La forza evocativa delle fotografie di Raota è una sorta di realismo magico… le immagini sono colme di tenerezza, di crudezza, anche, esprimono un linguaggio caldo, partecipativo
di Pino Bertelli
a Roberto Perdía
uno dei capi dei Montoneros, guerriglieri che hanno combattuto la dittatura argentina… lo abbiamo incontrato a Buenos Aires nel corso di una manifestazione a sostegno della Palestina (2014) – ci siamo abbracciati, levato i pugni dalle tasche e alzati contro il cielo… “Uno non ha un’anima per sé solo, ma un pezzetto d’una grande anima, che è la grande anima di tutta l’umanità… Quindi non importa, perché io non potrò mai morire. Io sarò dovunque, dovunque ci sia un uomo.
Dovunque ci sia un uomo che soffre e combatte per la vita, io sarò là. Dovunque ci sia un uomo che lavora per i suoi figli, io sarò là. Dovunque il genere umano si sforzi di elevarsi, coi ricchi e coi poveri, in questa comune aspirazione di continuo miglioramento, e dove una famiglia mangerà la frutta d’un nuovo frutteto, o andrà a occupare la casa nuova, là mi troverai”.
(dal film Furore – 1940)-di John Ford)
I Pastorale della fotografia al tempo dello spettacolo integrato
La pastorale (1) della fotografia al tempo dello spettacolo integrato o della società fluida, direbbe Zygmunt Bauman… non si occupa di scenari della conoscenza o dell’indignazione ma s’accorpa all’illustrazione galvanizzata dello spettacolo come formidabile falsità della vita contemporanea in tutti i suoi aspetti economici, politici, religiosi, culturali… e “lo spettacolo è il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna” (Guy Debord) (2).
La pastorale della fotografia si guarda guardare e come una peste dell’immaginale non mostra il crimine costituito dei governi – sempre tesi ad organizzare guerre e dissertare su come fare affari con le ondate di profughi e di miserie che ne conseguono – ma sostiene l’ingiustizia in ogni anfratto della società in cambio di un po’ di successo, qualche premio o una manciata di dollari che insudiciano l’innocenza negata… il fotografo che non esce dalla sua condizione di servo (anche se è un maestro riconosciuto della fotografia) è parte di una recita e per vocazione o soltanto per incapacità creativa, si genuflette all’egemonia della società parassitaria. Stando molto attenti a non istruire troppo chicchessia… come scrive Debord (nostro cattivo maestro che gode ancora di una pessima reputazione ovunque) nei commentari sulla società dello spettacolo (3) … lo spettacolare integrato significa continuo rinnovamento delle tecnologie (al servizio dell’economia/politica), deprivazione della giustizia sociale, spettacolarizzazione dei terrorismi… proliferazione dei funzionari mediali, dell’esistenza sottomessa, dell’incertezza organizzata, della paura provocata, dei servizi segreti che s’accordano tra stati all’instaurazione del falso generalizzato… e tutto per provocare il dominio del desiderio e soffocare dissidenze e resistenze (anche armate), fare del mercato globale un sistema finanziario coercitivo che risponde a una teologia dei bisogni indotti e riduce l’uomo a merce soltanto!
Sotto il peso delle definizioni si celano vittime smarrite e assassini nemmeno gentili! Senza cascare nella preghiera marcescente o nei letamai elettorali, basterebbero cinque minuti di verità autentica per spazzare via l’eterno dolore dell’uomo che sfrutta l’uomo… i resti dei despoti basta darli in pasto ai maiali… del resto è dal porcile che provengono tutti.
La pastorale della fotografia è un furto dell’intelligenza… la bellezza è un’affabulazione dei nostri eccessi, sregolatezze, dismisure, eresie inflitte al reale come infanzia del mondo… di nudità senza speranze, di ragioni senza rimorsi, di anime in volo verso utopie mai uccise… la fotografia dell’assurdo allora è tutto quanto rivela il principio di soddisfazione che la nega… la rivoluzione permanente dell’uomo in rivolta che non prende la realtà per quello che è ma la supera e costruisce una situazione di verità o di dissidio con la quale irrompere nella libertà: “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia” (Albert Camus) (4), cominciare a pensare è cominciare a essere minati delle miserie del mondo e rompere barriere, muri, oltrepassare confini… definirsi commedianti o uomini rivolta!
