla armi della critica a utensili più ragguardevoli per spezzare la dolenza secolare sulla quale non si può tacere!
Restiamo basiti su quanto afferma Clément Chéroux — storico della fotografia, capo curatore della fotografia al Museum of Modern Art di San Francisco (citato da Smargiassi) —, quando scrive che le fotografie di Brasse servivano per attestare “la conformità del detenuto agli standard fisici e sociali del reietto, dai quali dipende la sua eliminabilità. Dunque anche lo scatto della fotocamera di Brasse uccide. E lui stesso è un perpetuatore di olocausto. Perché quei corpi, una volta fotografati, diventano immediatamente inutili”. Una simile imbecillità la poteva dire solo un accademico della fotografia… frequentatore dell’insignificanza della fotografia mercatale o, al meglio, dell’avanguardia deficiente sempre in bilico tra l’estetismo dell’Apocalisse e il conformismo della cultura da centri commerciali… caro Chéroux, dovresti pisciarti addosso dalla vergogna solo a pensare che i corpi trucidati nei lager sono diventati inutili, non solo per la fotografia! Il supplizio della Shoah non è solo un dramma universale ma riguarda da vicino tutti! Il silenzio semplifica i terrori e avalla l’infantilismo dei criminali e dei cortigiani che li assolvono! Qualsiasi ritratto della Shoah, anche il più sbagliato, invita a ricordare, a non dimenticare, a non piangere, ma a rompere il disincanto delle macchine di morte d’ogni tirannia… e una vittima – se hai letto qualche libro serio lo dovresti sapere – è sempre al di sopra dei suoi persecutori. Maneggiare le idee richiede talento quanto maneggiare le immagini… con l’applicazione anche uno come te può diventare un buon salumiere, ma non comprendere il mistero, la magia, la surrealtà che c’è dietro le immagini… penso che non ci sia niente di più odioso che essere compresi… specie quando si scrive sciocchezze e si pensa d’essere profondi. Non sai nemmeno che la fotografia è la forma più sottile d’indiscrezione o di aggressività… non lascia mai le cose al loro posto, le amplifica nel falso o le sovverte nel vero! Con la fotografia farisaica la vita diventa accettabile perfino in una fogna9.
La cartografia figurale della Shoah di Brasse ha poco a che fare con la drammaturgia dei campi di sterminio dei fotografi al seguito delle forze alleate – Elizabeth “Lee” Miller, Margareth Bourke-White, George Rodger, William Vandivert, Eric Schwab, Germaine Krull o anonimi fotografi degli eserciti francese, inglese, americano, sovietico – … hanno certo mostrato la desolazione del ribrezzo nazista e confermato ciò che da tempo i governi in guerra sapevano… le loro fotografie hanno provocato anche lesioni profonde nell’anima dei lettori di giornali e riviste dove apparivano (dopo la fine della guerra e nel bel mezzo di manovre diplomatiche sulle quali si giocavano fiumi di soldi per la ricostruzione dell’Europa ridotta in macerie), ma pur nella loro completezza formale non riuscivano a contenere o a far “toccare” la pedanteria della ferocia nazista, quanto i fotografi (anche maldestri) che dall’interno dei campi andavo a disvelare (a volte in maniera inconsapevole) il flagello della Shoah.
Va detto. Nella spartizione della torta economica del dopoguerra, anche gli ebrei richiesero i loro indennizzi, ripartiti non sempre nella giusta maniera… agli zingari né ad altre minoranze non è stato mai riconosciuto nessun risarcimento, come si legge in L’industria dell’Olocausto di Norman G. Finkelstein10… l’abbiamo incontrato e fotografato a New York, Finkelstein… i genitori, ci raccontò, erano sopravvissuti alla tragedia del ghetto di Varsavia e Auschwitz… le controversie con Israele che aveva suscitato il suo saggio non gli impedivano di affermare che lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei e il profitto derivato dall’Olocausto faceva parte della politica conformista della comunità ebraica americana in concerto con lo Stato di Israele: “Esistono anche ragioni interne per la nascita dell’industria dell’Olocausto. Gli studiosi sottolineano la recente apparizione della «politica dell’identità» da un lato e della «cultura della vittimizzazione» dall’altro. In realtà, ogni identità si fonda su una specifica storia di oppressione e, di conseguenza, gli ebrei cercarono la loro nell’Olocausto.
