Che fare se l’opera d’arte del presente non è più percepita da noi come questione di senso, di rapporto con l’essere che è, con l’esistente, con il mondo, ma solo come denaro?
di Francesco Correggia
Il mondo dell’arte è un mondo difficile dove si incontrano o si scontrano differenti posizioni e non sempre fra artista e gallerista e anche fra artista e artista nasce un progetto comune, un’avventura poetica condivisa. Molte volte il gallerista pensa di realizzare mere operazioni commerciali mentre l’artista, al contrario, guarda al mondo della ricerca e della sperimentazione, avventurandosi in territori sempre più perigliosi, a volte incomprensibili, a questioni che solo lui e altri artisti che lavorano sulla medesima situazione sanno interpretare, conoscere, approfondire. È anche vero che tra artista e artista ci sono gelosie, invidie, prevaricazioni e tradimenti che non sempre fanno bene a una dinamica di ricerca, al farsi dell’opera d’arte e alla sua qualità.
Si sa ed è noto, senza entrare nel merito degli aspetti ormai conosciuti della diffusione e circolazione dell’arte contemporanea, che muoversi nel vasto territorio dell’arte vuol dire fare sistema, creare relazioni tra diversi soggetti dell’arte e non solo tra artista e gallerista. Ciò che caratterizza oggi la peculiarità e la singolarità dell’arte è proprio la sua tendenza all’internalizzazione, a un processo di artistizzazione, a una prassi di sistemi misti, mediali e anche curatoriali, in una maniera e in una logica sempre più aperta e cangiante. Le parti di questo sistema, il quale si presenta come un tutto ben registrato sono: artisti, gallerie pubbliche e private, Istituzioni culturali, musei di arte moderna contemporanea, collezionisti, fondazioni, manager, curatori, critici, riviste di settore, alcune biennali e fiere internazionali.
Non vogliamo qui fare un elenco definitivo per arrivare a individuare i veri soggetti dell’arte, bensì rimarcare quanto questo insieme sia molto mobile e veloce nell’affrontare aspetti complessi e decisivi della realtà di un paese, di una nazione, di una geopolitica globale, di un’economia. In molti casi l’arte contemporanea, la quale ha molto spesso un aspetto concettuale, diventa del tutto immateriale come il denaro. È altrettanto noto che il Mondo dell’arte è sempre più un sistema di relazioni su diversi piani culturali, sociologici, antropologici, politici. Sistema che è sempre di più globale, internazionalizzato. Proprio per tale ragione l’operatività dell’arte contemporanea è molto più esposta alle logiche di crisi o di implosione del sistema finanziario ed economico. Lo vediamo soprattutto oggi proprio in Italia dove sia la giovane arte, sia quella già affermata fanno fatica. Il contrario è avvenuto negli altri paesi. La Germania, la Francia, l’Inghilterra, la stessa America hanno favorito lo sviluppo dell’arte, imponendolo a livello mondiale, difendendone la qualità, la ricerca, attraverso varie forme d’interventi istituzionali tra pubblico e privato, con la creazione di spazi appositi per la diffusione dell’opera, dai Kunstverein, al Turner prize, dalle Gallerie a capitale misto alle Fondazioni, fino ai centri culturali polifunzionali. Un altro fattore che ha favorito la diffusione dell’arte stimolandone la ricerca è stata l’attuazione da parte di molti governi europei di una politica di defiscalizzazione per chi compra arte contemporanea. Da noi sembra che esistano solo i monumenti da salvare per incentivare il turismo e il richiamo alla parola “cultura” che ormai detta dai politici è diventata una parola di plastica, mentre le persone che hanno qualcosa da dire sono isolate e tenute ai margini. Per gli artisti c’è solo l’aiuto divino, che non è da poco, ma non può bastare.
Slides (a cura di Francesco Correggia)
È vero come scrive Mario Perniola nel suo recente saggio dal titolo L’arte espansa che è dall’iperproduttivismo economico che provengono maggiori pericoli: Infatti, le opere d’arte tendono, come i vestiti e le altre merci a essere coinvolte in un processo sempre più rapido di fabbricazione e distruzione. Tuttavia proprio per questo occorre rimarcare ancora una volta che il bene dell’arte non è un bene come tutti gli altri, non ha alcuna utilità pratica se non quella di una dimensione che fa veramente bene all’uomo. Non solo esso è un piacere disinteressato, come scriveva Kant, ma per prima cosa, questo bene consiste nel saper vedere meglio ciò che non si vede da subito e che non si può conoscere in maniera immediata. Ciò vuol dire saper riconoscere la verità là dove essa manca. Il bene dell’arte è pubblico perché è essenzialmente inutile, visionario e al contempo è reale ed è esposto e altrove rispetto all’idea che si ha dell’arte o del reale. L’arte contemporanea fa bene non solo perché chi la compra ne è soddisfatto sul piano della sua scelta d’investimento o da un punto di vista estetico e sentimentale ma perché lo fa sentire partecipe di una sensibilità singolare e insieme feconda. Un’opera d’arte è sempre ciò che fa mondo, ne ripristina il senso, la storia, la traiettoria anche nel presente, nel costruire orizzonti di mondi e nella stessa impossibilità che diventa possibile. È quest’apertura di senso che rende inseparabile il bene dal bello.
