Le scarnificate parole di Fontamara si sono trasmutate in immagine con una scioltezza sorprendente: forma e contenuto, nel loro perfetto dosaggio, sono state trasferite, quasi per una medianica empatia, dallo scrittore ai “lettori in erba”
di Antonio Gasbarrini
Più di una volta lasciando vagare lo sguardo in quell’immensa tavola di “terra fucense” strappata alle acque ed ai “Torlognes”, mi sono chiesto quante altre versioni di Fontamara, oltre a quelle note, saranno passate per la testa dello scrittore Ignazio Silone. Poco, quasi niente si è potuto leggere dal suo volto enigmatico. Appena sfiorato da una tenue luce rischiarante le tante, troppe ombre delle cocenti amarezze e delle incomprensioni: ideologiche, letterarie ed esistenziali (i tre “casi Silone”). In chiara evidenza, invece, i tagli indelebili di rughe in diagonale, fendenti ai margini lo sguardo fuggente d’occhi sprofondati nella sua irrequieta anima, plasmata da lotte declinate sempre al plurale. Per inseguire senza tregua le sue «verità pazze».
Non so immaginare come avrebbe reagito al denigratorio identikit biografico ricostruito quasi di sana pianta dagli storici Dario Biocca e Mauro Canali a partire dalla metà degli anni Novanta: una incallita spia doppiogiochista inizialmente al servizio d’un oscuro questurino romano (il Commissario di Polizia Guido Bellone) mentre ricopriva incarichi politici sempre più impegnativi ai vertici della Gioventù del Partito Socialista prima e del PCd’I poi (1919-1930); delle forze anglo-americane (1942-1944) e della stessa CIA (1954-1968). Molto probabilmente serrandosi ancora di più nel suo ostinato, e per certi versi, autistico silenzio.
Anche per rispondere a suo modo al tremendo J’Accuse!!! dei due storici, avrebbe forse messo nuovamente mano alla riscrittura di Fontamara ricominciando tutto daccapo. Magari, dall’ultimo periodo: «Dopo tante pene e tanti lutti, tante piaghe, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione, che fare?».
E l’ululato d’un vento vagabondo, senza meta e senza direzione prefissate, gli avrebbe restituito amplificato quell’urlo (un catartico urlo) di asini e cafoni, o meglio dei cafoni-bestia. Che fare? Che fare? Che fare?
È forse inutile sottolinearlo. Eppure quell’irrisolto punto interrogativo martella ancora questi nostri giorni indecisi, confusi, esistenzialmente svuotati, privati come sono del senso ultimo della vita da un parassitario neocapitalismo finanziario draculiano: succhiare fino all’ultima goccia il sangue dei diseredati a qualunque latitudine appartengano! Questa la nuova parola d’ordine lanciata dall’1% degli avidi “umanoidi” che detiene il 99% delle risorse planetarie (ce l’hanno recentemente insegnato gli indignati di Occupy Wall Street).
Le nefaste conseguenze della “Banca strozzina” erano ben conosciute dai fontamaresi: la figura fascistizzata dell’Impresario accaparratore ne è stata una felice versione letteraria.
Fa sempre rabbia la persistente impotenza d’un amore solidale verso gli umili e gli offesi, così strenuamente condiviso per tutta la sua vita da Ignazio Silone. La pervicace negazione di quell’amore inadatto a far sobbalzare cuori pietrificati, a ridimensionare l’invito cristiano a porgere l’altra guancia per le “grandi ingiustizie” ed i “piccoli torti” subiti o ad accontentarsi degli avanzi del ricco Epulone: la risposta all’insegnamento della fraternità socialista e della carità cristiana – sentimenti praticati dallo scrittore abruzzese fino all’ultimo giorno della sua pauperistica, francescana esistenza – è allora la morsa distruttrice della violenza per la violenza?
Storicamente vincente negli anni della militanza rivoluzionaria del “compagno Pasquini” era la sola lotta di classe, coniugabile ora, dopo l’avanguardistica rivolta dei fontamaresi, con le democratizzanti manifestazioni antipotere degli indignados.
Esiste, e mai come oggi, nella società globalizzata nelle rendite finanziarie e nel contraltare della miseria diffusa, un diritto naturale dell’uomo alla rivolta (Marcuse) che non può essere confuso con il terrorismo spicciolo di mercenari ciecamente ideologizzati. All’odierna rivolta di popoli su popoli in ebollizione su scala planetaria, non è più sufficiente scrivere a mano – così come hanno realmente fatto gli scolari d’una quinta elementare a Pescina nel 1975 – Il giornale dei cafoni di Fontamara. Occorre, e sempre più sarà necessario nella rivoluzionaria era digitale battezzata con il sangue della “Primavera araba”, fare “rete antagonista” sui social network. La rivolta è stata sempre figlia della Resistenza con la R maiuscola: ideale, etica e culturale. Digitale negli anni Duemila.
