I ritratti di Lupercio sono più compiuti, estranianti, anche… non sempre le persone fotografate guardano nella fotocamera… sovente il loro sguardo esce dall’inquadratura, come se volassero al di là del momento fotografico e acciuffassero l’inclemenza della storia
di Pino Bertelli
Nelle dossologie della fotografia insegnata o più banalmente diffusa nelle riviste specializzate… la fotografia della dignità di José María Lupercio è quasi sconosciuta… pochi ne parlano o si fanno carico di studiare uno dei maggiori fotografi (non solo) della fotografia latino-americana. Quando qualcuno si avvicina alle immagini antropologiche di Lupercio, escono fuori parole come pittoresco, popolaresco, tipologico… invero pochi si accorgono che in quelle fotografie del popolo e accanto al popolo si avverte la forza antica di un’anima sensibile tanto all’ingiustizia quanto alla rivoluzione. Non poteva essere altrimenti.
Lupercio era nato nel 1870 e muore nel 1927. “La rivoluzione messicana fu il movimento armato iniziato nel 1910 per porre fine alla dittatura del Generale Porfirio Díaz e terminato ufficialmente con la promulgazione di una nuova costituzione nel 1917, anche se gli scontri armati proseguiranno fino alla fine degli anni venti. Il movimento ebbe un grande impatto sui circoli di operai, agricoltori e anarchici di tutto il mondo, infatti la Costituzione Politica degli Stati Uniti Messicani del 1917 fu la prima costituzione al mondo a riconoscere le garanzie sociali e i diritti ai lavoratori uniti. Oggi si stima che durante il periodo della rivoluzione siano morte più di 900.000 persone tra civili e militari” (1).
Portfolio (Fotografie di J. M. Lupercio a cura di Pino Bertelli)
Lupercio però non si occupa in maniera diretta dei moti rivoluzionari, piuttosto si sofferma sulla gente del popolo e costruisce un atlante di fotografia umana di notevole compiutezza estetica/etica.
Rubiamo qualche noterella su José María Lupercio, dal sito dell’universidad jesuita de Guadalajara (2): José María Lupercio nasce nella città di Guadalajara (Messico) nel 1870. I suoi primi studi sono stati di pittura, nella bottega di Felix Bernardelli, dove conosce Gerardo Murillo (Dr. Atl), Rafael Ponce de León e Jorge Enciso. Dopo un corso di fotografia con Octaviano di Mora, impugna la fotocamera e non la molla fino alla sua scomparsa, nel 1927, a Città del Messico (dove era il fotografo ufficiale del Museo Nazionale).
Per il suo lavoro fotografico Lupercio riceve premi e riconoscimenti, tra i quali un diploma rilasciato nel 1898 dalla Società Francese di Fotografia, la medaglia d’argento e diploma all’Esposizione Universale del 1900 in Francia, medaglia d’argento e diploma alla Pan American Exposition di Buffalo tenutesi nel 1901 a New York, l’oro e l’argento alla Mostra Jalisciense regionale nel 1902, diploma d’onore al Concorso prima fotografia a Madrid tenuto nel 1903 e la medaglia d’oro all’Esposizione universale St. Louis, Missouri. Inoltre, sembra che Lupercio si dilettasse nella costruzione di scenari per il teatro e ha cercato di fare fortuna anche con la corrida.
Il corpo di immagini lasciate da Lupercio investono l’archeologia, l’entomologia, l’antropologia, la storia del Messico… ci sono anche i ritratti di uomini di scienza, della politica, delle arti (Nicolas Leon, Ignacio Marquina, Eduardo Noguera, Manuel Toussaint, Miguel Othon de Mendizabal, Isidro Fabela, Julio Jimenez Rueda, Luis Najera e José Vasconcelos )… i murales di Diego Rivera e altri artisti messicani… dal 1921 molte delle sue fotografie furono stampate come cartoline e messe in vendita presso il Museo Nazionale… la fototeca di Lupercio è di un valore culturale/documentario inestimabile, più ancora contiene il ritratto di una nazione al tempo della speranza e della rivoluzione.
