Nel deserto di cemento ho visto il mio dio bruciava d’amore per gli uomini aveva perdonato i nostri peccati ma non i suoi

di Luigi Fabio Mastropietro

La tragedia detesta la politica. La tragedia detesta le buone intenzioni. Detesta tutto ciò che dimostra la soluzione di un problema. Detesta dunque l’industria del piacere, l’industria del tempo libero, l’industria dell’armonia e l’industria della riconciliazione. La tragedia è lo spettacolo del dolore reso squisito dall’arte (…) La tragedia è la sola a conoscere il segreto dell’esistenza. Questo segreto è che la vita non basta. E’ un segreto che non si può tollerare a lungo. E’ un segreto che si scopre soltanto in un luogo in cui l’obiettivo principale è il segreto stesso, un luogo che è l’apoteosi del segreto, in cui tutti coloro che si muovono ed agiscono sono consumati dal segreto. Questo luogo, è il teatro.

(Howard Barker, Arguments for a Theatre)

Mindfulness and Hate di Mari de Jesus Correa

Mindfulness and Hate di Mari de Jesus Correa

Forte e chiara, risuona nei nostri cuori la risonanza limbica del teatro della catastrofe. Il teatro scritto e immaginato da Howard Barker nasce dalla catastrofe del teatro che ha cantato la Swinging London. L’opera di Barker segna gli anni Settanta e Ottanta del secolo breve con una scia di sangue e di polvere. Innesca la violenza del teatro in-yer-face degli anni Novanta. Infiamma la mitologia suicida del teatro inglese degli anni Duemila. La sua letteratura drammatica nasce dalle ceneri della gloriosa tradizione della high comedy e della farsa, dalla contaminazione ossessiva e sofisticata di Tom Stoppard, dalla rivisitazione post-stalinista dell’epica di Bertold Brecht.

La carica eversiva delle sue pièces si afferma attraverso la progressiva radicalizzazione di una parola drammatica di straordinaria ricchezza figurativa e densità semantica. Una forma estrema e postrema di poesia, che altro non è se non la risonanza limbica che provoca l’evento catastrofico e irripetibile della messa in scena. La primordiale forma di comunicazione umana che precede l’espressione verbale e che dall’ippocampo torna a dominare l’arte ai tempi dell’estinzione.

I personaggi di Howard Barker vengono spesso congelati nel corso dell’azione scenica per rivelare a se stessi e al pubblico le intenzioni nascoste e le pulsioni inconfessabili del loro agire. Un comportamento che li conduce automaticamente e sincronicamente alla catastrofe.

Nella scrittura teatrale di Howard Barker non c’è fato, non c’è capro espiatorio, non c’è deus ex machina. Il riscatto dal male è sempre rigorosamente impossibile, anche quando il protagonista persegue il bene, come nel caso di Lucrezia, la pittrice veneziana di Scene da un’esecuzione. Il suo tentativo di addomesticare il potere con la verità dell’arte, naufraga miseramente nel narcisismo dell’artista. Non l’artista ma forse solo l’opera d’arte può proclamare la verità. Forse.

SCENE DA UN’ESTINZIONE

SCENA I:

(Il pubblico è sul palcoscenico, in piedi, le sagome appena rischiarate da una luce di emergenza gialla accesa in alto.

L’azione scenica si svolge in platea, tra le poltrone vuote.

Un faro di luce bianca illumina un vecchio al centro della platea.

Il vecchio è in piedi e indossa una tunica chiara.

Il vecchio parla a fatica.)

 

Siamo tutti ciechi,

i vivi e i morti,

invisibili a noi e a Dio.

Ingoiati dal gorgo del nostro terrore,

non sappiamo dove andare.

Se solo avessimo la grazia di una parola,

forse potremmo dare un nome

a tutto questo dolore.

Ma la nostra lingua è di sabbia

e le orecchie si sono chiuse come cicatrici.

A Babele segniamo le cose con il vento.

Le nostre case e le case degli altri

sono il teatro dell’estinzione.

(Buio)

 

SCENA II:

(La platea vuota è illuminata a giorno dalla luce di potenti neon.

La luce, bianca e fredda, richiama l’ambiente di una sala operatoria o di una cella frigorifera.

In platea ci sono due donne.

La prima, M, più anziana, vestita di grigio e con i capelli raccolti dietro la nuca.

La seconda, F, più giovane, vestita di rosso e con i capelli rasati a zero.

Entrambe scalze, in piedi rivolte verso il pubblico sul palcoscenico.

M indietro di qualche passo alle spalle di F.

F parla guardando avanti verso il pubblico, come se non vedesse M.

M parla rivolgendosi a F, ma resta sempre un paio di passi dietro di lei.

