Possibile che l’uomo continui a uccidere anche quando i segni della fine sono evidenti? Questa pulsione iscritta nei geni della specie umana è la poesia della catastrofe. E il nero del mondo è la sua lingua 

di Luigi Fabio Mastropietro

1.    Hampstead, Stato di New York, venerdì 21 aprile 2017 ore 2,15
(Adam Letzte compie i sei anni di vita)

In quei giorni gli uomini cercheranno la morte e non la troveranno;
brameranno morire, ma la morte fuggirà da loro.

(Apocalisse 9,6)

Gli uomini antichi mi aspettano. Le loro voci mi chiamano, mi dicono che è il momento di andare lontano nella nave dentro l’acqua. Mi aspettano giù in strada, chiusi nella loro macchina nera. Respirano a fatica fuori dall’acqua. Mi hanno cercato a lungo in tutte le case del mondo. Una notte hanno sentito la musica nella mia testa e sono arrivati.

L’uomo con gli occhi grigi è Azrai’l. È molto vecchio, anche se non vedi la sua età. I call him Asheneye. L’uomo con i capelli lunghi sulla faccia è Semeyaza. È arrabbiato perché aspetta da troppo tempo. I call him Noface. Do you remember my dream, mom? Loro non sono cattivi e non sono buoni. Vengono da un posto molto lontano e hanno freddo al cuore.

Ora io sento il freddo che loro sentono. Come una lingua di gelo nella pancia. Devono attraversare la luce dei morti per tornare a casa. Hanno bisogno di me, perché solo io la vedo, la luce dei morti. Per questo mi chiamano.

Devono tornare nella loro città dietro il sole, prima che arrivino gli Angeli delle Corde. I loro denti sono coltelli. Ormai manca poco e hanno paura di non rientrare in tempo. C’è qualcosa dentro di me e dentro di loro che non capisco. Qualcosa nella mia testa che nutre il loro cuore di ghiaccio.
Mi nasconderanno in fondo alla nave dei dormienti e dormirò.

Quando arriverà il sogno, sarò pronto. Allora li chiamerò. Guarderò nei loro occhi e vedrò la porta tra le stelle. È quello che vogliono da me. Loro partiranno e mi lasceranno libero.

La Voce mi sussurra di uscire attraverso la finestra.

Ho spinto su il vetro, ce l’ho fatta. Sono fuori adesso, a piedi nudi sul cornicione della casa. Un passo dopo l’altro, la faccia contro il muro ruvido, mi sposto verso il lampione a forma di giraffa che tocca l’angolo del palazzo.

Ho paura di guardare di sotto, c’è come una mano che vuole tirarmi giù. Stringo con le dita il bordo di pietra del davanzale e muovo un altro passo di lato. Un altro passo ancora e toccherò il collo di ferro della giraffa.

Voce, ti prego, ti prego, guida i miei passi.

Come occhi che non vedono e cuori che non sentono,

così gli uomini attraversano il guado tra la nascita e la morte.

Ogni vita, una corda tesa sul vuoto.

Gli uomini camminano in bilico sulle loro corde,

guardando avanti senza pupille.

Quando si girano a guardare indietro,

i coltelli degli angeli tagliano le loro corde.

Una ad una, senza rumore,

le esistenze precipitano nel ventre di Dio.

2.    Baghdad, Abi Nuwas Street, sabato 22 aprile 2017 ore 5,40
(Azrai’l è in attesa del risveglio di Adam)

Piovve sangue.
Città sante sprofondarono.
Nessuno guardò i fuochi.
La nostra immaginazione sopravvisse all’assalto;
perché si inflisse tanto terrore
non possiamo capire.

Lì è il terrore, incessante, il vento soffiante,
il sole orbitante.
Dove sarebbe se non tra noi?

Dov’è il mio amore per te,
si cela vegliandoti nel sonno,
pettinandoti il corpo di domande,
preparandosi per uno sposalizio?
Invia per caso avvisi di un disastro?

Persiste la specie umana nel suo divenire?

(Piovve sangue, Etel Adnan)

Mi guardo intorno. Le macerie della civiltà si estendono a perdita d’occhio. La devastazione guadagna terreno, mentre la bellezza affonda nel deserto.

Ovunque vedo l’uomo che ha il respiro mozzato dal sangue in gola eppure continua a divorare l’altro uomo.

Possibile che l’uomo continui a uccidere anche quando i segni della fine sono evidenti?

Possibile che non riesca a smettere di autodistruggersi anche quando sta esalando l’ultimo respiro?

