Parla di “arcipelaghi” Martone e di un filo che li lega. E gli isolotti sono il teatro, il cinema, la musica, la natura, la pittura, l’arte totale
di Lucia Piccirilli
Torna a L’Aquila Mario Martone. Regista cinematografico, teatrale, sceneggiatore, è calorosamente accolto da un pubblico di appassionati cinefili e non solo nella cornice dell’Auditorium di Renzo Piano che ospita l’XI edizione dell’Aquila Film Festival. Riservato ma generoso, si concede ai giornalisti ripercorrendo le tappe principali della sua carriera artistica. Il discorso con lui passa dal suo rapporto con l’arte alla situazione nazionale, attraversando regie, mostre e incontri accaduti nella sua vita.
“Quando ho cominciato a mettere la testa fuori, avevo quattordici o quindici anni, a Napoli erano gli anni in cui Lucio Amelio era una figura molto importante. Portava grandi artisti internazionali, lui così napoletano e radicato nel cuore storico e popolare della città. Per questo si creava un rapporto straordinario tra questi artisti e la città. Arrivavano e Lucio li faceva entrare in contatto con la Napoli ancestrale, dei vicoli, delle bettole dove andava a mangiare con loro. È stato fondamentale per me conoscere in questo modo gli artisti e ciò che si portavano dietro.
Ricordo che nel 1975 faceva mostre a Villa Pignatelli, una fu di Mario Merz, indimenticabile, bellissima, era una persona straordinaria di cui mi è rimasto impressa l’opera “Il metro cubo di infinito”. Poi ne ricordo altre, una di Pier Paolo Calzolari, ma anche una performance di Vito Acconci, che mi segnarono tutte.
E poi, naturalmente, Joseph Beuys, che era spesso a Napoli, era un amico di Lucio.
Una volta Amelio mi chiama, per andare con Beuys a fare una gita all’Antro della Sibilla Cumana. Ci andammo io e Toni Servillo, eravamo ragazzini. E sempre in quegli anni conobbi Mimmo Paladino, giovane anche lui. Proprio da Amelio ho visto per la prima volta un lavoro Mimmo, era un quadro tutto blu”.
Traccia percorsi articolati che attraversano sapientemente cinema, letteratura, arte, teatro, opera, in grado di presentarci la complessità e la ricchezza del suo mondo espressivo.
Si apre con due dittici la retrospettiva a lui dedicata: i primi due film su Napoli, Morte di un Matematico Napoletano (1992) e L’amore Molesto (1996) e il dittico più recente sull’800, Noi credevamo (2010) e Il Giovane Favoloso (2014).
Il suo esordio al cinema è stato folgorante, ma non tutti sanno che Martone aveva alle spalle molti anni di attività teatrale iniziata prestissimo, a 17 anni, come regista in quel teatro d’avanguardia, la nuova spettacolarità, cosiddetto multimediale, che potrebbe evocare grandi tecnologie ma di fatto era un teatro artigianale che trovava la sua sperimentazione nelle cantine di Napoli. Una comunità di giovani artisti diciassettenni e anche più giovani, interessati al teatro ma come Martone patologicamente appassionati di cinema. E il cinema rientrava spesso in questi spettacoli come citazione ma soprattutto come interazione fra gli attori.
Segue ancora il teatro, grande successo internazionale con lo spettacolo Tango glaciale. A vent’anni avrebbe potuto adagiarsi sugli allori e continuare a fare a lungo quel genere di teatro, invece, preferisce cercare nuove strade, nuove sperimentazioni.
Martone ha virato di nuovo. La sua ricerca lo spinge verso le origini della drammaturgia greca. La sua arte è il frutto di nuove aperture, fratture, contaminazioni e continuità. Capire il presente attraverso il passato è questa la sua poetica. Martone, quasi quarant’anni di lavoro, parla di amore per il rischio. Cambiare, spiazzare sé stesso, certamente lo spettatore, per stabilire un rapporto vivo, interlocutorio.