Il dialogo si svolge su un rumore di fondo costante, il ronzio basso e profondo del motore di una macchina industriale in funzione.)

F. Domani verranno e mi porteranno via

M. Come?

F. Verranno domani

M. Nessuno deve venire domani

F. Me l’hanno promesso

M. Né domani né un altro giorno

F. Ti prendono e ti portano in un ospedale dove tutto affonda nella luce bianca e non senti i passi di chi sta arrivando

M. Tu parli di cose che non esistono

F. Ti mettono in una stanza bianca con il letto bianco e il neon bianco e un crocifisso che striscia sul muro e devi respirare ad occhi chiusi tutto il tempo per difenderti dalla luce fino a quando senti lo strappo e cominci a vedere il tuo corpo sparso da qualche parte mentre lo fissano e lo assaggiano e storcono gli occhi senza parlare e a te non te ne importa più niente e vorresti solo dormire senza essere risvegliata

M. Sai bene che non ci tornerai

F. I peggiori sono quelli che fanno finta di interessarsi a te al caso umano e ti parlano di terapie e programmi e ti dicono che devi riprenderti il tuo spazio che devi pianificare il tuo tempo c’è tanta di quella bellezza nel mondo che ti sfiorano le mani con gli occhi vuoti mentre pensano a come possono entrare dentro le mutande dell’infermiera del turno di notte

M. Hanno cercato di aiutarti

F. Ti sbavano sull’anima e non sanno niente di te

M. Non sono tutti uguali

F. Tu non hai più niente dentro e loro ti chiedono di guardarti dentro

M. Non è vero che sei vuota

F. Non hai più sangue non hai più parole non hai più una voglia e loro ti regalano una parola buona per tutti

M. Se condividi il problema con gli altri soffri di meno

F. Ti sorridono mentre ti guardano crepare

M. Mi stai facendo male

F. Ti fanno partecipare a quelle riunioni del cazzo dove ti interrogano continuamente su cose che già sanno e ti guardano come se fossi sempre nuda con quelle facce di plastica a scrivere cose illeggibili sulle loro schede di plastica ti dicono quello che è bene e quello che è male grammo più grammo meno

M. Io sono vicina a te e lo sarò sempre

F. Vai in terapia e tutto il mondo diventa una grande famiglia ti sorridono tutti fino a quando sei dentro sono tutti al sicuro da te che potresti rovinargli la festa

M. Lo sai che ti voglio bene

F. Poi un bel giorno ti svegli e non senti più i suoni niente più voci niente rumori quelli entrano nella tua camera e muovono le bocche come pesci che respirano sott’acqua e tu capisci che sei fottuta

M. Io ti ho partorito e so quello che provi

F. Sei fottuta per sempre e ti restano solo i lacci delle scarpe da ginnastica per impiccarti in bagno

M. Non dire così mi stai uccidendo io darei la mia vita per te

F. Non si è mai abbastanza al sicuro da chi ti ama

(Buio)

 

SCENA III:

(La platea vuota è tagliata dal fascio roteante di luce di un faro di controllo militare.

In platea ci sono due uomini e una donna in piedi.

Parlano rivolgendosi al pubblico sul palcoscenico.

Mentre le due voci fuori campo parlano, i tre personaggi restano immobili come statue di sale.)

 

Voce narrante femminile

I tuareg dicono che le persone muoiono nel deserto di Tenerè perché sono rapiti dal mescebed, una lunga traccia bianca che porta al nulla. I corpi delle persone che muoiono di sete e di fame in questo sconfinato mare giallo restano a seccare al sole per mesi o per anni. Fino a quando il sangue e le ossa si sciolgono nella sabbia. Per questo i tuareg del Niger dicono che il deserto parla la lingua terribile dei ginn, gli spiriti del nulla.

I morti di Tenerè sono uomini, donne e bambini africani in fuga da guerre e carneficine tribali, da fame ed epidemie. Hanno risalito il Tenerè e il Sahara, attraverso il Niger, l’Algeria e la Libia, fino a Lampedusa e Trapani e poi sono stati rimpatriati a Tripoli dalle autorità italiane.

Voce narrante maschile

Il 25 agosto 2004 il governo italiano e quello libico hanno firmato un patto per fermare l’immigrazione clandestina verso l’Italia e l’Europa. Da quel giorno Gheddafi ha catturato e mandato a morte nel deserto migliaia di persone. La mattanza continua oggi nella Libia del dopo- Gheddafi. Una terra spaccata in due e insanguinata dalla guerra civile e dalla guerriglia jihadista. Non esistono ad oggi stime precise dei morti. A parte poche ONG, non interessa a nessuno.