Questa pulsione iscritta nei geni della specie umana è la poesia della catastrofe. E il nero del mondo è la sua lingua.

Portfolio (Opere di Michele Gammieri)

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Here ends the one that began in Sarajevo on the 28th of June 1914. La scritta livida sul muro dietro il pronto soccorso dell’Ospedale Yarmook lampeggia al sole. Sembra sangue. Ma tutto a Baghdad sembra scritto con il sangue, anche le insegne di cartone dei venditori ambulanti di spezie al mercato di Al Jadida.

Tutto è scritto con il sangue e coperto di cenere. La cenere delle bombe. Le case della gente a Sumer e Wazirya. Le macerie dei palazzi ministeriali di Aalam e i taxi vuoti parcheggiati in Khulafa Square. L’acqua sabbiosa del Dijla e i tre ponti sopravvissuti del fiume di Simbad. Tutti i colori di questo mondo sono coperti di cenere. Al-Mansur riemerge dalla bocca di un vulcano spento, città perduta dentro un’aria di cenere e nafta.

La vita brulica fuori dalla cenere, rabbiosa, solo a scatti. Solo a certe ore, quando Allah chiama all’egira del martirio. Volti di pietra fasciati e nudi, barbe unte e atre, occhi bianchi e ciglia arse, braccia e gambe e stracci di carne dolente eruttati da un’alba di piombo dentro le strade e i mercati e le piazze. Un mare ammortito di sangue secco che solo il lampo e il boato colorano improvvisamente di sangue fresco.

Qui finisce quello che ha avuto inizio a Sarajevo il 28 giugno 1914. Chi ha scritto sul muro quelle parole sa. Deve sapere. Cosa insolita che un umano sappia, conosca i disegni. Una fuga di notizie dal Ministero dell’Inferno, direbbe Semeyaza in un momento di grazia vocale. A meno che non siano state le Alurie. Che gli Ementali già sappiano? Del resto, prima o poi perfino gli umani capiranno che il destino della specie è segnato.

Ma nessuno, nemmeno Semeyaza, può sapere che Babilonia sono io. Il dolore di questa città sorta alle spalle di Belial è solo il battito di ciglia degli occhi di Shaytan, prima che arrivi il nuovo Dio.

Come tanti altri luoghi di questa terra, Baghdad è una riserva di caccia privilegiata per Nephilim e Sadaim affamati di endorfine, encefaline, proteine delta2. I preziosi fluidi cerebrali che solo gli umani sanno produrre quando hanno paura.

E se anche gli Esseni di Qumran hanno deciso che i bisogni alimentari degli Abitatori di fuori non giustificano tutto il dolore di questo mondo, poco importa all’Intento. Ci sono sempre gli uomini a fare di testa loro, per la fortuna di tutti gli endorfinomani dell’Orbe di Mezzo.

Esseni, Ossioi, Abdal, Raeliani e Mormoni, Wahabiti e Salafiti, santi risvegliati e demoni resuscitati salgono su dal nulla con i loro profeti e lo stesso libro delle genti, per imbastire qualche crociata e qualche jihâd. Allora puntano il dito verso il cielo e dicono di vedere la luce. E predicano che El-Dajjal, il Messia Senza Faccia è tra noi. E dicono che breve sarà il suo tempo. Lo dicono da quattromila anni, ma il Dragone non vuole saperne di traslocare.

Da quattromila anni predicano, inascoltati, nel nome del Dio degli dei, il Dio di tutte le religioni, il Dio unico che ha deposto o sottomesso tutti gli altri. Tanto è vero, dicono, che siamo tutti figli di Abramo e che i musulmani adorano Cristo, Seidna Haissa, con Maometto e che gli Ebrei aspettano l’avvento dello stesso Messia dei cristiani.

Questo Dio monocratico e pietoso è il nuovo Dio che ha oscurato tutti gli altri dei con la sua misericordia e la sua humanitas. Il Dio moderno delle Tre tradizioni che concede la salvezza a tutti, anche ai diseredati, soprattutto a loro, ai poveri di spirito. Il Dio dai cento nomi, che in cambio della grazia non pretende sacrifici umani e guerre di religione, anche se gli uomini continuano a goderne quotidianamente. Allah, Jahvet, Gesù Cristo.

L’Eloha che del libero arbitrio e della pietas ha fatto la sua rivelazione ma che continua a nutrirsi come i suoi divini predecessori. In suo nome gli Abitatori di dentro continuano ad erigere templi e santuari, madrasa e yeshiva, moschee e sinagoghe, vertiginose cattedrali nelle quali si riuniscono grandi folle di uomini e di encefali nutrienti. Uomini che pregano e si dolgono dei propri peccati.