Il “rovesciamento del tavolo” fa scaturire sempre nuove domande: perché? E le domande mantengono vivo il rapporto con lo spettatore, parte essenziale del processo artistico. E perché? è la domanda di chi è rimasto colpito dallo squarcio su una tela ottocentesca, nel film Noi credevamo, ricostruzione iconografica dell’800, provocato dall’improvvisa apparizione di un casermone in cemento armato. È un’impurità dentro la filologia che può venire solo da chi ha iniziato come Martone.
Con il tempo è sempre più chiaro che i lavori del regista sono “orizzontalmente insieme”. Parla di “arcipelaghi” Martone e di un filo che li lega. E gli isolotti sono il teatro, il cinema, la musica, la natura, la pittura, l’arte totale. Orizzontalità e arcipelago: un’importante lezione di “metodo”.
Richiami multipli. Martone ha tre vite: regista teatrale, dirige lo Stabile di Torino, cinematografico e regista di teatro d’opera. Mentre concepisce i suoi film si misura con l’800, soprattutto con Rossini, presente anche nel film su Leopardi e di Verdi, importante per Noi credevamo. Sinergie tra linguaggi, intrecci, fusioni, ibridazioni. Dal 2004 al 2014, Martone si occupa dell’800 italiano. L’intreccio delle arti, in questo decennio, è una chiarissima dimostrazione di come si componga il suo assemblaggio orizzontale. Inconsapevolmente, forse, ma sempre in quel tempo, i pensieri, le idee si inanellavano. Tutto nasceva, si intrecciava. Percepiva la complessa costruzione dei suoi tanti lavori che lo avrebbero accompagnato per dieci anni. Nel 2004, a Napoli, mette in scena uno spettacolo, L’opera segreta, dedicata a tre figure di grandi artisti non napoletani che nella città partenopea hanno trovato una rivelazione, qualcosa di assoluto, che determinerà anche la loro stessa opera: Caravaggio, Leopardi e Annamaria Ortese.
Slides (a cura di Lucia Piccirilli)
Compone, testo di Enzo Moscato, il monologo Lo straniero. Straniero a Napoli, Leopardi dunque, era già entrato nel suo arcipelago. Lo rincontrerà nel 2014, dieci anni più tardi ne Il Giovane Favoloso. Contemporaneamente Martone mette in scena “Matilde di Shabran” di Rossini, anch’esso presente ne Il giovane favoloso.
La collaborazione con Giancarlo De Cataldo, giudice e scrittore, autore di Romanzo criminale, lo porta a scavare nella storia dell’800 nel tentativo di restituire voce ai repubblicani sconfitti, a coloro che avevano creduto in un’altra Unità d’Italia. E Noi credevamo è un modo per scoperchiare gli aspetti colpevolmente taciuti dalla storia al senso comune. La costruzione del film è lunga e complessa e mentre lavora alla sceneggiatura mette in scena Verdi a Londra. Ma tra una scena e l’altra la sua ricerca continua e l’esilio londinese di Mazzini e di altri repubblicani fa tornare il suo pensiero a Leopardi, esiliato a Napoli, lo straniero appunto.
Il pensiero per il poeta è una costante. Il film Noi credevamo è finito. Nel 2011 lo Stabile di Torino chiede a Martone di mettere in scena uno spettacolo per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Il regista crea di nuovo tensione e spiazzamento. Mette in scena le Operette Morali di Leopardi. Lo spettacolo ebbe un enorme successo così come per Noi Credevamo. In tournée per tre anni e con un pubblico che affollò i teatri: fu questa la spinta per affrontare un nuovo film. Finalmente su Leopardi, il suo Giovane Favoloso.
Film storici sì, film sul passato come afferma lo stesso regista ma importanti per il nostro presente, per noi adesso. Film il cui dispositivo, il cui modo di raccontare, le cui ragioni sono tutte dentro il nostro presente.
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