Nell’arte istituzionale i confini del paradigma dell’arte si sono talmente allargati da comprendere qualsiasi cosa, cioè nulla. Appare dunque sempre più necessario cambiare il modo con cui l’opera d’arte deve esser letta, esperita, guardata, offerta al pubblico. Lo stesso meccanismo con cui finora l’arte contemporanea si è consolidata ed espansa in una forma di sistema non è più sufficiente per definire che cosa è un’opera. Se essa è autentica o non lo è e che cosa la sottrae al processo di falsificazione. In Italia arriviamo a produrre tante mostre, forse più che negli altri paesi, ma sono mostre inutili, celebrative senza alcun senso. Esse servono solo alla voglia di protagonismo del curatore e all’autoaffermazione dell’artista che a volte è considerato un outsider; lo sguardo rimane di breve gittata e una nausea improvvisa sale dallo stomaco forse la stessa che assale Antoine Roquentin nel libro La nausea di Sartre. Non è più sufficiente mostrare l’opera al più grande pubblico, esporla nelle fiere, nelle biennali di prestigio, nei musei accreditati, darle senso e valore solo attraverso il culto celebrativo delle aste e del solito circuito di diffusione e di mercato, poiché questo meccanismo è falsificante rispetto alla sua autonomia. L’opera ora pretende il silenzio, la vasca protettiva del riconoscimento non del pubblico ma della sua estraneità rispetto alla mercificazione. Ciò che vorrebbe l’opera non è solo essere guardata ma essere vista come l’affermazione della sua essenzialità ermeneutica, della qualità simbolica, del suo essere fuori. È tutto ciò che deve far pensare e inquietare.
Che fare se l’opera d’arte del presente non è più percepita da noi come questione di senso, di rapporto con l’essere che è, con l’esistente, con il mondo, ma solo come denaro? Pensare che il collezionismo che gira intorno al mondo dell’arte, delle fiere, delle Biennali, delle gallerie, delle aste di prestigio per un semplice investimento economico, sia ciò che dà valore all’arte e non possa esserci invece qualcosa d’altro, è fuori dalla vera portata significativa dell’essenza dell’arte. Proprio oggi che le questioni si pongono in maniera problematica e drammatica il credere che lo stato dell’arte sia immutabile rispetto alle cose che accadono nel resto del mondo, mi sembra una mera banalità. Tutti i sistemi, anche quelli economici soffrono di crisi endemiche periodiche, quasi irrisolvibili, ma è proprio da queste crisi che il sistema si rinnova, riparte daccapo, riguarda la storia, la ricomprende, la riconosce anche nei suoi mutamenti.
Vendere il lavoro di un artista significa non solo imporlo sul mercato ma fare proposte culturali di qualità, spingere verso la ricerca, aprire a un collezionismo giovane, nuovo, sensibile e aperto che riesce a comprendere la realtà in cui viviamo. Ciò vuol dire per il collezionista entrare nei meccanismi della circolazione del sistema dell’arte e per l’artista poter continuare a lavorare con i tempi appropriati della ricerca e della riflessione. La logica che vede nella Galleria il luogo istituzionale privilegiato di mediazione fra artista e pubblico deve essere rivista in una dimensione più allargata. Essa prevede molti fattori che a volte sembrano estranei come il modo di mediazione ermeneutica cui è sottoposto, la valorizzazione intermediale, la ricezione del pubblico e della critica, la manipolazione cui i mass media lo sottopongono. L’arte diventa un insieme di relazioni di tutto questo: di azioni e reazioni, oggetti e racconti, progetti e materiali di tutti i tipi, dalla circolazione in internet al web, dal passaparola alle tattiche da combattimento. Ne consegue la sparizione dell’opera che avviene attraverso la sostituzione con la sua stessa circolazione nel circuito di espansione mediale. Tutto ciò comunque può tramutarsi in opportunità, in possibilità per l’autore che pensa la propria attività.
Occorre avere una visione, un passo più in là della semplice ottica mercantile. Per avvicinarsi all’opera, riconoscerla e saperla acquistare, il collezionista e anche il più vasto pubblico devono conoscere e soprattutto amare l’arte, entrare nel suo mondo con attenzione, a volte occorre tornare indietro nella scala di riconoscimento dell’opera se pensiamo che essa possa esistere ancora. Dobbiamo dunque incontrare, come si faceva nel passato, l’artista, frequentarlo, saper riconoscere i suoi vizi e le sue virtù, coniugare l’esigenza soggettiva del proprio piacere con uno sguardo sempre attento, oggettivo e disponibile. In breve si tratta di conoscere idee, desideri, passioni, pensieri e progetti dell’artista, del gallerista, dell’Istituzione che lo seguono, riuscire a percepire e comprenderne i cambiamenti, i passaggi, l’impresa a lungo termine. Solo così si può essere certi di investire bene il proprio denaro.