Il fischio prolungato, deciso e chiaro dell’Ignazio Silone giornalista e saggista negli anni Venti del Novecento, ha richiamato compagni su compagni alla clandestinità, all’esilio ed alla macchia. Convincevano, nell’abbracciare il credo della lotta ad oltranza contro il fascismo – nei tempi d’oro della militanza classista e dell’avversione gramsciana verso gli indifferenti – una pacca sulla spalla ed una stretta di mano. Cambiando poi mille e mille volte nome, tanto da dimenticare il proprio.
Però, non quello del Silvestri-delatore (del solo “commendator Bellone”, come attenuante dell’accusa), codice 73, così ben identificato da Mauro Canali rovistando nei faldoni della Polizia politica.
A conti fatti, ricominciare a scrivere Fontamara per un astuto spione di primo pelo, dev’essere più lacerante de La pena del ritorno e assai diverso dalle motivazioni addotte per la sua seconda stesura: «Allorché, dunque, alcuni anni più tardi potei tornare nel mio Paese e dovetti occuparmi della prima stampa di Fontamara presso un editore italiano, non fu poca la sorpresa nel rileggerne il testo. Contrariamente a quello che si può credere, il mio imbarazzo non nasceva affatto da un confronto tra il libro e la realtà che avevo davanti ai miei occhi, ma tra il racconto del 1930 e gli sviluppi che esso aveva subito in me, durante tutti quegli anni in cui avevo continuato a viverci dentro. Per riprendere l’immagine del pittore avevo continuato a viverci dentro, ridipinsi il quadro da cima a fondo, utilizzando la vecchia tela e cornice».
A via di passare nuovo colore sulla vecchia tela, le immagini hanno dovuto faticare, e molto, per riaffiorare con l’indispensabile energia da una materia sporca («insozzata» avrebbe scritto Silone), sempre più impura ed inadatta ad esprimere la semplicità e la naturalezza dei blu di un cielo, dei verdi di un prato, dei bianchi di una nevicata.
Il confronto tra il libro e la realtà che lo scrittore avrebbe davanti a sé, in una società finanziaria globalizzata governata istante per istante dai grafici delle quotazioni borsistiche e del terrorismo psicologico dello spread straveicolato dai massmedia, s’impone più che mai, invece, nei nostri calanti giorni di albe già sfatte: per dare nuovo slancio al Che fare? Ebbene: come?
Forse sparando come ha affermato il brigatista F. rivolgendosi negli anni di piombo al Pubblico Ministero con le parole: «Io non ce l’ho con lei, ce l’ho con la sua toga. Se io sparo sulla toga e dentro c’è un uomo mi dispiace, ma non posso farci niente. Oppure può darsi che dentro ci sia un manichino. Che ne so. È la funzione che vogliamo eliminare. Lei non è un uomo, è un giudice». Eppure gli uomini non sono esseri astratti, o semplicemente pensati, o ancora manichini casualmente modellati con la carne sulle ossa.
Che cosa può legare il giornale autografo dei fontamaresi recante a tutto titolo la scritta
VIVA BERARDO VIOLA
ai laconici comunicati dei terroristi tipo BR marchiati con il sangue di innocenti assassinati dalla stella a cinque punte e titolati burocraticamente Messaggio N. 1, N. 2, N. 3…N. ∞ ?
Slides (Il giornale “Che fare?”, l’incontro con Ignazio Silone e le illustrazioni per il romanzo Fontamara)
Di converso il duplice alias siloniano Berardo Viola (all’un tempo personaggio gianico del fratello Romoletto morto nelle carceri fasciste a seguito delle sevizie subite, e, di Secondino) non aveva tradito la sua irreversibile scelta rivoluzionaria: donando innanzitutto la propria vita. Se io tradisco, diceva Berardo, «la dannazione di Fontamara sarà eterna. Se io tradisco passeranno ancora centinaia d’anni prima che una simile occasione si ripresenti. E se io muoio? Sarò il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri». Per gli altri.
Limitiamoci a ricordare chi erano i fontamaresi: «[…] I contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame; i fellah i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici […]»; com’era ritmato il loro calendario esistenziale: «[…] Prima veniva la semina, poi l’insolfatura, poi la mietitura, poi la vendemmia. E poi? Poi da capo. La semina, la sarchiatura, la potatura, l’insolfatura, la mietitura, la vendemmia. Sempre la stessa canzone, lo stesso ritornello. Sempre. Gli anni passavano, gli anni si accumulavano, i giovani diventavano vecchi, i vecchi morivano, e si seminava, si sarchiava, si insolfava, si mieteva, si vendemmiava. E poi ancora? Di nuova da capo. Ogni anno come l’anno precedente, ogni stagione come la stagione precedente. Ogni generazione come la generazione precedente. Nessuno a Fontamara ha mai pensato che quell’antico modo di vivere potesse cambiare […]»; quali erano i rapporti di classe: «[…] In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito […]».