Chi si è occupato delle fotografie di Lupercio, ha sottolineato le scene popolari, i tipi messicani , i paesaggi … visti come il lavoro professionale di un artista… il lavoro professionale c’entra poco, almeno nella ritrattistica popolare che a noi piace trattare, l’artista invece è al centro di ogni immagine e i fotografati vanno a comporre una catenaria di vite sofferte, vissute al limitare della sopravvivenza con bellezza e dignità non comuni. La buona fotografia in Messico negli anni ’10 era ben viva, come si può vedere nelle immagini dei fotoreporter Armando Morales, Agust í Víctor Casasola, Antonio G. Garduño, Miguel Uribe, Manuel Ramos, Abraham Lupercio, Ezequiel Alvarez Tostado, Gerónimo Hernández y Antonio Carrillo … che documentarono la rivoluzione zapatista con grande presa del reale. Nelle loro fotografie sembra tuonare ancora la frase (attribuita a Emiliano Zapata): “Uomini del Sud! È meglio morire in piedi che vivere in ginocchio!”. Là dove abbonda la violenza istituzionale, sovrabbonda la rivolta sociale.
L’iconografia popolare di Lupercio è ammantata di una bellezza asciutta e una dignità archetipale… le sue fotografie possiedono insieme intelligenza e passione per il bene, il giusto, il buono… ma non lo gridano… lo disseminano negli sguardi, nei corpi, nelle posture… non importa se sono in studio o nella strada… il ritratto di Lupercio travalica la posa e accende una visione dell’esistenza tutta ancora da inventare (o non dimenticare)… l’odissea della coscienza messicana è tutta qui, sui volti di guerrieri sconfitti, mai vinti, forti ancora delle loro radici culturali, della terra dei padri consegnata alle speranze cadute della rivoluzione, che guardano nella fotocamere e lasciano le loro gesta, i loro mezzi sorrisi e le loro lacrime agli annali della storia del Messico.
Nella cartografia fotografica di Lupercio ci sono immagini di gruppo in chiesa, venditori ambulanti di vasi, vecchi e vecchie intabarrati in mantelli e vesti di lino, bambini davanti alle loro misere capanne, mendicanti, violinisti, fabbri, pescatori, lavandaie, ragazze e ragazzi che si lasciano andare di fronte al fotografo, quasi a mostrare che all’interno di una comunità che soffre c’è anche un desiderio di libertà irrinunciabile… sotto un certo taglio architetturale rimandano a una ricerca della felicità o al tentativo di una vivenza senza guinzagli, restare testimoni di un tempo smarrito che qualche volta la fotografia riesce a cogliere e fissare nell’eternità.
Le ingenuità fotografiche di Lupercio non sono poche… i quadretti della vita rurale dei messicani sono un po’ troppo dolcificanti, meno documentari di quanto hanno scritto, e spesso restano scenette che celano la miseria profonda nella quale il popolo era tenuto dalla chiesa, dai latifondisti o dai governi d’occasione. Quando la fotografia non interroga, si fa complice del potere che la foraggia e l’infila nel letamaio della buona condotta. La politica della fotografia è sempre in difesa delle cause perse ed è nella fermezza dello stile che non spaventa né annienta chi vede o legge… è la fotografia della dignità che si fa parola, gesto, azione e disvela, denuncia o incrimina il potere costituito, sempre.
I ritratti di Lupercio sono più compiuti, estranianti, anche… non sempre le persone fotografate guardano nella fotocamera… sovente il loro sguardo esce dall’inquadratura, come se volassero al di là del momento fotografico e acciuffassero l’inclemenza della storia. I loro abiti, le scarpe, i cappelli, gli ornamenti, cinture, archi, frecce… contengono la seduzione del perduto e al contempo riconquistano un’armonia figurale che riporta in luce la verità e il bene comune. Sono volti di un popolo che non aspira alla ricchezza, né alla potenza, ma alla dignità di tutti gli uomini… e la dignità non si concede, ci si prende! Costi quel costi! Dannato chi non ha più nulla oltre la propria storia.