Il senso della vita si fa luce e si precisa nella ricerca della felicità contro secoli pretenziosi di ghigliottine… la sola realtà è l’inquietudine che respinge l’esistenza umiliata con ogni strumento utile o andare a cavalluccio delle stelle sorridendo della perduta ingenuità! Alla dissolutezza dei buffoni non è male rispondere con la distruzione dei Cesari! Sono la medesima gente! C’è sempre una leggera incertezza all’origine di ogni crollo istituzionale, poi l’allegrezza della gioia col sapore d’eternità.
Un fotografo dell’assurdo è Pedro Luis Raota. Nasce in Argentina, a Presidencia Roque Sáenz Peña (o Chaco) il 26 aprile 1934, da una famiglia di contadini. La terra non fa per lui e ancora molto giovane va a Santa Fe per studiare fotografia (la leggenda dice che vendette la bicicletta per comprare la macchina fotografica). Svolge il servizio militare a Villaguay e lavora come assistente di un fotografo dell’esercito (Quique Fabra). A Villaguay inizia a scattare fototessere… nel 1958 torna nella sua città e apre uno studio fotografico… viaggia in Argentina e raccoglie la bellezza visuale di un popolo che in quel momento è oppresso dal regime militare dei generali Juan Domingo Perón prima e Jorge Rafael Videla Redondo dopo. Focolai di guerriglia s’accesero sui monti, nelle campagne e nelle città, il governatore della provincia di Buenos Aires, Ibérico Saint-Jean aveva le idee chiare di come trattare i dissidenti: “Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi”.
L’ora dei forni (5) aveva inizio e si fece cruenta sotto la repressione degli sgherri di Videla.
Raota lavora al margine degli eventi… tuttavia i militari che fotografa sembrano soldatini di piombo… come nella fotografia del bambino che passa davanti ai soldati impugnando una tromba… o quella della donna impaurita inquadrata tra due soldati sfocati… l’ironia della prima, un po’ troppo accattivante e la drammaticità della seconda, forse un po’ troppo scontata… non s’incartano molto con la denuncia del regime… Raota lavora sull’antropologia popolare come specchio antico, quanto sofferente, di un’intera nazione.
Le fotografie di Raota vincono premi importanti e finiscono in gallerie internazionali… è l’occasione per l’argentino di viaggiare in Austria, Inghilterra, Francia, Portogallo, Italia, Asia, America del Nord, Unione Sovietica… molte delle sue immagini sono esposte anche al MOMA di New York. Nel 1977 esce il suo primo libro antologico… seguiranno altre pubblicazioni, altrettanto belle e qualche volta persino troppo… negli anni ottanta Raota s’interessa anche al colore e diviene direttore all’Istituto Superiore di Arte Fotografica di Buenos Aires, qui Muore il 4 marzo 1986.
Nota fuori margine. – Dal 1976 al 1983 le forze armate detennero il potere per mezzo di una giunta autoritaria che s’inventò il Processo di Riorganizzazione Nazionale: il governo militare represse l’opposizione dei gruppi di sinistra, i perónisti e dette inizio alla Guerra sporca. Migliaia di dissidenti furono inghiottiti nelle galere argentine… il IDE (Secretaría de Inteligencia de Estado) intanto coopera con la DINA, altri servizi segreti sudamericani e con la CIA, in quella operazione che gli Stati Uniti avevano pianificato, organizzato e finanziato al fine di contribuire ad eliminare il pericolo dell’instaurazione di governi di sinistra filosovietici in Sud America e in America Centrale: la cosiddetta Operazione Condor.
Nel periodo della dittatura oltre 30.000 argentini scomparvero e sono passati alla storia come i desaparecidos:.. le persone venivano sequestrate o arrestate e deportate in centri clandestini di detenzione, tra i quali la ESMA, l’Escuela Superior de Mecánica de la Armada (tramutata successivamente in Museo de la Memoria), qui venivano torturate o uccise. L’occultamento dei cadaveri avveniva con i voli della morte, ossia il trasporto delle vittime, spesso ancora vive, a bordo degli Hercules dell’esercito argentino e fatte precipitare nel Rio della Plata. Esiste un rapporto della commissione nazionale desaparecidos in Argentina, il Nunca más, dove in un aberrante tunnel dell’orrore hanno sfilato le testimonianze di chi è sopravvissuto. Molti dei capi militari della Guerra sporca erano stati addestrati nella School of the American, finanziata dagli USA, tra i quali i generali argentini Leopoldo Galtieri e Roberto Eduardo Viola. La rovina dell’economia, le accuse di corruzione, la condanna dell’opinione pubblica nei confronti delle violazioni dei diritti umani e, infine, la sconfitta del 1982 inflitta dai britannici nella guerra delle Falkland, screditarono il regime militare argentino e accelerarono la sua capitolazione (6). Resta da ricordare che anche i Montoneros, l’Esercito Revolucionario del Pueblo, FAR (Fuerzas armadas revolucionarias)… fecero la loro parte (tra mille contraddizioni ideologiche)… si espressero nella lotta armata, sequestri e azioni di guerriglia metropolitana… molti furono uccisi, torturati, trucidati o finirono nella lunga lista dei desaparecidos, però resta il loro contributo di sangue versato (7) per la sconfitta del terrorismo di Stato.