Una nenia, questa, appena sussurrata, ritmicamente cadenzata come un rosario nelle spinose pagine siloniane. Struggente e drammatica. A distanza di oltre 16 lustri da quando sono state scritte (1930 ca.) che cosa è stato effettivamente tolto dalle spalle dei cafoni fontamaresi, ancor oggi incurvate da stratificate nubi che infreddoliti raggi di un sole di plastica (benessere materiale e materialistico promesso, ma in via di totale evaporazione) e soffi di un vento traditore (riforma fondiaria), non sono a riuscite a raddrizzarsi una volta per tutte?
Solo un’accresciuta coscienza collettiva di un idem sentire potrà rimediare ai rivoltanti, mefitici conati dell’ingiustizia eletta a dogma dal neo-capitalismo finanziario globalizzato. Idem sentire interconnesso alla democratizzazione dei saperi e non già ad una superficiale, generica, orecchiata acculturazione massmediatica così come sta avvenendo in ogni angolo della terra. La Cultura qui evocata (con la C maiuscola) sorpasserà i carcerari ghetti della fame e della povertà in cui sono stati confinati i cafoni fontamaresi e gli emarginati di ogni tempo e luogo, con l’ausilio determinante della creatività (battistrada la sessantottina “Immaginazione al potere”, le cui eco confluiranno nel romanzo incompiuto di Severina) e dell’arte. Fontamara è stato un vero e proprio incunabolo in tal senso.
Così il messaggio umano, “tremendamente umano” (direbbe Nietzsche) irraggiato da ogni pagina dello scrittore abruzzese, continua a rimbalzare da un continente all’altro, mischiando, meticciando – nelle traduzioni che si sono succedute – lo scarno idioma originale a quello di lingue lontane, apparentemente incomprensibili, eppure esistenzialmente così identiche! Anche la lingua dei fontamaresi sembrava aliena, tanto che il manoscritto dell’esiliato Silone non riusciva a vedere la luce, bollato com’era da un Salvemini il quale nel ’31 scriveva: «[…] Tradurlo mi pare impossibile. È stato già necessario tradurre i fatti in italiano [sic!] Come ritradurli dall’italiano in francese ed in inglese? Il racconto è così aderente ai fatti, e i fatti sono così lontani dall’esperienza di chi non è italiano, e anche di molti italiani, che una traduzione è impossibile. Come tradurre ad esempio i nomi e i soprannomi? […]».
Chissà come sarà stata tradotta la sfilza di nomi e soprannomi quali il Cavalier Pelino, Michele Zompa, l’Impresario, Don Carlo Magna, Don Abbacchio, Don Ciccone, Don Achille Pazienza, Don Circostanza, Baldissera, Innocenzo La Legge, Giovanni e Pilato, Maria Rosa, San Giuseppe da Copertino, Marietta Sorcanera, Elvira, Sconosciuto, Maddalena, Limona, Maria Grazia, Filippo il Bello, Scarpone, Teofilo … in lingua tedesca (1933); in quelle inglese, olandese, fiamminga, ceca, polacca, portoghese, argentina (1934); o, ancora, paraguayana, cilena, danese, norvegese, svedese, finlandese, croata, romena, ungherese e russa (1935); esperanto (1939); indiana (1950); slovena e giapponese (1952); greca (1957); bengalese, turca e libanese (1965); catalana (1967); afrikaanese (1968) …
Nomi e soprannomi volati in tal modo sulle innevate altitudini del Machu Picchu, riflessi tra le acque purificatrici del Gange, ritmati dai rulli di tamburo di un’Africa sempre meno nera.
Fontamara, però, quasi mai è potuta diventare parola visiva (o meglio immagine concreta, a parte le poche illustrazioni xilografiche di Clement Moreau, pseudonimo di Carl Meffert, presenti nella prima edizione tedesca o nelle tante, preziose illustrazioni di copertina) per l’analfabeta – il lebbroso della cultura ufficiale –, per chi con il suo segno di croce autocertifica simbolicamente la morte civile sul Golgota del posto di lavoro, della famiglia, della società in senso lato.
Proprio per rimediare a questa mutilazione del messaggio di riscatto contenuto in Fontamara (da leggere tutto d’un fiato, con la stessa naturalezza con cui gli uccelli sanno trovare l’itinerario giusto nell’aria, le piante nella luce e i pesci negli oceani) che si è tentato di documentare l’esperienza vissuta dai figli dei figli dei Fontamaresi in una scarna aula di una quinta elementare di Pescina dei Marsi (Fontamara, cioè), raccogliendo i loro disegni, foto e testimonianze riportate in questo volume.