Basta entrare nelle pieghe poetiche di due fotografie di Lupercio per comprendere che economia e destino significano la stessa cosa, per chi non ha volto né voce, s’intende! Nella lettura del Niño vendedor de periódicos (Guadalajara, Jalisco, 1905 )… non può sfuggire che l’improntitudine dignitaria del ragazzo s’intreccia alla delicatezza costruttiva del fotografo… Lupercio lo immortala a mezzo busto… il Niño guarda alla sinistra del fotografo, ha la bocca un po’ aperta, bella, allenata a mangiare solo patate e bere acqua di pozzo… tiene sotto il braccio i giornali da vendere (la mano in tasca gli conferisce una certa sicurezza acerba)… le dita dell’altra mano afferrano con grazia il bordo dei giornali… un cappellaccio di paglia sfondato è calato appena sulla testa e i pantaloni sono un po’ stracciati… è l’effigie di una decenza arcaica che rimanda all’innocenza violata da quanti, in ogni parte della terra, costringono i ragazzi a una vita di dolore. La fame non è ereditaria, è opera di un covo di serpi che fuoriescono dagli scranni dei governi.
Il Niño è un’icona della dignità degli ultimi che accusa la crudeltà e l’efferatezza del potere, perché “la dignità umana è inviolabile ed è un valore che non ha prezzo. Non può esistere dignità sociale o collettiva senza esistere dignità della persona, così come non esistere dignità della persona senza dignità sociale” (Moni Ovadia) (3) . Ricordiamolo. La grandi rivoluzioni della storia sono nate da movimenti politico-sociali che avevano fra i loro desideri da realizzare, quello di restituire dignità individuale e sociale agli umili, gli esclusi e agli oppressi. Il Niño di Lupercio dice questo e molto altro ancora… ad esempio che solo quando la società sarà composta da persone in armonia fra tutti e nessuno sarà costretto a piegare la testa nei confronti dei ricchi, dei governanti, dei generali e dei preti… allora questa società potrà definirsi buona.
In un’altra immagine di Lupercio, i ritrattati sono una donna (forse, ma non cambia nulla se fosse un uomo ) e un bambino… madre e figlio guardano diretti in macchina… il bambino tiene la mano della madre, leggermente, e buca l’istante fotografico scippato alla storia… la madre fissa lo sguardo, altera, nella medesima direzione e figura la bellezza e l’orgoglio degli esclusi come poche volte succede nelle scritture fotografiche. I cappelli di paglia sono portati come aureole di povertà… quello della madre è legato sotto il mento, quello del figlio quasi scivola dalla testa e scopre due occhi fulminanti… specchio di una realtà feroce ma affrontata con la dignità di chi sa come vivere e come morire. I vestiti sono modesti… quello del bambino è nero, aperto sul collo… quello della madre, chiaro… un po’ sdrucito… delle collane pendono sull’abito della madre e sottolineano una bellezza spuria da ogni ricerca dell’esibito… si vede che non si sentono sudditi di nessuno e anche se le circostanze della vita sono state avverse per loro, come per il loro popolo, ciò che esprimono con la loro smisurata fierezza è un frammento di vera umanità.
L’essenziale per un fotografo della dignità calpestata non è il rovesciamento della visione ordinaria dell’immaginario … bensì il fatto che, nel rovesciamento di prospettiva di una realtà brutale, il fotografo porta alla luce ciò che è umiliato dalla disuguaglianza senza confini, dove i dominatori si avvalgono del consenso di quelli che sono loro sottomessi. La libertà dei servi o dei sudditi non è libertà, è rassegnazione e complicità con l’ordine dei saprofiti. La filosofia della libertà che sorge dalla fotografia della dignità degli ultimi è una dimensione etica del fare-fotografia e si situa al di là di ogni comandamento… là dove la libertà subisce limitazioni ad opera della civiltà spettacolare e la giustizia esige che queste restrizioni colpiscano gli impoveriti della terra, la rivolta dei popoli che ne consegue è l’atto decisivo per la conquista di una società più giusta e più umana. Amen! e così è.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 22 volte settembre, 2016
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(1) it.wikipedia.org/wiki/Rivoluzione_messicana
(2) cultura.iteso.mx
(3) Moni Ovadia, Madre dignità, Einaudi, 2012.
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