Per entrare nella logica dei linguaggi dell’arte e comprenderne le dinamiche, occorre saper riconoscere le diverse parti che compongono il processo di artistizzazione e di sdefinizione e ridefinizione dell’opera. Riconoscere l’artista significa comprenderne il progetto, le sue scelte operative, entrare in un universo nuovo dove anche le mediazioni possono saltare. Quando la Galleria o un’istituzione pubblica lo propone al pubblico nel nome della qualità del suo lavoro, del suo modo di agire possiamo pensare a una congiunzione d’intenti proficua. Se vi è al contempo un progetto pubblico e istituzionale, di rapporti con spazi associativi, gallerie e privati, di promozione, mediazione e proposta, allora non solo vi è sintonia tra artista, gallerista e Istituzioni ma accade qualcosa d’importante: l’opera si offre all’altro, agli altri, al pubblico; qualcosa accade, s’instaura una fiducia che diventa consapevolezza e acquisizione di responsabilità.
Tutto il processo d’individuazione dell’arte deve essere marcato da questa esigenza d’incontro con gli artisti, le Istituzioni pubbliche e private, le gallerie, là dove esse sono presenti con proposte, con loro stesse e con quelli che le sostengono, le vogliono bene, le aiutano non solo economicamente ma anche attraverso condivisioni e avventure nel nome di un progetto, un bene comune. Nel fare questo si ama tutta l’arte e non solo quella del presente ma anche quella del passato e anche quelli che se ne sono occupati nelle diverse epoche della storia e quelli che, in diversi modi, se ne occupano adesso. Tuttavia il lavoro di una Galleria nell’epoca in cui viviamo, deve essere concepito in termini nuovi a cominciare dalla scelta degli artisti con cui si condivide il progetto altrimenti essa è destinata a sparire.
La qualità dell’opera diventa l’elemento primario e decisivo per qualsiasi Istituzione pubblica o privata che voglia operare con chiarezza e serietà.
L’arte, lo abbiamo già detto, è un luogo di infinità e di possibilità là dove sembra esserci un niente. Essa è un luogo di poetiche inesauribili e di rinunce ma è anche uno spazio intermittente di confronti, di scelte, incontri e scontri tra vecchio e nuovo, tradizione e innovazione, passato e presente, tra un cielo e l’altro. Essa esprime come scrive Dilthey nel suo libro Critica della ragione storica, la profondità del vissuto nel presente: Il presente non è mai: ciò che noi viviamo immediatamente come presente, racchiude sempre in sé il ricordo di ciò che era appunto presente. Tra gli altri momenti il procedere del passato come forza nel presente, il suo significato per questo, partecipa a ciò che viene ricordato un carattere di presenza con cui esso viene inserito nel presente stesso.
Ciò che l’artista intuisce è l’impossibilità di ridurre la temporalità alla puntualità della presenza. È proprio questa relazione strutturale con il tempo come continuità di passato, presente, futuro che egli cerca e nient’altro. Ed è tale relazione strutturale che fa scorgere nell’arte qualcosa che altrimenti per noi non sarebbe visibile.
Fare ripartire il senso delle cose del mondo e al contempo spostare la dimensione dell’arte dal luogo strategico della sua presenza, del suo semplice esserci nel mercato, che pure è importante, a quello della questione stessa del suo farsi o non farsi e del suo esserci storico, forse è proprio questa la vera questione. È ancora il pensare che dona senso all’opera; il pensare che possa esserci una possibilità, un senso nella stessa dimensione del vissuto, quella del suo essere con il proprio tempo in un’estenuante ricerca di ciò che ancora non è. Come quando vaghiamo in terre straniere smarriti e incerti ma sicuri di potercela fare. È qui che deve essere vista la svolta teorica, quella che Perniola chiama la svolta fringe. Essa consisterebbe nella capacità dell’arte di socializzarsi, di espandersi in maniera quasi virale con ciò che le è congeniale, con internet e la rete. La profondità della portata storica di questo cambiamento è determinante ed è ciò che caratterizza il fare arte oggi in bene e in male. Ed è per tale ragione che il suo mondo nelle sue contraddizioni, passaggi e mutamenti è pensiero, singolarità, dialettica tensionale che entra nel corpo stesso del nostro vivere quotidiano, nella nostra stessa esistenza vissuta (l’erlebins di cui scrive Dilthey). In altri termini nessuna strategia artistica può fare a meno di teorie appropriate soprattutto ora quando non ci sono più né paradigmi né distanze. I nostri curatori, i direttori dei musei, gli organizzatori di mostre, i commissari scientifici di musei importanti farebbero bene a saperlo leggendo più libri: quelli giusti e appropriati. Essi non possono essere degli ignoranti che fanno finta di vagare da una terra all’altra, da un cielo all’altro.
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