Il sistema è elastico. Fino alla soglia massima di tolleranza del carico di sofferenza. Quando il sovraccarico depressivo del sistema supera la soglia limite, la pelle del mondo si strappa

di Luigi Fabio Mastropietro 

There is a crack in everything
That’s how the light gets in.

C’è una crepa in ogni cosa
È così che entra la luce.

(da Anthem di Leonard Cohen)

I. la storia penultima

Il primo segno fu il cambiamento della luce.

Nessun fisico o astronomo riuscì mai veramente a spiegare il fenomeno. Si parlò di un effetto del surriscaldamento globale. Si ipotizzò un decadimento della radiazione elettromagnetica dovuto all’allentamento delle sinapsi di materia oscura che tengono insieme le galassie. Si richiamò l’attenzione sulla scoperta di una variazione della densità dell’energia associata ai campi gravitazionali. Fatto sta che a un certo punto la luce cambiò a tutte le latitudini. Era come se avesse perduto la sua naturale capacità di rifrazione. Attraversando l’atmosfera, i raggi di luce non si incurvavano più. Ogni radiazione luminosa trapassava aria e acqua e ogni cosa come un dardo avvelenato.

La prima conseguenza tangibile fu che il giorno non fu mai più giorno. Anche in una giornata di pieno sole, il giorno non era mai pieno giorno, con quella luce fonda e fosca che velava ogni cosa come bile versata sulla terra. Così la notte, non fu mai più piena notte. Il sole tramontava ma le cose del mondo galleggiavano nella tenebra, trafitte da una trasparenza esanime che le resuscitava nella forma di fantasmi barbaglianti nel buio.

Da un polo all’altro, il pianeta sprofondò in una rugginosa e desolata aurora boreale senza fine. Uno sterminato deserto opaco nel quale le cose si stingevano tutte nello stesso colore mai visto. Una vibrazione malarica dell’essere tra il giallo e la sua fine.

Youtube e il web si riempirono di immagini e di video con gli oggetti più disparati immersi nei liquidi più eterogenei. Per effetto dell’assenza di rifrazione, tutti gli oggetti, dal pennarello all’arto umano, una volta immersi non si piegavano più ma restavano tristemente intatti alla vista.

Presto gli uomini dimenticarono anche la differenza tra il sonno e la veglia, confondendo l’una con l’altra nel corso degli interminabili NRLU (Non Refractive Light Unit).

Non potendo più distinguere nettamente il riposo dal lavoro, fu sempre più difficile separare il sonno dal sogno e la vita dalla morte. La lama della luce aveva trafitto il cuore del mondo e gli umani, come del resto gli animali e le piante e tutte le cose sotto il cielo, vivevano ormai nel nuovo limbo sospeso tra l’essere animato e l’inanimato.

In questa condizione di catalessi forzata, le stesse “rivolte della luce” che all’inizio del fenomeno, intorno al 2027, avevano insanguinato la terra dalle Americhe all’Europa e dall’Asia all’Oceania, con centinaia di migliaia di morti e la distruzione di intere città, cominciarono a disperdersi in focolai di conflitti sempre più isolati e deboli. Le stesse voci millenaristiche che si erano levate per chiamare all’adunata ecumenica i fedeli delle varie confessioni religiose, perché Dio si ritirava dal mondo e il creatore ripudiava la sua creazione spegnendo il sole, si smorzarono presto nell’azione abulica e frammentaria di piccole sette senza nome.

L’umanità fuori di sé che aveva fatto dello sterminio e della devastazione la regola di vita quotidiana, si ritrovò in pochi anni a esaurire le riserve di energia per continuare a distruggere il pianeta. Non grazie a un atto di volontà, ma solo a causa degli effetti della sindrome di astenia secondaria, si ruppe irrimediabilmente la catena di comando, quel meccanismo di potere, perfetto e perverso, che da sempre aveva consentito agli uomini di amministrare la vita e la morte. La grazia e l’abominio.