Portfolio (a cuda di Pino Bertelli)
Eppure, tra i gruppi che protestano la loro vittimizzazione, ivi compresi i neri, i latini, i nativi americani, le donne, i gay e le lesbiche, solamente gli ebrei, nella società americana, non sono svantaggiati. In realtà, la politica dell’identità e l’Olocausto hanno fatto presa tra gli ebrei americani non in virtù del loro status di vittime ma proprio perché essi non sono vittime”11. Parole forti, che fanno eco ad altre considerazioni sulla questione ebraica di Raul Hilberg 12, Hannah Arendt 13 o Primo Levi 14… e basta scorrere Storia della Shoah. Lo sterminio degli ebrei 15 o il documentario di Claude Lanzmann, ex-partigiano, Shoah16… per comprendere la complessità antropologica, storica, politica sull’eliminazione di un popolo. La forma del genocidio d’ogni minoranza non cambia affatto nel tempo… mutano solo i pretesti, le fedi, le follie che li scatenano… non ci può essere nessuna emancipazione nella distruzione e gli storici non raccontano altro che i residui della disperazione. Una nazione senza pregiudizi non è mai esistita ed è per questo che sono stati inventati i campi di sterminio, le forche o i plotoni di esecuzione… le dottrine, le ideologie, le carneficine passano (o sono oscurate), le fosse comuni restano.
Anche il fotografo di Hilter, Walter Frentz, fedele collaboratore di Leni Riefensthal, di provata fede nazista (come la Riefensthal, del resto), non si lasciò sfuggire l’occasione di fotografare su pellicola a colori Afgacolor (diapositiva inventata in Germania nel 1932), gli “schiavi di Hitler”… si tratta di un servizio fotografico commissionato per la propaganda nazista da Albert Speer, fatto nel 1944 a Dora (Buchenwald)… gli operai sono ripresi in un’officina sotterranea, accuratamente ordinati (quasi felici) che lavorano al montaggio delle bombe-razzo V2 (i sabotatori che rallentavano la produzione venivano uccisi sul posto)… la sceneggiata del fotografo s’avvita sul patetico quanto del falso, nemmeno ben fatto. Frentz era intimo di Hitler 17, gli fu accanto fino all’epilogo nel Führerbunker di Berlino dove l’imbianchino austriaco si uccise e si fece dare alle fiamme (1945)… aveva documentato eccidi, assassinii, compleanni del dittatore ed era riuscito comunque a farla franca, muore nel 2004 all’eta di 97 anni invece d’essere impiccato sul frontale di un cinema dove si proietta L’ebreo errante (1940) di Fritz Hippler.
Il figlio di Frentz, Hanns-Peter, in un’intervista rilasciata al Sole 24 Ore (2009), dice (senza vomitare): “Mio papà era l’occhio di Hitler… era un regista coltissimo, parlava di architettura, di musica”… quando sul letto di morte gli chiede se si sentiva colpevole di aver lavorato per quegli assassini, il candido padre risponde: “Io sono un artista, io non ho fatto la storia, io ho solo riprodotto la storia fatta da altri” – . Il delirio nazista non lo perseguitava per niente e il suo apporto alla decimazione del popolo ebraico era stato solo una “normale amministrazione”. La cosa peggiore che possa capitare a un figlio di puttana della sua risma è quella di coprirlo di allori invece che di sputi! Dopo la guerra Frentz, sostenuto dalle principali istituzioni tedesche, ha continuato a fare documentari e film sulle città d’arte europee… è in questi momenti di degenerazione della verità etica che rimpiangiamo l’arte del ramponiere di Moby Dick (Queequeg)18… quella di piantare il suo arpione al momento giusto e nel punto giusto di un mostro degli abissi o nel cuore di un imbecille!
