La scrittura, nel tempo dei disastri e del terrore, deve recuperare la sua forza di denuncia, di critica, farsi ingiunzione etica verso universi verbali di nuove significazioni

di Francesco Correggia

Abitiamo un mondo che vive in un collasso quotidiano, in un lento e inesorabile arresto del pensiero davanti a crisi improvvise, disastri ambientali, sfide tecnologiche, cambiamenti climatici, fanatismi religiosi che sembrano non avere mai fine. Siamo come esseri che vivono nell’attesa di un evento irreversibile, una catastrofe d’immane portata. Il terrore ormai fluisce ovunque dalle città alle reti telesatellitari, dalla periferia al centro, dal Medio Oriente all’Europa aggiungendo maggiore sgomento e senso di insicurezza alle nostre già precarie condizioni esistenziali. Ora a essere minacciate sono anche le nostre conquiste democratiche, la tradizione illuminista, l’idea stessa di società civile e la medesima libertà di espressione, baluardo delle democrazie occidentali.

Slides (a cura di Francesco Correggia)

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L’attesa si fa angoscia verso il futuro che si fa sempre più incerto, insicuro. Ai disastri naturali come terremoti, inondazioni, tsunami e quelli prodotti dall’uomo si aggiungono ora nuove minacce che mettono in pericolo il nostro modo di vivere, la nostra libertà. Che cosa facciamo per riuscire a superare questo senso di disastro infinito? Continuiamo a stare abbarbicati alle nostre sicurezze mentre non ci rendiamo conto di essere davanti ad una svolta critica nella storia del Pianeta, in un momento in cui l’umanità deve scegliere il proprio futuro. Questo senso di disorientamento davanti alle nuove sfide può anche stimolare un modo nuovo di abitare il mondo. Occorre, se vogliamo davvero prenderci una qualche responsabilità rispetto al futuro, cambiare le nostre abitudini, i nostri abiti mentali, la tendenza ad accumulare, consumare e  sprecare senza ritegno in un mondo dove il denaro prevale su tutto. Non ci rendiamo conto che per frenare la follia contemporanea occorre modificare qualcosa nel nostro vivere quotidiano, nei comportamenti individuali, nel linguaggio, nella politica e non far finta di niente e sperare sempre nella reazione degli altri.

Il disastro non è solo una parola pronunciata che accompagna la vita di tutti i giorni come possibilità che ci rende muti, che interrompe le abitudini, il desiderio e l’affermazione personale, ma è ciò che ci precede e che anticipa ogni calcolo. Il disastro non è un evento imprevedibile che fa esplodere le contraddizioni, cambia la storia, impone un passo diverso, costringe a una svolta improvvisa, a una sostituzione, bensì esso s’impossessa di noi lentamente un po’ alla volta azzerando qualsiasi posizione critica e possibilità di un pentimento, di un cambio di marcia rispetto alla catastrofe incombente. Ora i disastri di cui siamo informati che sembrano accadere a distanza attraverso lo schermo televisivo, si sommano con i nostri piccoli disastri quotidiani, formando una specie di rete mentale globale del grande disastro che s’insinua dappertutto, anche nell’amore. Non ce ne accorgiamo ma questa rete forma una struttura, un’unica dimensione dell’impossibilità e della solitudine in cui siamo incastrati.

A franare non è solo un intero equilibrio sociale, politico istituzionale ed economico con gravi responsabilità nella gestione del territorio, o la mappa geopolitica della terra, ma è la nostra vita, l’esistenza, la bellezza, la ragione. A tutto ciò si aggiunge  un’ondata di terrore senza precedenti che oramai  ci minaccia da vicino, è quasi alle nostre porte. Ciò che accade ora non è più cosa che gli altri devono risolvere, l’Europa, l’America, l’Onu che pure sono organismi e Istituzioni fondamentali per raggiungere una soluzione politica di ogni conflitto regionale,  ma è qualcosa su cui siamo chiamati a rispondere di persona. Il nostro stato, il nostro governo, tutte le istituzioni democratiche devono  intervenire con energia, chiarezza,  poiché ciò che è in questione  riguarda la sicurezza di tutti e lo stesso sistema di valori condivisi. Al dialogo con cui si pensava di poter risolvere controversie, incomprensioni e differenze religiose si sta sostituendo l’istanza della ferocia, l’eliminazione del nemico, di chi non è d’accordo con noi.