Va detto. Negli stessi anni del terrore di Videla, papa Francesco, Jorge Bergoglio (gesuita), allora arcivescovo di Buenos Aires, non sembra estraneo a connivenze con il regime e anche se la sua immagine è stata prontamente “ripulita” (delle infamie commesse) dai media internazionali o da film (8) più stupidi dell’acqua dei lupini, restano le denunce di elementi sovversivi alle alte gerarchie dell’esercito… come accusa il giornalista e scrittore, Horacio Verbitsky (della sezione interamericana Human Rights Watch) (9).
Le immagini dell’assurdo di Raota si sovrappongono alla realtà confezionata o banalizzata dell’immaginario spettacolare (non solo fotografico), restituiscono nobiltà alla sofferenza degli ultimi e all’immutabilità del dolore attimi di bellezza e di felicità… non si fotografa l’evidenza, perché l’esatto è oggetto di culto! Si chiama fotografia dal vero quando il buono, il giusto e il sublime s’intrecciano e attraverso lo spessore e il mistero inventano la realtà della comunità che viene.
Portfolio di Pino Bertelli
II Sulla fotografia dell’assurdo
Quando la fotografia non aspira all’universale e le sue storie migliori sono quelle di pentimenti o di successi… tutto ciò che è valido si separa o muore in un autore… che il diavolo sia con noi… i santi e i profeti sono già stati tutti venduti al mercato delle ideologie (e dei terrori che ne conseguono) per pochi soldi… nei beatificati come nei politici e anche negli artisti, sonnecchia un imbecille e quando si sveglia c’è un po’ più violenza sulla terra… nella foresteria dell’assurdo restano gli uomini di spirito, gli irriconciliati con tutto quanto figura il naufragio della civiltà della paura e passare dalla vita alla fotografia e dalla fotografia alla vita. La fotografia sarebbe intollerabile senza la poetica dell’assurdo che la nega.
La fotografia dell’assurdo è una figurazione della realtà e costruisce una situazione che la supera e diventa mondo… è la poetica del pensiero umiliato degli ultimi o di un solo uomo, non importa… il fotografo assurdo non ha né cerca via d’uscita se non per passare a distruggere i pregiudizi della ragione… la sua grandezza è l’illogicità, il disprezzo in via assoluta per il razionale è la crocifissione della speranza e nella belligerante nostalgia dell’assurdo trova nella rivolta un’adesione forsennata che illumina le certezze ma ne previene o anticipa la caduta… “l’assurdo è il peccato senza Dio” (Albert Camus)… non c’è riconciliazione nell’assurdo, né scandalo… l’assurdo è l’eterno ritorno all’infanzia intramontabile di Nietzsche che anticipa i propri limiti e disimparando a sperare trova quel viatico in libertà che nasce dall’anarchia.
La fotografia dell’assurdo di Raota non si configura nella semplicità, nell’immediatezza né tantomeno coglie l’attimo irripetibile tra soggetto e fotocamera (alla Cartier-Bresson, per intenderci)… la fotografia di Raota – definita “caravaggesca” per “l’uso naturale del chiaroscuro” (?) -, non ha niente a vedere con tutto questo, semmai ha filamenti e coordinate più teatrali che pittoriche… e poi, la fotografia (come qualsiasi arte autentica) non ha genere (è un’invenzione sovrastrutturale dell’industria culturale… gli affari sono affari diceva il boia di Londra!). La fotografia è una: quella bella e quella brutta! La fattualità del consenso si crea nel delirio e si disfa nella merce! Senza un’immaginazione traboccante di bellezza o di pietà non esiste giustizia né valore e solo nel disvelamento del marcio dei precetti nasce la violazione dell’imposto… non c’è rimpianto né rimorso a coltivare l’imperfezione e l’avventura – in piena coscienza – del disinganno… la creatività sovversiva sta nella volontà di non essere cadaveri dell’ossessione imperialista del mercato… vivere e morire a viso scoperto… sapendo che non solo nel cuore si fabbricano utopie.