Queste donne e questi bambini attraversano l’inferno per due volte, spesso muoiono nel tentativo di uscirne. Ma sono africani, non europei. Niente diretta televisiva per loro. Niente interviste per documentare l’eroica impresa. Solo la sprezzante retorica dei politici e la pelosa attenzione dei media. Resta la conta svogliata e raggelante degli studiosi di statistica. Quelli che da sempre programmano i numeri della morte. Con i loro numeri non uccidono persone, fanno di più. Uccidono la morte, svuotandola di senso. La uccidono con i loro numeri sui giornali.

I numeri non si ribellano, non urlano nell’agonia, non perdono sangue né pus dalle ferite, non puzzano dopo morti. Non macchiano lo sterilizzato orizzonte di charity domestica delle first lady occidentali. Soprattutto durante i party di beneficenza per l’Africa.

Gli statistici occidentali, tecnocrati del lutto, con i loro giocattoli parlamentari producono grafici e diagrammi. Grafici e diagrammi contengono il mondo dentro muri e sbarramenti. Decidono le quote di chi deve vivere e di chi deve morire. Non per la prima volta, né per l’ultima. L’Olocausto, del resto, fu pianificato dai migliori cervelli matematici del Reich.

Voce narrante femminile

L’Europa non esiste. È solo la velenosa chimera di una congerie di popoli, molti dei quali nati nomadi. Nati per fuggire da qualcosa e viaggiare alla ricerca di qualcos’altro.

Il viaggio comincia ad Arlit, nel deserto del Niger. Prima del 2004, la rotta dei trafficanti di clandestini passava più ad Est, attraverso l’oasi di Agadez. Ora, la tradizionale pista verso il Mediterraneo, da Agadez fino ad Al Gatrun in Libia, è percorsa nel senso inverso dai camion di immigrati espulsi dai governi tribali di Tripoli e di Tobruk. La nuova pista che attraversa il Sahara è lunga e pericolosa e i costi per arrivare fino a Ghat, la città libica delle dune rosse, sono triplicati dal 2011. Da settanta a trecento euro a persona.

Quasi ogni giorno dell’anno, due camion e qualche piccolo fuoristrada partono da Arlit, il villaggio nigerino delle miniere di uranio. I “passatori” incassano i soldi e caricano su ogni camion fino a duecento persone, appollaiati in cima ad una montagna spettacolare di pacchi e masserizie. Fin dall’inizio il viaggio si rivela precario e pericoloso. Chi si addormenta, rischia di cadere e spaccarsi l’osso del collo.

Dopo il pozzo di Azaoua, nei pressi del villaggio di Djanet, si scende dai camion e si prosegue a piedi per scavalcare le montagne del Tassili n’Ajjer e poi scendere a Ghat. Spesso i trafficanti abbandonano i loro clienti in mezzo alle rocce e senza una goccia d’acqua. Allora bisogna raggiungere a piedi la spiaggia di Al Zuara e bisogna essere robusti e astuti per evitare le retate dei gendarmi libici. Bisogna nascondersi di giorno e camminare di notte, confidando nella fortuna. Ma spesso, nel silenzio della notte, si è traditi dal pianto dei figli piccoli e allora si va dentro, nel campo di detenzione di Al Gatrun.

 

Un passatore

Io sono di Nalut e faccio questo mestiere da quattro anni. Per comprarmi questo vecchio camion ho dovuto rubare e rivendere sette cammelli. Una notte, un carovaniere mi ha sparato alla gamba, per questo sono diventato zoppo. Io e il mio autista, Sayed, conosciamo il deserto palmo a palmo. Porto in Libia i clandestini che vogliono partire e riporto in Ciad e Nigeria quelli che cacciano dalla Libia. Finché c’è fame, per me ci sarà sempre da mangiare, che Allah mi aiuti.

 

Voce narrante maschile

Le retate e le deportazioni di massa dalla Libia nel deserto non hanno fermato la voglia di fuggire dall’Africa, hanno solo reso più pericoloso il viaggio. Una partita a scacchi con Tin Hinan, la regina del deserto. Una partita che si fa disperata per chi è rimpatriato o catturato in Libia come clandestino.

Negli anni dell’embargo occidentale, Gheddafi aveva invitato a lavorare in Libia due milioni di stranieri subsahariani dal Senegal, dalla Nigeria, dal Mali, dal Camerun. Si era autoproclamato il leader del continente. Il padre dell’Africa. Ora la stagione panafricana è finita. Prima di cadere ed essere linciato, il Colonnello era già diventato in Africa il nuovo alleato segreto dell’Occidente. E bisognava accontentare l’Europa. Bisognava fare piazza pulita di tutti i clandestini, rimpatriati o residenti.