Milioni di uomini che hanno paura del loro Dio e delle sue punizioni terrene e ultraterrene. Milioni di cervelli alterati dalla paura che producono onde elettromagnetiche ad altissima frequenza che fanno volare i carri celesti e sanguinare le sacre icone.

Tonnellate di sinapsi proteiche che incendiano lo spirito santo e nutrono gli Abitatori di fuori. Piazza San Pietro, Al-Masjid al-Haram alla Mecca, Emmanu-El a New York, Ankorwat in Cambogia, Prashanti Nilayam a Puttaparthi, milioni di menti infatuate e di cuori sanguinanti, miliardi di Atmamatra adoranti, dominate da una sola incessante vibrazione di preghiera e di sottomissione. Da un solo immane sentimento di mortificazione e di terrore.

L’eterno banchetto di paura del Dio delle Genti del Libro, il nuovo Eloha di Ahl al-Kitab, gareggia in lussuria e ricchezza con i tradizionali banchetti stragisti degli dei deposti. Ma nessuna cerimonia monoteista eguaglierà mai il nutrimento che può dare ai Nephilim la sinapsi di sangue e dolore della guerra infinita.

Quando le genie degli uomini si incontrano per sbranarsi e infliggersi reciprocamente raffinate sofferenze, quando i martiri fanno esplodere la loro follia in mezzo ad una folla di innocenti, quando la pioggia di bombe fa a pezzi i soccorritori inginocchiati a curare le vittime del bombardamento di poche ore prima, allora Santa Madre Guerra allatta il cosmo al suo seno e l’universo allarga impercettibilmente i suoi confini.

I cervelli dei combattenti secernono il nirthyana, il latte divino della paura, essenziale per la sopravvivenza degli Abitatori di fuori.

Sono stanco di ricordare.

3.    Dhayan, Yemen del Nord, venerdì 22 gennaio 2016 ore 9, 37
(Azrai’l santifica il dolore ancora una volta)

Il resto dell’umanità che non perì a causa di questi flagelli,
non rinunciò alle opere delle sue mani; non cessò di
prestare culto ai demoni e agli idoli d’oro, d’argento, di
bronzo, di pietra e di legno, che non possono né vedere, né
udire, né camminare; non rinunciò nemmeno agli omicidi,
né alle stregonerie, né alla fornicazione, né alle ruberie.

(Apocalisse 9,20-21)

 

Ricordo Dhayan e le sue case bianche avvinghiate alla collina di tufo.

Ricordo quel giorno schiantato nella cenere come se fosse ora e per sempre.

Il 22 gennaio 2016 sono di ritorno da Sana’a, dove l’emissario dell’ONU, Ismail Ould Cheikh Ahmed, ha appena incontrato i ribelli Houthi per cercare inutilmente un accordo sul cessate il fuoco. Il miraggio della sua missione è creare le condizioni minime per l’arrivo degli aiuti umanitari a una popolazione civile stremata dai bombardamenti, ridotta a bere la propria urina e mangiare ratti e calcinacci per sopravvivere.

Ricordo ancora il suono di quel silenzio ammainato sulla terra fusa col cielo. Rivedo innanzi a me il volto imbrunito di un ragazzo in giro tra le macerie dell’ultimo quartiere bombardato a tappeto dall’aviazione saudita. Sta filmando l’abisso con una piccola videocamera d’argento.

Hashim è poco più che un bambino, ma la telecamera sembra già un’estensione naturale del suo corpo. Alle 9 del mattino arrivano le prime ambulanze e chi è sopravvissuto aiuta gli infermieri a soccorrere i feriti.

Ombre polverose e figure fosforescenti scavano con le mani per liberare calchi bianchi dalle macerie. Alcuni di loro si muovono ancora. In un silenzio iperbarico, sporadicamente infranto da qualche lamento. Nessuno parla, tutti corrono e si affannano con le facce premute a terra, pestando in giro calcinacci e tubi divelti. Vista da lontano, la scena è quella del formicaio prima del diluvio.

Poi d’improvviso, il rombo degli aerei sauditi lacera la pelle di questa tragedia muta, con l’effetto di una deflagrazione nucleare. I Sauditi non ci stanno a far riposare in pace i morti e a lasciare vivere i pochi sopravvissuti. È il gioco del dual tap.