Ma a differenza dei cuori di carne, preda di quel torpore che è l’anticamera dell’estinzione della specie, i cuori di silicio sembravano nascere a nuova vita, ingoiando la luce che li trapassava. Telefoni cellulari, computer e televisori cominciarono ad accendersi da soli e a funzionare in autonomia, dialogando incessantemente tra di loro. Così ogni congegno informatico e gli stessi robot industriali, in assenza di rifrazione e nutrendosi ormai di luce oltre che di informazioni, rimasero costantemente accesi e perennemente attivi, per svolgere ieraticamente il loro arcano compito. Ogni tentativo di spegnere i sistemi fu vano. La trascendenza degli oggetti che qualcuno aveva in passato timidamente teorizzato, sulla scorta di una lunga tradizione fantascientifica, divenne realtà e cominciò presto a dettare l’agenda del mondo.

Ma non fu questo a cancellare l’uomo dalla faccia della terra.

 

II. la storia ultima

Ancora oggi, in piena era postzoica, il ricordo del riassorbimento dell’orbe terrestre nell’orbe di fuori costituisce uno dei principali motori quantici della nostalgia emulativa nei protocolli riproduttivi delle grandi macchine orbitanti.

Per questo, il WTG (Worldwide Thinking Government) conserva nei propri archivi fisici milioni di testimonianze multimediali, incise dagli umani su drive di vetro 5D e risalenti all’ultimo periodo dell’Olocene, dal 2020 al 2070.

All’epoca, nonostante la diffusione universale delle memorie virtuali, le ultime testimonianze di vita neozoica furono incise su memorie di nanovetro di quarzo, considerate indistruttibili e, soprattutto, in seguito a uno speciale trattamento di protezione pranica, ritenute non manipolabili dalle macchine.

Portfolio (Opere di Ettore Frani)

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Il reperto memoriale estratto oggi per la trascrizione molecolare e la manutenzione programmata è il n. 00010/666 e reca la data del 26 giugno 2021. Il documento riveste un particolare interesse scientifico poiché testimonia uno dei primi UMAE (Unexplained Mass Abduction Event) collegato al fenomeno di mutazione della luce.

III. la trascrizione del reperto n. 00010/666

Questa notte ho dormito, come non dormivo da anni, sprofondato nel miele dell’incoscienza. Non un sogno, non un ricordo. La botola del sonno aperta e poi più nulla.

Forse per questo mi sento stranamente vigile ed eccitato, questa mattina. Mi metterei perfino a scrivere adesso, alle nove, vale a dire a notte fonda, per i miei ritmi circadiani.

Sembra una di quelle strane mattine di primavera che capitavano tanti anni fa, quando avevo in mente solo Lara. Mi svegliavo nell’utero del mondo, stupidamente felice, abbracciato al suo piccolo corpo caldo di sonno, dentro il grande letto bianco.

Maria era in viaggio per lavoro e noi due eravamo soli. Finalmente liberi di guardare un film horror dopo l’altro e ridere insieme degli effetti speciali. Liberi di giocare al festivalino tutto il giorno, inventandoci i personaggi più strampalati con le parlate e i tic più esilaranti. Capaci di correre all’impazzata per tutta la casa, saltando sui letti e sui divani, e di rincorrerci per ore, fino allo sfinimento. E oggi sembra ritornare la stagione del padre-bambino che gioca a mosca cieca.

Una di quelle antiche mattine gonfie di sole e di luce, quando la vita ti ubriaca di voci e colori e tu sei molto vicino a capire il miracolo e sei certo che non finirà mai. Una di quelle mattine che daresti l’anima perché non finisse mai. Allora prendi tua figlia e la porti dentro al sole, la porti al mare, tu che l’hai sempre odiato, il mare, e continui a odiarlo anche adesso. Ma è più forte di te, non puoi farne a meno, perché sei al centro del mondo, sei tu stesso la fonte della luce che ti abbaglia.

Ho voglia di uscire questa mattina e di comprare un libro. Forse troverò perfino il libro che voglio e che non è mai stato scritto. Tiro su le tapparelle e faccio entrare la luce e l’aria in questo buco di contenzione.

Sono fuori, sul balcone della camera da letto, a fissare la strada vuota di sotto.

Non è caldo come pensavo, per essere un sabato di fine giugno. Al contrario, il sole già alto sembra un disco di azoto liquido e non scalda la pelle accapponata delle mie braccia.

Il sole. Il cielo. Il cielo è terso e pulito, di un blu quasi elettrico. Non ci sono nuvole. Solo una. Strana. Lunga e con i bordi lacerati. Nera come la pece.