La vera fotografia comincia al di là della fotografia. Le immagini della dissolutezza di Brasse – come quelle di George Angéli, Rudolf Cisar, Francisco Boix, Grossman Mandel, Alex (?), un prigioniero ebreo mai bene identificato di nazionalità greca (membro della Resistenza ad Auschwitz) che riuscì a fotografare il procedimento delle esecuzioni di massa nelle camere a gas – 19… contengono quella spiritualità dell’umano che supera l’origine dell’occasionalità… i volti dei bambini, uomini e donne fissati prima della gassificazione… mantengono una disperanza infinita, una sofferenza quasi elegiaca, lo smarrimento di una disumanità estranea alla bellezza del buono, del giusto, del bene comune… una sorta di calvario inaccettabile che si configura in quei trittici sospesi tra l’umiliazione e l’ingiustizia. Brasse riesce ha fare d’ogni immagine documentale, lo specchio-memoria di un’infamia prolungata e gli sguardi in macchina, specialmente, s’inframmezzano tra la mostruosità di un vaniloquio e la percezione d’una menzogna che frana.
Brasse non è un mezzano della fabbrica dell’Olocausto… è il passatore di confine che – senza troppo gridarlo – opera uno spiazzamento, un’emozione collaterale, una diserzione dello sguardo… che mette sullo stesso piano aguzzini e vittime… qui la dismisura della fotografia, che è sempre un’eresia, riesuma l’archeologia della vergogna e la rende ancora più vergognosa! L’immaginale di Brasse si fa più asciutto nella ripetizione, nel disagio e nel dissidio, anche… che fuoriesce dai corpi ammaccati, martoriati, vilipesi… un universo personale che interroga l’ossessione del male! Ci sono anche donne che accennano mezzi sorrisi, ragazzine incazzate, mai arrese, uomini logorati nella loro vitalità che sembrano affrontare la morte come mistero… una sorta di unicità di un popolo sconfitto ma che vincerà contro duemila anni di odio e pene! I totalitarismi (che si celano dietro una bandiera qualunque) sono imprese folli ed è per questo che hanno avuto (ed hanno) successo, ma è anche per questo che crolleranno! Quando i popoli si accorgeranno della sete di bellezza, giustizia, fraternità che c’è nelle loro lacrime, ci sarà la rivoluzione nelle strade della terra.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 5 volte agosto 2019
1 Elie Wiesel, La notte, Giuntina, 1980.
2 Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 2012.
3 Reinhard Heydrich, il boia di Praga, non riuscì a scampare all’attentato dei partigiani cecoslovacchi Adolf Opálka, Jan Kubiš e Josef Gabčík (27 maggio 1942)… morì per le ferite riportate il 4 giugno… i giustizieri di Heydrich e altri partigiani si rifugiarono nei sotterranei della chiesa dei santi Cirillo e Metodio… furono traditi e il 18 giugno dopo un’estenua difesa vennero uccisi, alcuni si suicidarono. L’Operazione Anthropoid (congegnata a Londra), ha mostrato che le armi dell’eresia rompono le regole ed è il principio del crollo montante d’ogni tirannia. Sull’Operazione Anthropoid c’è un’attenta filmografia da consultare: Anche i boia muoiono (1943) di Fritz Lang; Il pazzo di Hitler (1943) di Douglas Sirk; Atentát (1965) di Jirí Sequens; E l’alba si macchiò di rosso (1975) di Lewis Gilbert; Anthropoid (2016) di Sean Ellis; L’uomo dal cuore di ferro (2017) di Cédric Jimenez.