D’altra parte non si deve dimenticare che quel che rende particolarmente urgente  interventi decisi e una presa di coscienza del mondo attuale che di disastri ne ha visti tanti, è anche la portata planetaria, globale senza precedenti della devastazione ambientale causata dai sistemi dominanti di produzione e consumo, il che sta provocando l’esaurimento delle risorse e una massiccia estinzione di specie viventi. Intere comunità vengono distrutte e d’altra parte, i benefici dello sviluppo non sono equamente distribuiti e il divario tra ricchi e poveri sta crescendo sempre di più. L’ingiustizia, l’ignoranza, la prevaricazione sociale del più forte rispetto al più debole, la povertà, l’esclusione aumentano velocemente. In questo senso il grande disastro si accompagna a una specie di stravolgimento interiore dei soggetti della scena umana e sociale globale. Esso ormai è ovunque, nel depauperamento del paesaggio, nelle istituzioni, nell’economia, nella finanza, nel quotidiano ma anche, direi cosa abbastanza inedita, nello spirito, nelle relazioni umane, nell’arte e nella cultura.  Sembra svanito il tempo di un’emergenza metaforica, poetica e scritturale che ci porta a una nuova dimensione etica, a una rigenerazione del pensiero che ricomincia guardando più in là, in una prospettiva mutata, in un rinvenimento ontologico e di ricostruzione del senso delle cose.

È l’inevitabile stravolgimento del mondo interiore che costringe l’occidente, e gli individui che lo abitano, in una specie di shock antropologico rispetto non solo alle tecnologie che devastano molte volte l’ambiente naturale ma anche rispetto al pensiero, al pensato e alla stessa sparizione del senso la cui sorte ha riempito intere pagine di scrittura di molti maître à penser del nostro tempo, impedendone il sonno e quindi anche la ragione. Ci troviamo in una corrente discendente, in una caduta verticale che provoca un disagio, impotenza, un collasso della condizione umana senza precedenti. In questa condizione è dunque possibile una scrittura dell’emergenza che non solo si fa interprete e testimonianza del mondo in cui viviamo, ma che incominci con lo sguardo, un respiro intorno al nulla che si sta impossessando di noi? Può tale scrittura impedire l’orrore, l’espansione di forme di generalizzazioni, di radicalismi insensati e negativi, di inumanità, di nuovi terrorismi e barbarie religiose?

La scrittura così come anche l’arte appaiono non più mondi fecondi da cui poter ripartire, ma come terre desolate. Le parole non sono più erranti enigmi o scogli di un’urgenza metafisica inderogabile che possono far ripartire un dialogo, una possibilità, un senso planetario del nostro abitare il mondo, ma diventano una materia feroce di scontro, di suggestioni. Una materia disarticolata e terribile, che ha perso ogni supporto, ogni onda di attraversamento o di ricongiunzione non solo con le cose dello spirito ma anche con le cose della realtà. Tutte le parole, comprese quelle dell’arte, sono diventate merce, segni verbali tramutati in onde d’immagini traballanti senza referenza, senza profondità e spente in un oceano nientificante. La sofferenza del nostro tempo somiglia a un’immagine: un uomo scarno, la testa reclinata, le spalle curve, senza pensiero, senza sguardo. I nostri sguardi volti verso il suolo.