Ma non è una nuvola, non sembra una nuvola.

Mio Dio, che cos’è? Il cuore mi schizza in gola. Una lingua di gelo mi sale dai lombi su per la schiena fino alla radice del collo.

Non può essere, deve essere un’illusione ottica. Questa cosa sulla montagna non è una nuvola. Sembra il segno di una coltellata. È gigantesca. Una gigantesca ferita di tenebra. Che Dio mi fulmini! Il cielo è strappato sulla montagna.

Distolgo lo sguardo e strizzo gli occhi ancora una volta, ma il taglio nel cielo a occidente non scompare. È sempre lì, con la sua impossibile evidenza di visione impensabile.

Mentre comincio a tremare, non so se per il freddo o il terrore, mi viene in mente che potrebbe essere un difetto della mia vista, una degenerazione della retina, ne ho sentito parlare tempo fa. Una specie di macchia o di edema sulla retina che copre di nero la visione del centro di un oggetto.

Ma no, non è questo. Se fisso lo sguardo altrove la macchia scompare e il campo visivo torna pulito. Deve dipendere da qualche altra cosa, una specie di fenomeno ottico o di allucinazione.

Sono per strada adesso, ho bisogno di vedere gente. Gente che cammina, gente che parla, impegnata nella quotidianità. Persone normali che fanno qualcosa di normale, come ogni sabato mattina in città. E poi devo sapere se anche loro vedono quella cosa in cielo.

Ma per strada non c’è nessuno. Ormai cammino già da un pezzo e le strade sono tutte vuote. Un deserto di marciapiedi e automobili parcheggiate. Sono le dieci del mattino, ma non fosse per la luce potrebbero essere le tre di notte.

In Piazza Municipio, di fronte all’orologio che torreggia su un parco deserto, solo panchine vuote e piazze desolate a perdita d’occhio. In giro non c’è anima viva. Lo scroscio dell’acqua nella grande fontana è l’unica cosa viva che sfugge a un silenzio eterno.

Più avanti, in Corso Vittorio Emanuele mi trovo catapultato dentro un’inconcepibile macchinazione dell’assenza. Le vetrine dei negozi sono chiuse. Le porte e i portoni sbarrati e sigillati, mentre le finestre sono tutte aperte. Dai primi agli ultimi piani dei palazzi della città è tutto un traboccare di antichi scuri spalancati sulla strada. Di battenti aperti dentro stanze vuote. Di tende sollevate su teatri di tenebra.

Ancora poche centinaia di metri e sono al centro di Piazza Garibaldi, di fronte alla stazione ferroviaria, inchiodato dalla gravità dentro un’aiuola con il naso in su a guardare le case. Bocche del silenzio spalancate a vomitare il vuoto.

Non capisco. Non riesco a capire il perché io sto assistendo da solo a questo spettacolo allucinante.

Prima di uscire di casa, avevo deciso di chiamare Lara a New York. L’avrei svegliata alle tre del mattino per dirle quanto mi mancava la sua voce, per chiederle di suo figlio David e della sua vita e alla fine raccontarle tutto. La mia lunga reclusione, il mio sonno senza sogni e lo strappo nel cielo.

Poi ci avevo ripensato e avevo afferrato la cornetta d’impulso e composto il numero di Maria a Roma. Ma il telefono era muto, dava solo un debole ronzio di fondo. Stessa cosa sul cellulare e sul cellulare di Marco e Cristiana. Stesso ronzio basso su tutti i numeri di telefono.

Avevo acceso Sky, ma lo schermo televisivo non rimandava nessun segnale, solo effetto neve. L’impianto sembrava fuori uso, così anche il sintonizzatore dello stereo. Su tutta la gamma delle frequenze radio, solo qualche sporadica scarica e nient’altro. Troppe coincidenze assurde, anche per i miei gusti di naufrago abituato alla sferza dei flutti, e così alla fine avevo deciso di uscire.

È mezzogiorno ormai. Un sole abbagliato veste di luce sbagliata le strade e le piazze nude. Sono seduto sulle radici di un vecchio platano secolare, la camicia bagnata fino al collo. Il cuore un grumo inerte di sangue nel petto, dopo aver suonato ai campanelli di cento portoni senza ottenere una sola risposta.