Gli aerei, dopo aver bombardato una prima volta, aspettano da qualche parte che arrivino i soccorsi, e tornano a bombardare la stessa area con precisione chirurgica, per colpire i soccorritori e farne una sola poltiglia con i morti e i feriti di prima.

Questa sì che è poesia della catastrofe. Questa sì che è musica terrena che arriva alle orecchie del Creatore. L’uomo, quando vuole, sa farsi sentire nelle sfere celesti. Avere il sangue in gola e continuare a sbranare il proprio simile.

Hashim lo sa e vede scoppiare l’inferno intorno a lui ma non scappa. Hashim non prova a mettersi al riparo. La scheggia di una bomba lo colpisce alle spalle, disegnandogli una rosa purpurea sulla camicia. Ma lui non si ferma. Cade in ginocchio e continua a filmare il massacro.

Poi muore, finalmente, ma solo il giorno dopo, all’ospedale Al Gomhoury. La sua videocamera è tra le mie mani, adesso. Presto le sue riprese faranno il giro del mondo su Youtube, fuori da ogni circuito mediatico ufficiale, provocando l’ondata di indignazione globale n. 34 dall’inizio della guerra.

Sulla terra il nirthyana si confonde e si mescola con l’oceano di sangue quotidiano. Il problema è prevenire gli effetti collaterali dell’iperalimentazione astrale. Tenere le distanze dal dolore per potersene nutrire.

Se l’occhio di Nalanda resta aperto troppo a lungo, ogni contatto è un orgasmo di sale che disperde carbonio. E non bastano cento visite alla piramide di Eridu per riacquistare tutto il soma perduto. Io soffro quando gli uomini soffrono. Questa è la mia condanna.

Soffro con loro le pene dell’inferno e di questo inferno mi nutro.

Fino all’annichilimento.

Azrai’l, che cosa pensi? Perché soffri, perché dubiti, il tuo dubbio è il mio dubbio, il tuo dolore è il mio dolore. Non chiederti perché la vita vive, se credi nell’Intento. Ascolta il tuo Ātman, se vuoi conservare il tuo cuore per sentire e il tuo occhio per vigilare. Quella notte a New York hai salvato la vita di Adam e adesso ne sei responsabile. Fermando la furia di Semeyaza, hai compiuto quello che era scritto. Adam Kadmon è con te ora ed è ormai pronto per l’ultimo sogno. Il futuro degli Abitatori gli appartiene e il tuo futuro è il futuro di tutti gli altri. Solo l’Intento conosce ciò che sarà e niente può fermarlo. Nessuno può risalire il fiume di Shakti. Per troppo tempo sei stato sulla terra, ostaggio delle emozioni degli Abitatori di dentro. Scaccia il demone che ti paralizza e torna alla Vimana. Adam Kadmon aspetta il segno di Thummim per cominciare a sognare.

Mentre la limousine dai cristalli di piombo risale Junub street verso il Museo Nazionale, sento la nausea risalire lo stomaco e la gola come un veleno che pietrifica. Guardo ancora una volta la nuca di Semeyaza.

I suoi capelli neri, lunghi sulla faccia. Un’aureola di pece intorno al capo. Lo guardo guidare muto e inerme, e penso che è un santo, un imbunche, un bambino al quale la madre ha cucito i nove orifizi del corpo con filo d’argento per conservarlo puro e incorrotto per sempre. Il dio della vendetta non vede e non dorme.

Domani ci sarà un’altra distribuzione nel quartiere di Tashri. Dall’Italia arrivano razioni alimentari e vestiti dismessi. I Marines faranno piovere american candies. Ci sarà una grande folla.

Un ex-tassista libanese si farà esplodere in mezzo a donne e bambini. I morti saranno decine, forse centinaia.

Il fiume di sangue scorrerà ancora nel suo letto di cenere. E ancora una volta l’ultimo degli Angeli delle Corde renderà grazie all’ultima recluta di Belial.

Una volta ancora reciterà la sua preghiera senza muovere le labbra, muto come il suo Dio.