La Scrittura del disastro, scrive Blanchot, è un infinito intrattenimento sulla catastrofe cui non segue però alcuna redenzione. Non c’è possibilità di tempo per il disastro, né di un passato, né di un futuro, esso è piuttosto un contretemps. Si tratta di un genere di scrittura frammentaria che non soggiace al fascino del sistema, e alla telefascinazione; essa è piuttosto una sospensione temporanea, un’esigenza quale possibilità altra di scrittura: lo spazio bianco tra le parole. Questa rottura non è un’istanza né una separazione ma uno strumento che spinge i frammenti al limite e al tempo stesso è ciò che è stato rotto, infranto. È soltanto quando abbandoniamo ogni statuto nella e della scrittura che si profila la scrittura del disastro: Quando tutto è detto, ciò che resta da dire è il disastro. È proprio in questo contrattempo che la parola del disastro è una parola d’interruzione che conduce al di là di ogni discorso, di ogni spazio, ma anche di ogni frammento. Il disastro è dalla parte dell’oblio; l’oblio senza memoria, il tirarsi indietro immobile di ciò che non è stato tracciato – l’immemorabile forse; ricordarsi attraverso l’oblio, daccapo il fuori.

Tuttavia dobbiamo dover pensare e dire che la scrittura non può essere soltanto un’intermittenza, uno spazio di interdizione ma deve ristabilire un nesso, un’esposizione profonda con il senso stesso del prendersi cura e del senso stesso delle nostre pratiche di vita. La ricomposizione è insieme un riconoscere e una riconoscenza della storia umana, del suo corpo che è anche il nostro di corpo, un giungere a una dimensione poetica della vita come luogo delle nostre esperienze. Soprattutto la scrittura, nel tempo dei disastri e del terrore, deve recuperare la sua forza di denuncia, di critica, farsi ingiunzione etica verso universi verbali di nuove significazioni. Deve esserci una volontà e una ragione che ristabiliscano un equilibrio, un rapporto, un progetto culturale, un’intesa sociale e religiosa contro ogni forma di intolleranza  e di  estremismo fanatico che devasta i corpi, li decapita, negando loro l’ultima traccia del volto e ogni interezza con l’essere che non è più. Interrompere il flusso del linguaggio con il corpo significa proprio  devastare l’essere, decapitare quella parola che nasce dal silenzio e vi si fonda, fare a meno del volto, del suo  linguaggio e dell’anima che lo abita. Bisogna non farsi intimidire, ribattere colpo su colpo a questo tipo di orrore che rifiuta ogni possibile alterità e di nuovo occorre farlo non solo con la parola,  la presenza  ovunque e in ogni luogo, ma anche con altre modalità estreme quando diventano necessarie, senza perdere di vista l’incontro, il dialogo con chi, anche se da prospettive diverse dalle nostre è per costruire  la pace, la cultura, il mondo, la vita.

Corpo, volto, parola e scrittura sono la sostanza dell’essere e del suo rapporto con il tutto, cioè dell’essere nel tutto. La scrittura è proprio segnata dalla presenza del volto dell’altro, se si spezza questa unitarietà, si distrugge il mondo stesso e qualsiasi parola umana che ha nella memoria la sua essenza originaria. È la parola che viene dal volto come dire-dicente l’essere a domandare,  interrogare. Essa è volto che si compie  nella scrittura, volto del senso che si dona all’apertura ma anche al linguaggio che ci fa essere. Sono proprio le parole dei poeti, degli artisti, il loro linguaggio, che rigenerano l’abitabilità del mondo, a portarci nel tutto, a farci superare il guado, ricomporre i frammenti, trasformare il disastro in opportunità, in un rinvenimento del senso di comunanza, di appartenenza. Noi siamo, allo stesso tempo, cittadini di nazioni diverse e di un unico mondo che ci rinnova. Anche se a impedire una rigenerazione del senso che dalla frammentarietà porta a un passaggio, sono proprio le parole che non è possibile riattaccare a quel nulla che si deve conoscere, tuttavia è da questo limine, laddove non c’è posto neanche per introdurre una domanda che il disastro parla in noi e ci costringe a dire anche per difetto, fosse anche per oblio o per silenzio.