D’improvviso si alza un vento teso che fa sussurrare ritmicamente le fronde dell’albero. Al vecchio platano del cimitero di Jerez / basta un alito di vento / per cantare il flamenco / perché ha il demonio dentro.

Mi alzo barcollando. La testa mi gira e le gambe mi cedono. Cado a terra in ginocchio ma non serve pregare. La ferita del cielo si affaccia dietro il campanile della cattedrale. Si apre sul nero di un altro mondo, come la bocca piena di fango di un annegato dello tsunami di un mese fa.

Il sole è tramontato da un pezzo e sono di nuovo a casa. Mi sento il corpo attraversato da una febbre di ghiaccio e ho le gambe devastate dai crampi. Ho vagato nel deserto per quasi dodici ore.

Aspetto l’alba, sdraiato sul letto come un condannato a morte che non sa quando verrà eseguita la sentenza. Penso ancora al taglio nel cielo e guardo nel buio davanti a me.

Dove sono finiti tutti? Che cosa significa questa farsa delirante? In trappola nella stupida parte del protagonista di Occhi bianchi sul pianeta Terra. Una guerra batteriologica ha distrutto l’umanità e sono l’unico sopravvissuto. E se veramente avessero usato una qualche arma sconosciuta per respingere gli invasori dello tsunami? Se penso queste cose, devo essere già sulla strada della demenza precoce.

Non riesco a trovare il legame tra la scomparsa di tutti e la ferita aperta nel cielo, ma so che c’è. Il sistema è elastico. Fino alla soglia massima di tolleranza del carico di sofferenza. Quando il sovraccarico depressivo del sistema supera la soglia limite, la pelle del mondo si strappa.

Il telefono e la televisione sono ancora muti. Internet è morto. Ho resettato il router decine di volte. Nessuna connessione. Poco fa è andata via anche la luce e i lampioni in strada sono spenti. Il silenzio intorno è come un cuscino sulla faccia.

E se domani il sole non sorgerà? Se questa notte non finirà più? Mai più? Non so se ce la farò a uccidermi al buio, prima di impazzire del tutto. Prima di cancellare definitivamente il ricordo di Lara. Se ora penso di non parlarle più, di non rivedere mai più il suo volto, mi sento già all’inferno. Non la vedo da tre anni e mi manca come l’aria. E mi manca David, con i suoi occhi neri e profondi, due piccoli laghi di tenebra.

Devo essermi assopito alla fine, perché sto sognando e nel sogno sono immerso in un mondo immerso nel latte. Tutto intorno a me è caligine bianca e densa. Sento la sua carezza bagnata sul collo come una cosa viva. Ma sento anche la presenza di Lara, da qualche parte. È molto vicina e posso avvertire fisicamente la sua paura. Un dolore sordo nel fondo del sogno, come una morsa alle tempie. Ora la bruma si sta sciogliendo e comincio a distinguere una sagoma incerta, lontano, in fondo al corridoio, È Lara. Posso vederla con questi occhi. È seduta. Raggomitolata in una poltrona di pelle nera, la testa reclinata su un braccio e gli occhi chiusi. Ha i capelli raccolti sulla nuca e solo una camicia addosso. Le sue labbra si schiudono lentamente per pronunciare un nome

d’improvviso mi trovo oltre la cortina di latte. Scalza, in bilico sull’impiantito in pendenza di una grande camerata in penombra. C’è dell’acqua, un mare di acqua intorno. La sento sciabordare contro le pareti. Una debole luce lunare filtra attraverso un abbaino in alto sulla mia testa, rischiarando appena i contorni di lunghe pareti irregolari e di volte a crociera vertiginose. Il pavimento di legno è umido e assurdamente inclinato verso il basso come il muro di una piramide. L’aria intorno è secca e rarefatta, prosciugata da un sale maligno che brucia in gola.

C’è un respiro basso e ruvido nel fondo della grande stanza, come se qualcuno dormisse profondamente. Sento freddo e ho paura di muovermi. Su questo impiantito a picco potrei scivolare nel fondo del campo visivo, dentro il buio. Dentro la voragine di quel respiro.