Oggi, nella bolgia libica del dopo-Gheddafi, le retate a Tripoli scattano all’alba. I gendarmi sfondano le porte delle case e deportano tutti gli stranieri ad Al Gatrun, quattro muri di argilla e un rotolo di filo spinato sotto il sole del Sahara. A migliaia sono buttati nel deserto, nelle mani di trafficanti e predoni, per essere ricacciarli nei paesi d’origine.

 

La volontaria di una ONG

Tre giorni fa eravamo in viaggio per Agadez, con un carico di medicinali. A più di cento miglia dall’oasi di Tajarhi, abbiamo avvistato davanti al nostro convoglio, alcune figure coperte di stracci che si trascinavano nei solchi scavati dai pneumatici sulla pista. Erano diciannove in tutto. Uomini e donne immigrati dal Niger, dal Togo e dal Benin. Scheletri ambulanti, completamente disidrati e prossimi alla fine. Erano in marcia da una settimana, mangiando le loro feci e bevendo la loro urina per sopravvivere. Un mese prima, si erano pagati il viaggio di ritorno su un furgone per non finire nel campo di detenzione di Al Gatrun. Dopo due giorni di viaggio, i due autisti, un libico e un sudanese, li avevano scaricati in pieno deserto ed erano fuggiti con i loro bagagli, i soldi e l’acqua.

 

Voce narrante femminile

Sulla rotta di deportazione nel Sahara c’è Madama, un vecchio fortino della legione francese. Nel fortino c’è anche un pozzo, l’unico nel raggio di duecento miglia. Ora è l’avamposto dell’esercito del Niger, sperduto in una terra di nessuno attraversata da banditi, trafficanti d’armi ed ex guerriglieri algerini.

Bloccati sotto il sole ruggente, sulla sabbia rossa, una decina di camion attendono il via libera dei militari per ripartire verso sud. All’ombra delle ruote, raggomitolati in mucchi variopinti, ci sono più di mille persone. Oggi è una mezza festa perché i militari chiedono solo mille franchi a testa per passare. Chi è senza soldi resta a lavorare gratuitamente al fortino. A Madama, a pochi metri dal filo spinato e dai bidoni vuoti che segnano il posto di blocco, dietro un cespuglio di tamerici, i soldati hanno sepolto Magobrì, un ragazzo ghanese di 20 anni.

 

Un clandestino

Quella notte faceva molto freddo anche nel fortino. Stavo dormendo sotto il telo di un camion, quando ho sentito abbaiare e ringhiare i cani del deserto. Quel ragazzo del Ghana era appena arrivato dalla Libia. Forse si era allontanato dai camion per orinare. L’ho sentito urlare e alla luce della luna l’ho visto correre oltre la barriera. A un certo punto è caduto e sentivo ancora i cani ringhiare. Poi non ho visto più niente. Nel deserto, vicino ai pozzi, arrivano spesso branchi di cani selvatici, veloci come la fame. Io e gli altri abbiamo cercato di soccorrere quel poveraccio, ma era già morto.

I cani gli avevano mangiato la gola e le gambe.

 

(I due uomini e la donna escono dal teatro. Buio.)

 

SCENA IV:

(La platea è vuota e al buio.

Il pubblico è ancora in piedi sul palcoscenico, sotto la luce gialla.

Due attori stendono intorno al pubblico un rotolo di filo spinato.

Quando tutto il pubblico è stato rinchiuso nel filo spinato, le voci fuori campo iniziano a parlare.)

 

Voce maschile

Nel deserto di cemento ho visto il mio dio

bruciava d’amore per gli uomini

aveva perdonato i nostri peccati

ma non i suoi

 

Piangendo mi ha baciato gli occhi

perché non guardassi il mio futuro

ho avuto paura di lui

di quello che poteva fare della mia vita

e sono fuggito dal suo fiato di animale stanco

 

Dopo averlo incontrato nella discarica del mondo

i miei occhi non vedono più

ma continuo a correre sulle strade allagate

senza fermarmi

dall’alba al tramonto

perché la luce è dentro il pozzo

e il mio cuore mi ha lasciato solo

Ora lo sento correre dietro di me

sbuffare fuoco e fiamme alle mie spalle

il mio dio cerca la luce fuori dal pozzo

ma il suo cuore l’ha lasciato solo

 

Voce femminile

Dopo la resa del sangue alla notte

la città in macerie apre le braccia

nel cavo delle mani dischiuse

la polvere delle case vuote

agli incroci del destino

i morti senza sonno cantano inni

e tutto cade

come chiodi dalla croce

 

È tardi per il perdono

sta divampando la preghiera dei senza cuore

la cenere congela la risacca delle strade

nel piombo del risveglio

domani il mare ammainerà le sue vele assordanti

sugli ebbri di fiele

e scompariremo tutti senza un lamento

(La luce gialla si spegne. Buio, silenzio.)