4.    La preghiera di Semeyaza

Il sole della prima incarnazione impallidisce e non sento più la tua presenza yá Bahá’u’l-Abhá arrivi una notte senza luna che sto dormendo con la faccia perduta nel buio e non ti sento ancora fino a quando batti le tue grandi ali d’acqua posandoti lento sul mio petto e bevi il mio respiro lasciandomi vuoto di me il cielo trema al battito delle tue ali per scrollarsi di dosso le stelle io non sono più solo non sono più libero le mie ali si seccano al tuo respiro il mio cuore fugge altrove eloka d’meir aneini loka d’meir aneini loka d’meir aneini mi chiedi di graffiare via il nero della terra per te le mie unghie lo fanno fino a consumarsi i miei denti strappano e strappano ancora il filo d’affanno che cuce i corpi fino a spezzarsi i miei occhi affogano per sempre nel latte della paura mentre ti guardo tirare le mie viscere senza un lamento chiamo il tuo nome di vuoto risuona eloka d’meir aneini loka d’meir aneini loka d’meir aneini discendo le scale di sangue del tuo tempio non vedo la luce dei morti sull’altare ti chiamo a me non mi chiami a te mi soffi fuori di te nel freddo di Fuori a urlare per sempre muto perché mi abbandoni mio Eloha eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini sorgi davanti a me ora prendimi con te nella luce dei morti che non torna prenditi cura di me che sento le tue spine crescere dentro la mia carne che perdo anche l’ultimo senso di non esserci più che non sento più niente solo i tuoi chiodi trafiggermi le tempie come parole esplose chiodi lunghi acuminati ferro di amore dannato che mi tormenta per sempre prendimi dentro la tua luce dei precipitati dammi riposo sprofondami nel mai nato adesso che il tempo finisce spezza la mia muta deriva nella notte che partorisci per tua natura spegni le stelle che mi accecano fra i tuoi capelli ingoiami dentro di te prenditi cura di me malato per sempre malato del morbo di Dio la Ilah Illa Allah Eloha Jahvet prendimi con te adesso prima che la falce tagli l’ultima spiga degli abitatori di dentro prendimi dentro bevi il nero dentro la mia preghiera come hai bevuto fuori il mio cuore come io bevo il tuo dolce nero d’amore amaro senza mai morire come la fiamma di Iblis senza mai scaldare eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini morire ti prego dentro di te come l’acqua che scorre indietro nel tuo ventre e impasta la tua voce che non posso udire la tua croce che non posso toccare con queste mani che mi dai perché non posso attraversare la luce morire dannato di te come tutti i tuoi servi che le mie mani schiacciano strappano spezzano smembrano bruciano affogano divorano e sputano in nome tuo cavano il nero della terra per te promessa della fine non esserci più risveglio per te veglio la porta di mille viaggi senza ritorno dentro il sole senza luce e mille volte la chiudo con le mani di anime immani strette le mani insieme alle altre strette l’una con l’altra strette con la mia bocca cucita ai tuoi occhi bianchi la Ilah Illa Allah Eloha Jahvet che guardano giù senza vedere i mari di  Avraham sotto di te nelle terre di Enoch le mani sporche risorte al suono delle tue campane che non posso udire così lontano in fondo al mondo perduto scorticato nel vortice del tuo dirupo dentro l’antro delle bestie di ferro e di fumo che muovono il mondo non sento e non vedo più niente solo la fame di morte che non mi dai e il fuoco che divora il fuoco dell’Intento e la sua luce non è la tua luce e il suo occhio non è il tuo occhio da Lui lontano e la morte eterna è solo dentro quella luce e la tua palpebra assente copre la luce al passaggio e il tuo nome è fuori di Te e dentro la luce muore la vita e fuori vive la morte Nenatteqâh ‘eth moserothêymo venashliykhâh ti prego risorgi schiavo del tuo verbo liberami da me.

5.    Baghdad, isola di Um al-Khanazir, sabato 22 aprile 2017 ore 6,47
(Azrai’l scopre che la fine è a portata di mano)

Quando la cometa rossa sarà vicina e spegnerà il sole, il cielo si congiungerà alla terra e l’acqua al fuoco, il potere di Dio entrerà nei corpi e li sconvolgerà e niente sarà come prima dell’avvento, perché sarà giunto il tempo dell’attraversamento, perché tutto il tempo è adesso e tutte le vite sono una. Cuando el cometa rojo esté cerca y apague al sol, el cielo se unirá a la tierra y el agua al fuego, el poder de Dios entrará en los cuerpos y los sacudirà y nada será como antes del adviento, porque el tiempo del cruce habrá llegado, porque todo el tiempo es ahora y todas las vidas son una. When the red comet will be close and will turn off the sun, the sky will join the earth and the water the fire, the power of God will enter the bodies and will upset them and anything will be like before the Advent, because the time of the crossing will come, because all the time is now and all the lives are one.

La Vimana è alla fonda di fronte ad Abi Nuwas Street, dove il letto del Dijla disegna un’ampia curva verso Ovest.