Vorrei solo uscire da questo budello e fuggire lontano ma sento che David è qui. Non so dove, ma è proprio qui, da qualche parte. Pronuncio il suo nome a voce alta, sempre più alta. Una, due, tre volte ma non riesco a udire la mia voce, come se fossi muta. Allora provo a risalire la stanza verso l’alto, con le mani puntate a terra, sul pavimento sempre più scosceso. Da qualche parte, in cima alla stanza, si intravede un altare di pietra bianca e nera, con un tappeto scarlatto in fuga sui gradini. So che quell’altare è il mio porto sicuro. Devo raggiungerlo.

Dalle volte a crociera scendono lunghi raggi scuri che tagliano lo spazio davanti a me a ogni passo. Sono corde. Questo posto è un groviglio di corde tese dall’alto verso il basso. Sembrano tiranti di botole.

Ora mi pare di udire una musica leggera e lontana. Una bassa melodia di archi che fa tremare leggermente le corde. All’improvviso una fune mi cattura un piede. Perdo l’equilibrio e finisco a terra di schiena. Afferro con la mano sinistra una corda per non rotolare verso il basso e il legno sotto di me ha un sussulto e comincia a sollevarsi.

Aggrappata alla fune con le mani, vedo sotto di me una botola aprirsi lentamente verso l’alto, ruggendo sui cardini. Dal fondo filtra una luminescenza bianca. Il cerchio di luce comincia a fluttuarmi intorno come fosse vivo e poi divampa, accecandomi. In quell’istante sono spinta di sotto, in una piccola stanza dagli angoli impossibili che sembra un pentacolo rovesciato.

David è seduto a ginocchia incrociate di fronte a me, dentro il cuore pulsante della luce. Indossa il pigiama azzurro che vestiva quando è scomparso sei mesi fa e ha le mani sugli occhi. Le piccole mani sul volto, come per difendere gli occhi dal bagliore. L’emozione mi sommerge ma non faccio in tempo a pronunciare il suo nome che, nello spazio di una frazione di secondo, la sua immagine sbianca. I lineamenti del suo corpo si deformano. Si comprimono e si restringono e poi si gonfiano di nuovo alla velocità del pensiero. Occhi e mani, corpo e piume, esplodono nella folgore di una colomba bianca di luce.

       David

appena finisce di pronunciare quel nome, l’immagine di Lara e della poltrona davanti alla finestra e del suo sogno dentro il mio si sciolgono come fumo nell’aria. Ma il sogno continua e adesso io

sono ai piedi di una scala di pietra che conduce a un altare bianco e nero. Al centro dei gradini scorre il serpente scarlatto dell’ultimo sacrificio. In cima all’altare, la luce bianca di un sole pulsante mi attira a sé. Quando comincio a salire i gradini non ho più in mente Lara. Non penso più a David. Non vedo più il sangue sulle pietre e la ferita aperta nel cielo. La luce bianca mi scalda il cuore e mi lava l’anima. Sento che questa è la fine. E se questa è la morte, vorrei essere già morto.

Poi il bagliore che mi avvolge e mi culla nelle sue morbide spire diventa più intenso. Ora la luce è troppo forte per i miei occhi e

mi ritrovo a letto, abbagliato dal sole di un altro giorno che inonda la stanza. Con un balzo sono in piedi e mi precipito alla finestra. La ferita del cielo sulla montagna sembra ancora più grande e il nero del taglio immane rimanda riflessi d’acciaio alla luce del sole. Non è un sogno e ormai non mi illudo più che lo sia.

Nel sogno di stanotte, invece, Lara chiamava David. È successo qualcosa a David. Afferro di nuovo il telefono, ma è sempre muto. Non c’è luce elettrica e il computer portatile è morto.

La scomparsa della gente. Lo strappo della volta celeste. Potrebbe essere un qualche fenomeno locale, circoscritto a questo posto. Devo prendere l’automobile e allontanarmi dalla città.

Sono giù in strada. Ovunque giri lo sguardo, tutto è vuoto e assente. Lo stesso silenzio di ieri.

Eppure il silenzio sembra più solido, come se ci fosse un rumore di fondo percepibile. Uno sferragliare lento e sordo. No, più leggero, come uno scuotere di ali. Di mille ali insieme.