4 «Adesso, nell’ambito della soluzione finale, gli ebrei dovrebbero essere utilizzati in impieghi lavorativi a est, nei modi più opportuni e con una direzione adeguata. In grandi squadre di lavoro, con separazione dei sessi, gli ebrei in grado di lavorare verranno portati in questi territori per la costruzione di strade, e non vi è dubbio che una gran parte verrà a mancare per decremento naturale. Quanto all’eventuale residuo che alla fine dovesse ancora rimanere, bisognerà provvedere in maniera adeguata, dal momento che esso, costituendo una selezione naturale, è da considerare, in caso di rilascio, come la cellula germinale di una rinascita ebraica. (Vedi l’esperienza della storia)».
(Dal protocollo di Wannsee del 20 gennaio 1942).
5 Elie Wiesel, Il mondo sapeva. La Shoah e il nuovo millennio, Giuntina, 2019.
6 Hannah Arendt, La lingua materna, Mimesis, 2019; Etty Hillesum, Diario 1941-1942, Adelphi 2015; Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, 1999.
7 Michele Smargiassi, http://www.repubblica.it/
8 http://www.repubblica.it/
9 Abbiamo letto il catalogo curato da Clément Chéroux, Memoria dei campi: fotografie dei campi di concentramento e di sterminio nazisti: (1933-1999), testi di Ilsen About, Pierre Bonhomme, Clément Chéroux, Christian Delage, Georges Didi-Huberman, Arno Gisinger, Katharina Menzel, interviste realizzate con Georges Angéli, Wilhelm Brasse, George Rodger, Naomi Tereza Salmon, Contrasto, 2001. I documenti fotografici provenienti dagli archivi storici tedeschi, americani, inglesi, francesi, polacchi e russi figurano uno spaccato importante della derelizione del popolo ebraico e alcune interviste sono spesso commoventi… tuttavia pensiamo che non c’è niente da riconciliare né con la Germania né col nazismo… la memoria dei campi è la memoria di assassini e gli assassini vanno trattati da assassini, cioè col medesimo sale della storia.
10 Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto, Rizzoli, 2002.
11 Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto, Rizzoli, 2002.
12 Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Einaudi, 1995.
13 Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 2012.
14 Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1991.
15 Storia della Shoah. Lo sterminio degli ebrei, AA.VV, voll. II, UTET, 2008
16 Claude Lanzmann, Shoah, 1985 (9 ore e mezza). Il film di Lanzmann è forse l’opera più compiuta sulla Shoah. Simone de Beauvoir (per un certo tempo compagna del regista), nell’introduzione al libro di Lanzmann (Shoah, Einaudi, 2007) scrive: “…vedendo lo straordinario film di Claude Lanzmann, ci accorgiamo di non aver saputo niente (…) non avrei mai immaginato una simile mescolanza di orrore e di bellezza. Certo, l’una non serve a mascherare l’altro, non si tratta di estetismo: al contrario, essa lo mette in luce, con tanta inventiva e tanto rigore che siamo consci di contemplare una grande opera. Un puro capolavoro”. Tutto vero. Ciò che non va nelle dossologie scritte dai professori, gente mansueta che forse nemmeno sa farsi un caffè alla turca, è che descrivono solo i tumulti della storia degli oppressi, incapaci di rispettare la verità o anche solo tendervi, insegnano ciò che non hanno mai imparato!
17 Il documentario di Jürgen Stumpfhaus, L’occhio del Terzo Reich (1992), conferma che il cameraman in divisa nazista non ha mai rinnegato la sua partecipazione a stragi di ebrei e partigiani… e sono in molti, e noi siamo tra quelli, che si rimproverano di non aver spaccato il muso ai velleitari della violenza.
18 Hermann Melville, Moby Dick ovvero La balena, Adelphi, 1987.
19 Ando Gilardi, Lo specchio della memoria. Fotografia spontanea dalla Shoah a YouTube, Bruno Mondadori, 2008.
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