La forza evocativa delle fotografie di Raota è una sorta di realismo magico… le immagini sono colme di tenerezza, di crudezza, anche, esprimono un linguaggio caldo, partecipativo… e confina spesso con ciò che tratta… giustamente il fotografo dice: “Un fotografo pensa un’immagine e se non esiste la crea!”. La struttura dei corpi, la costruzione del momento, la nobiltà umana espressi nelle immagini di Raota respingono l’indifferenza e s’accorpano all’innocenza del vissuto come destino… non c’è ottimismo nelle fotografie dell’argentino, c’è allegrezza, malinconia, inadeguatezza verso ciò che opprime e scambio in quelli che subiscono… e sono proprio gli oppressi che vengono innalzati in qualcosa di raffinato, quasi di sacro, forse solo “cantati” come una canzone appassionata… l’onestà intellettuale non ha bisogno di regole… il suo principio è la liberazione della comunità umana dalle proprie catene. L’elegia figurale dell’intera opera di Raota è a dire poco curiosa… sempre al limite tra l’estetica del racconto e l’estetismo della tecnica… tuttavia a noi sembra che le immagini di Raota riescono a comunicare in profondità l’epica di una povertà senza rimedio… a vedere – la donna che fugge dall’incendio di un carro con due bambini in braccio, la vecchia che tira la rete, il ragazzo che porta i pesci sulla spalla, i volti austeri di vecchi, i sorrisi dei ragazzi, i pianti e i giochi dei bambini (tutti abilmente appoggiati su sfondi neri) – si coglie tanto l’amarezza di un discorso amoroso, quanto la legittimazione a vivere diversamente. Non so… si resta perplessi di fronte a tanta perizia costruttiva, si avvertono dubbi, sensazioni, paradossi… a volte il fotografo è così preso dalla sua idea affabulativa che si vede solo l’immagine che desidera o poco altro… altre volte, la fabbricazione della propria realtà è così compiuta che il soggetto fotografato emerge dall’immagine e diventa storia.
Le cartografia fotografica di Raota – di là dai consensi e dai successi conseguiti sovente come “fotografia artistica” – comincia dove il pensiero comune finisce. Fuori dal senso della consolazione! Nel dissidio fondamentale che separa l’uomo dall’esperienza, diceva… le fotografie di Raota compongono un prontuario di immagini in stato di grazia così mirabile che commuove gli spiriti non assoggettati alle catene della colpa o alle facezie dell’altare… l’iconografia dell’argentino esprime percorsi di tentazioni, di vertigini, di ombre e di luci che avvolgono i soggetti fotografati… c’è complicità tra fotografo e fotografati, si vede… perfino turbamento… specie quando Raota si avvicina ai volti… quello che fuoriesce dal cuore dell’immagine è sempre accompagnato da una filosofia di dignità e di rigore… il sapere estetico fiorisce là dove la partecipazione dei soggetti è totale. La donna con dietro i fumi della fabbrica, la ragazzina che versa l’acqua calda sui piedi della vecchia seduta, la signora col violino che suona in una strada per due ragazzini, la signora con la pipa e il fascio di legna stretto nelle mani, gli spaccatori di pietre… sono un esempio di fotografia dell’assurdo che si spinge al margine della storiografia, poiché ne accetta la fine.
Al fondo della fotografia dell’assurdo c’è lo stupore e la meraviglia mai violati… un’insubordinazione di templi e dèi, codici e leggi, morali e proclami… i valori sono quelli dell’uomo, della donna, dei bambini davanti allo specchio/fotografia che non usa la terminologia dei vinti… semmai li riscatta nella bellezza, nella giustizia, nel bene comune… non lo grida però, lo dissemina nella decenza degli esclusi… nella conoscenza del proprio malessere che si fa coscienza sociale, forse. Meno riuscite ci sembrano le fotografie ironiche di Raota… ci bastano le scemenze canine di Elliott Erwitt per intuire che nell’insignificanza della fotografia albergano cumuli d’imbecilli che si abbandonano alla cosmogonia del mondano… e neanche le sue immagini a colori ci convincono… c’è tutto il peggio di Steve McCurry e l’inclinazione al pittoricismo (sfiorato spesso nel bianco e nero, senza tuttavia cadere quasi mai nell’estetismo) diminuisce la carica suggestiva del fotografo… tutto ciò che attiene alla bellezza senza verità, cade inevitabilmente nel luogo comune e lì muore nel lutto indaffarato dei secoli.