In questa dimensione del disastro permanente non c’è alcun rito, religione o ricetta che possano salvarci, se non la comprensione di ciò che sta accadendo. La trasformazione che dobbiamo attuare per impedire che il grande disastro sia irreversibile può solo partire da una logica nuova, da una conoscenza autentica e rispettosa del pianeta, dal riconoscimento delle identità culturali ma anche delle differenze e dal senso di una responsabilità universale a cui siamo destinati. Dobbiamo, in virtù di una riflessione vera del nostro abitare il mondo, saper anche rinunciare alle cose inutili che non possono accompagnarci in questo viaggio, dall’iperproduzione allo sfruttamento del territorio, dalla moda alla spettacolarizzazione della cultura e alla banalità, dai guadagni veloci a una finanza selvaggia, in breve di tutto ciò che provoca altro sfruttamento, altra povertà.

È proprio questo cambiamento delle nostre abitudini a essere particolarmente difficile e doloroso; solo quando tutto si è oscurato, regna l’illuminazione senza luce che certe parole annunciano.  Finora abbiamo avuto a che fare con le immagini del disastro e non con il suo vero sopraggiungere, non con le parole che illuminano la storia e ci fanno capire realmente dove stiamo. Continuiamo a concepire il disastro come uno spettacolo televisivo che appare dalle luci degli schermi e non come ciò che ci leva la terra dai piedi, che all’improvviso può spazzare le nostre vite. Le parole che oggi sono usate dai media ci abituano a pensare che tutto sia abbastanza distante, perfino gli atti più indescrivibili, più violenti, le catastrofi, i naufragi, la morte e che dunque non dobbiamo preoccuparcene. È cosa di altri e non nostra, non ci riguarda. Le parole che dovrebbero nominare le cose, le allontanano trascinandoci in un torpore, in un devastante cortocircuito finché poi le cose non si rivoltano contro di noi per davvero, tanto da esserne implicati. È allora che ci stupiamo e ci domandiamo del perché sia toccato proprio a noi piuttosto che agli altri.

Purtroppo a prevalere sono le forme di egoismo, d’ipocrisia, di chiusura mentale, d’impotenza, queste sì devastanti per il procedere umano, per lo stesso sentimento di amore e per qualsiasi scrittura compresa quella del disastro. Bisogna dunque reimparare a pensare avendo in mente ciò che la storia ci ha insegnato; perseverare nella ragione, vivere con parsimonia e rispetto dell’altro. Ciò non vuol dire rimanere inermi davanti ad atti insensati d’intolleranza e negazione delle libertà individuali e di attacco alla convivenza democratica.

Prima che il disastro si espanda in una dimensione incontrollata e catastrofica, bisogna intervenire con decisione e fermezza là dove occorre. In questo senso la scrittura del disastro risponde ad un obbligo morale che non può  essere ignorato. Tale obbligo dovrebbe consistere nello scrivere per difetto, usare gli errori e soprattutto scrivere nella proibizione di leggere, scrivere per rifiuto, obbligarsi alla vita, rispondere a chi domanda. Anche se non è con la scrittura che si risponde alla ferocia e  al terrorismo nel nome di una nobile religione come quella islamica, occorre continuare ad indicare la strada della cultura, della ragione, dell’arte, della poesia, per avere la meglio sulla barbarie. Soprattutto bisogna reimparare a pensare sulle cose del mondo con sguardo interrogante,  con gioia e umiltà. Ancora una volta si tratta di riavvicinare il corpo alla scrittura, a quella lingua  che può essere condivisa da altri e oggetto, come tale, di uso comune.

Le scritture del disastro possono diventare, da questo punto di vista, il terreno fecondo della espropriazione e riappropriazione del soggetto ma anche dell’uso dei corpi verso un’alterità possibile, una ricongiunzione condivisa pur nella differenza delle identità. Prima di doverci accorgere, quando ormai è troppo tardi, che le nostre libertà si sono ridotte, che tutto è perduto e non possiamo porvi rimedio, devono essere le parole, le forme di espressione visive e verbali a diventare la nostra ossatura, l’abito mentale, il corpo e l’armatura che ci consentono di attraversare l’oscurità e di vivere senza paure e in pace. E dell’arte che cosa ne è, rimane muta o è ancora quell’ultimo baluardo di possibilità, di bellezza e sensibilità, apertura di senso che non può essere represso? Ne riparleremo nella seconda parte. (Fine Iª parte)