Il cielo squarciato non è più vuoto. Ora è una distesa fittamente punteggiata di nero. Uccelli. Uccelli di tutte le forme e dimensioni volano in alto sulla mia testa. Sembra un’adunata ecumenica. O una fuga universale, che dà il capogiro. Legioni di rondini, falchi, allodole, pettirossi, colombi, poiane e altri strani uccelli. Grandi, piccoli, colorati, mai visti. Saettano e volteggiano in formazioni apparentemente ordinate per specie. Stormi militari di migliaia di volatili che sembrano attraversare il cielo tutti nella stessa direzione. Da occidente a oriente. Senza disegnare traiettorie, senza perdere tempo, tutti in fuga verso Est. In fuga dallo strappo nel cielo. Nel silenzio più incredibile. Nell’aria non si ode un richiamo, un suono. Solo un basso costante travaglio di ali in volo.

L’era del terrorismo globale e della grande migrazione si chiude inevitabilmente con l’esodo planetario. Il travaso di metà del pianeta nell’altra metà. Ancora ieri altri sbarchi e altri incidenti in tutto il Mare Mediterraneo e nel Mare Arabico. Mentre nel mare Indiano e nel Pacifico non si contano più i cadaveri. Altre centinaia, forse migliaia di morti negli scontri con le polizie e le milizie locali. Centosessanta morti, dicono, solo a Sharm El Sheik. Vecchi e bambini calpestati nella ressa o finiti a bastonate, quando una folla di profughi affamati, armati di canne di bambù, ha tentato di abbordare due navi da crociera ormeggiate nel porto.

L’ONU continua ad adottare raffiche di risoluzioni con le quali intima ai governi europei e americani di accogliere i sopravvissuti e i profughi del più grande tsunami che la storia ricordi. L’ONU intima e deplora ma non si risolve a muovere le sue chiappe internazionali per mobilitare finalmente i contingenti militari necessari per porre fine al massacro che sta assumendo le proporzioni di un genocidio.

E i governi dei paesi assediati inviano prima le milizie spontanee di sudditi armati e poi gli eserciti regolari per fermare sulle coste la carica degli orfani dell’Oceano Pacifico e dell’Oceano Indiano. L’onda anomala dei fratelli indonesiani e filippini, cinesi e indiani. Chi dovrebbe dare a questa marea di disperati un pezzo di pane e una bottiglia d’acqua, spedisce mercenari armati fino ai denti sulle spiagge di mezzo mondo per ributtarli in mare, ad affogare tra i loro fagotti di cenci.

Sono partito in auto e ho imboccato la strada che porta a Ferrazzano, in alta collina, a cinque chilometri dalla città. Lassù cometa nera sembra adagiarsi e strisciare sulle case e sui vicoli del paese. Devo andare in quella direzione e prima o poi incontrerò il grande strappo. Lo vedrò da vicino e poi potrò anche andare a schiantarmi contro un albero.

Il cielo si abbassa a toccarti una sola volta nella vita. L’ultima.

Quando raggiungo la piazza nella parte alta del paese, la ferita nera appare già più grande e minacciosa. Sembra muoversi, con le sue labbra azzurre lievemente livide. Tutte le case hanno le porte e i portoni sbarrati e le finestre aperte.

Non c’è nessuno per strada, solo uccelli nel cielo. Ho lasciato l’automobile in piazza, dietro un vecchio ristorante. Sto proseguendo a piedi sull’acciottolato umido. In cammino verso il taglio nel cielo. Sempre più grande davanti a me. La bocca dell’inferno che si apre in terra. Il buco nero che ingoia l’aria intorno con i miei pensieri.

Fa freddo ma non c’è un alito di vento. Su un lato della piazza, una strada in salita porta a un intrico di vicoli e viuzze. Il centro storico del paese.

Alla fine della strada, a destra, appena più in basso, c’è un vicolo minuscolo, con un passamano di ferro su una scala stretta di pietra. Una pietra sconnessa e con l’erba ancora verde nelle fessure. Ci sono i primi tre gradini e poi più niente. Tutto il resto manca.

Mancano gli altri gradini della scala e il resto del paese e del paesaggio. Semplicemente, il mondo finisce al terzo gradino. Le case, la collina, l’erba e la pietra, i colori e i suoni del mondo muoiono dentro il pozzo del cielo.