La poetica dell’assurdo di Raota lavora su piani figurativi molteplici… gli sfondi anneriti, i bianchi accesi, i soggetti ieratici (assorti, austeri, solenni) sembrano uscire da antiche caste e religioni… sono protagonisti di un tempo sospeso e conoscono lo spavento della verità, interpreti di una storia rivisitata che il fotografo invita a vivere ancora in una sorta di metafisica rudimentale che non discute la fotografia, la esprime al principio di antichi tormenti! La fotografia è sempre una questione di esistenza, mai di pratica da dizionari… non si può fare la fotografia che vale senza avere nelle tasche delle pietre o un sigaro acceso in bocca o un coltello (Laguiole è preferibile, perché ha la lama larga)… davanti al tribunale del vero, solo gli angeli ribelli sarebbero assolti! Tra scegliere un mattatoio delle idee o un paradiso di mediocrità, meglio i disagi della solitudine affollati di bambini, folli e poeti epicurei… e contrastare (anche con la fotografia) il modello di un’umanità in agonia.
La filosofia dell’assurdo (non solo in fotografia) è l’esatto apprezzamento della dissoluzione dei limiti, è un’arte della sconfitta o della nuda realtà.
“Lavorare e creare “per niente”, scolpire nell’argilla, sapere che la propria creazione è senza avvenire, vedere la propria opera distrutta in un sol giorno, coscienti che, in fondo, ciò non ha importanza maggiore che costruire per secoli, è la difficile saggezza che il pensiero assurdo autorizza“ (Albert Camus) (10). Il destino sta di fronte a noi e l’ingiustizia è l’estremo sopruso subìto dai vinti. Non si tratta né di uccidere dio né divenire dio (come Nietzsche, Dostoevsky e anche il matto dell’osteria di porto della mia città dicevano), e là dove tutto è bene o tutto è male, tutto è permesso! E questo è un giudizio assurdo! Estremo! Come l’esistenza assurda di capitan Achab contro Moby Dick… la musica assurda dei Pink Floyd di Sysyphus (suite strumentale d’avanguardia scritta da Richard Wright, 1969) o l’intero cinema dell’assurdo di Lars von Trier… la rivolta, la libertà e la diversità sono alla base della “creazione assurda” e allo scorgere di tutte le necessità della vita (profetiche, politiche, economiche) si tuffano in essa con tutti gli eccessi, senza nulla avere in cambio che la mitologia di Sisifo… una filosofia superiore dell’umano, del troppo umano che nega gli dèi e solleva macigni contro l’impossibile per continuare a lottare e godere di un universo senza padroni.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte settembre 2017
(1) Qui “pastorale” non va equiparata al genere letterario (Pastorale americana di Philip Roth, Einaudi 2015), né a quello filmico (American Pastoral, di Ewan McGregor 2016), né tantomeno a nessuna catechesi religiosa… ma piuttosto a un’immagine idealizzata, anche sacrale, che si allarga a una sinfonia visuale (autoriale e amatoriale) della civiltà spettacolare… come il bastone ricurvo dell’autorità ecclesiastica e spirituale impugnato dai vescovi trasmette le simbologie del potere, la pastorale della fotografia figura un linguaggio, un alfabeto, un dizionario di “segni” destinati alla conservazione, più ancora, alla deplorevole complicità delle vestigia ideologiche, iconografiche, comunicazionali del pensiero dominante separato dalla vita quotidiana.
(2) Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979.
(3) ID., Commentari sulla società dello spettacolo, SugarCo, 1995.
(4) Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 2001.
(5) L’ora dei forni (La hora de los hornos,1968) è un documentario (un po’ troppo perónista) di Fernando Ezequiel Solanas e Octavio Getino, dedicato a Ernesto “Che” Guevara. Venne realizzato a fianco dei moti rivoluzionari, contro il neo-colonialismo e la violenza (orchestrati dalla Cia) che alla fine degli anni sessanta investirono l’America Latina e — insieme al cinema di guerriglia Glauber Rocha — divenne un punto di riferimento per il cinema politico e militante (non solo) sudamericano.
(6) https://it.wikipedia.org
(7) Rolo Diez, “Vencer o morir”, lotta armata e terrorismo di stato in Argentina, il Saggiatore, 2004.
(8) Chiamatemi Francesco – Il Papa della gente (2015) di Daniele Luchetti.
(9) Horacio Verbitsky, L’isola del silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, Fandango, 2006.
(10) Albert Camus, Op. cit.
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