L’isola di Um al-Khanazir la nasconde interamente, ridotta ad un ologramma muto. Non un solo animale è più in vita sull’isola per effetto della fusione molecolare. Adesso che la notte sta calando, l’acqua del fiume ha il colore dell’argilla.

Sulla strada di Qadisiya per l’aeroporto il mare di nebbia si accende delle luci gialle dei checkpoint. L’orizzonte tutto intorno è un lago di latte. Il nirthyana di milioni di cervelli spremuti dalle mani dell’Intento per l’ultimo banchetto divino.

Le tenebre di Fuori guariranno la bestemmia di questo mondo. Il ventre del nuovo Eloha nascerà libero dall’infezione. La fine degli Abitatori di dentro è la fine della malattia. Milioni di vite precipitate nel lombricaio di Dio spingono sulle porte del Tempio. Chiedono di essere resuscitate per conoscere il disegno.

Premono sulla soglia di Belial per essere ammesse al grande responso. Eppure non c’è una risposta per i morti, come non c’è per i vivi. Solo le doglie dell’Intento. Il dolore partorisce dolore con il dolore. Nient’altro per i figli dell’uomo. Niente che loro debbano sapere, che già non sanno. Nessun disegno che li riguardi. Nessun progetto di salvezza. Se non quello di essere il transitorio alimento dell’essere.

Semeyaza è già sul molo e stringe nelle mani il cristallo di Urim. Siamo di nuovo nella grande nave. La sala delle corde è deserta.

Io Ti amo perché mi hai fatto conoscere la tua casa profonda e misteriosa.
Tutto esiste grazie a Te e non c’è niente al di fuori di Te.
Tu sei il sentiero.
Tu sei la dimora della vita.
Tu solo hai diritto al mio cuore.
Tu che hai portato il tuo fiato nel mio fiato, sei il mio Signore e Padrone.
La Tua legge è la mia vita.
La Tua volontà è il mio Karma.
Ti prego, guida i miei passi fino a Te.
Distendi la tua mano su di me.
Ti prego, mandami il Sogno
e pronuncia il mio nome.

Adam, figlio prediletto dei miei figli diletti.
Chiudi gli occhi e pensa a me.
Io sono ciò che ami.
Io sono tua madre,
io sono tuo padre,
io sono tuo fratello,
io sono il risveglio nel mattino radioso di sole,
io sono il sonno che di notte ristora il tuo corpo e la tua mente.
Io sono il tuo rifugio e il tuo sangue.
Io sono la morte che tutto trascolora e ogni cosa all’altra riunisce.
Da sempre scorro dentro di te
perché da sempre sono colui che ha cura di te,
colui che ti parla nel tuo sogno che è il mio sogno senza fine.
Domani tutte le vite saranno una
e tu sarai tutte le vite che sono in me.
Domani rinascerai Adam Kadmon,
figlio di Dio ricongiunto a me.
Selamat Gajun, Selamat Kasijaram.

Nella stiva della Vimana, la grande piscina a sette bracci ospita sette corpi in amnionarcosi. Le membra galleggiano nel nirthyana distillato da novantanove generazioni di Deva antariani.

Il piccolo corpo di Adam Kadmon è disteso nel braccio centrale. Le mani lungo i fianchi, dorme ad occhi aperti, sussultando leggermente di tanto in tanto. Nel suo pigiama azzurro sembra un burattino abbandonato da un bambino capriccioso nella vasca del giardino.

Ciascuno dei tre bracci laterali ospita tre Alurie di Ibiru. Le sei creature pleiadiane sono le nutrici elementali di Adam Kadmon fino al risveglio.

Le loro menti alimentano e schermano le sinapsi di David. Lo proteggono e lo nascondono dalla vista degli Angeli delle Corde. Nascondono tutti noi e la nave alla loro vista. Quando arriveranno, il tempo sarà compiuto.

Adam respira ancora più lentamente, adesso. Un leggero sorriso gli increspa le labbra. I suoi occhi neri fissi in alto sembrano guardare al colore delle ciglia e dei capelli. Sono già quasi del tutto candidi come la neve.

È l’alba ormai. Sono fuori, sull’isola. Ho lasciato Semeyaza nella nave. E’ in ginocchio davanti alla piscina di Adam Kadmon.

Mentre penso che devo cominciare ad abituarmi a rimanere solo, guardo il cielo impallidire ad occidente, dietro le colline brumose di Hamra.

Il sole sta nascendo dalla parte sbagliata.