Sotto i miei piedi si estende l’abisso. Altissimo, senza fine nel fondo. Sterminato a destra e sinistra, per quanto i miei occhi paralizzati riescono a vedere. La fine del mondo è sotto le mie scarpe.

Quella che provo non è vertigine. Non esiste una vertigine così potente. È solo la perfetta attrazione per la fine perfetta. Per il compimento puro del nulla. Del vuoto. Un vuoto più antico di qualsiasi vita.

Se ora mi trovo in automobile, già fuori dal paese, è solo grazie al pensiero di Lara e di David. È successo qualcosa a David e Lara è disperata. Ma è ancora una disperazione di questo mondo, perché la fine del mondo sta succedendo solo a me.

Sono ancora fermo sul bordo della terra, in bilico sul nulla. Ma non sono salvo. Non c’è salvezza sotto questo cielo squarciato.

Nello specchietto retrovisore la ferita sembra allargarsi a vista d’occhio. Domani il vuoto ingoierà anche questa parte di mondo. Divorerà casa mia, la città e tutto il resto. Per questo sono scomparsi tutti? L’Intento o chi per Lui ha messo in atto una sorta di salvataggio preventivo? E allora perché tutti sono stati salvati tranne me?

Il sipario strappato in cielo ha rivelato l’oscurità sul palcoscenico in terra. E forse io mi trovo ancora qui perché da sempre la notte mi segue.

Muoiono come le mosche della quarta piaga dell’Esodo. Più ne muoiono, più ne arrivano. A sciami, come le cavallette dell’ottava piaga. I primi gruppi di cinesi sono già passati attraverso l’Iran e la Turchia, mentre gli indiani e i filippini stanno attraversando per la prima volta l’antica via della seta.

Presto migliaia di profughi dall’Oriente filtreranno anche nel nostro orizzonte cristiano -bancario, fatto di mutui perpetui e diritti a senso unico. Costellato da notti insonni e domeniche nei centri commerciali. L’orizzonte sempre più stretto dentro i muri di noi Europei, così diversi e litigiosi. Ma tutti con il coraggio del trekking e del fitness. E la paura della bomba in chiesa. L’orizzonte sempre più basso di noi Europei, così uniti e solidali nella convinzione che la democrazia è il modello di consumo ideale.

E proprio qui, in Europa, ancora una volta, i sopravvissuti si uniranno ai sommersi e ai salvati.

Piccole truppe guardinghe con gli occhi di Horus e di Śiva coloreranno le strade delle città. Si uniranno ai clan dei rifugiati africani, in fuga dalle guerre e dalle carestie. Vivranno fianco a fianco con le famiglie siriane e curde, scampate ai bombardamenti delle coalizioni intelligenti.

Guarderanno tutti insieme i nostri stessi programmi televisivi. Filmati a colori della mostruosa onda anomala di vecchi, donne e bambini, alieni infangati sparati dal vuoto catodico nelle nostre case di cemento armato di pan di zucchero.

Ma arriverà il giorno che i televisori si spegneranno e nessuno potrà più riaccenderli. Nessuno più guarderà gli sbarchi nei porti deserti e nelle città vuote.

Nessuno aspetterà più nessuno. Almeno su questa terra.

Ancora una volta alzo gli occhi doloranti al cielo. Il sole al tramonto e lo squarcio della volta celeste sembrano appartenere a due mondi diversi. Alieni l’uno all’altro.

Mi accorgo di colpo che non ci sono più uccelli. Il cielo è uno specchio incrinato dal silenzio.

Sono solo al mondo e la mia ombra si scioglierà nella notte.

Il mio petto si muove impercettibilmente. Non ho mai osservato il mio respiro così a lungo. La fame d’aria è il primo mistero con il quale deve fare i conti un corpo che viene al mondo per morire.

Se è vero che si vive e si muore nel punto dove confluiscono grandi misteri, questo mistero di un corpo solo al mondo è veramente l’ultimo.

Quello che ci vuole è un suicidio dispnoico. Smettere di respirare, finalmente. Ma prima devo scrivere. Devo fare testamento di tutto questo vuoto.

Forse è solo per questo che sono nato. Per raccontare la fine a un mondo che non c’è più.