Che l’arte non sia quella ingabbiata nei musei o nelle biblioteche è cosa risaputa; che i bambini possano essere i naturali destinatari della stessa, o meglio, i soggetti ricettivi più autentici e gli interlocutori più sensibili, è meno pacifico.
Il bambino è per sua intima essenza creativo nella libertà, quindi essere attivo impregnato di una potenziale artisticità. Crescendo, tale predisposizione naturale viene contaminata, corrotta dai simulacri imposti dagli adulti sul binario morto del gusto estetico. Il sistema culturale capitalistico tende poi a far identificare l’atto creativo con l’oggetto creato e a dotare quest’ultimo di quei valori e attributi esemplificabili nella contrapposizione antinomica bello/brutto. Gran parte dell’arte moderna visiva è protesa a cancellare quegli oggetti elevati al rango di opera d’arte, sottraendo alla vorace domanda del mercato ciò che non può essere venduto: dalla performance all’happening ed all’Arte concettuale.
Ho vissuto giorno per giorno – dall’esterno – l’esperienza di Gentile e dei suoi alunni, sollecitando in illo tempore uno sbocco editoriale, con il coinvolgimento (nella “riscritturazione visiva”) di Fontamara, dell’artista abruzzese Federico Gismondi (si veda oltre).
A dirla in fondo proprio tutta, non ero stato attratto dalla polimorfica metodologia seguita da Gentile nel “far trascorrere culturalmente” un intero anno scolastico con un testo che, sappiamo tutti, non è nato con quelle finalità (pure essendo così radicato nella realtà sociale in cui è andata ad “agire” la sua lettura). A sollecitare il mio interesse è stata, invece, la corale ricerca interdisciplinare condotta in vitro nel «paesaggio dell’anima» (nella Pescina-Fontamara, cioè).
Ed è stato inoltre il mio interesse specifico nel settore delle arti visive, a farmi privilegiare un momento, forse nemmeno tanto importante, d’un lavoro poliedrico che ha registrato in questa innovativa attività didattica partecipata, la nascita di immagini (fotografie, foto, giornale) veramente “azzeccate” per una più pertinente comprensione di Fontamara.
Già! L’importanza delle immagini nella comunicazione, non solo simbolica, degli umani. Sollecitato da spinte magiche ed esorcizzanti, l’uomo primitivo aveva la necessità di tracciare le sue icone sulla roccia. L’uomo moderno si avvale del linguaggio, nella sua più larga accezione, per conoscere e farsi riconoscere: per comunicare idee e valori, utopie e dubbi.
E, la scelta d’una narrazione semplice, piana, comprensibile al massimo, effettuata per tutta la vita dallo scrittore Silone, deriva da questa esigenza d’interloquire in primo luogo con chi non è dotato di un bagaglio culturale adeguato alla comprensione delle “interne vibrazioni” crociane. Non a caso con il rinnegamento del “bello scrivere” sin dagli esordi fontamaresi.
La palesabile ambizione di questo libro, è tesa a conseguire un’ulteriore esemplificazione del testo originario. Ri/narrato, o meglio, decodificato dagli scolari di Fontamara. Da qui l’auspicio di una lettura ancora più fluida.
Certamente né Salvemini, né tanto meno lo stesso Silone (prima di averli incontrati nella sua casa romana), avrebbero potuto mai pensare che ragazzi d’una quinta elementare sarebbero intervenuti in prima persona su Fontamara per indagare la realtà sociale narrata, per verificare da vicino nomi, fatti e luoghi. Per contrapporre il reale all’immaginario? No! Come si è avuto modo di constatare sfogliando sino a qui le pagine del “loro” libro, urgeva dare forma, consistenza alla piatta linearità dei caratteri tipografici, toccando con mano tutta la “terrestrità” del topos trasfigurato. Discutendo inoltre dal vivo della povertà e delle violenze subite dagli avi cafoni.
Per i benpensanti può suonare scandalo aver insegnato la geografia senza nomi di capitali, ma facendo ricerche sul fiume Giovenco e su Pescina; la storia senza re, date e ministri, ma spiegando che Secondino Tranquilli compare per la prima volta nel 1923 – mentre era rinchiuso nel carcere di Barcellona – sul settimanale locale “La Batalla” con lo pseudonimo di Silone (Quintus Pompædius Silo nato a Marruvium) fiero condottiero di marsicani che si oppongono alla colonizzazione di Roma imperiale, e via dicendo.
Eppure proprio i bambini sono i primi a sperimentare sulla loro pelle abusi e prevaricazioni; a soffrire dell’ipocrisia di chi li circonda; a scappare, appena possono, da un mondo finto, allucinante, così apparentemente serio, del tutto incompatibile con il gioco e la fantasia, il sorriso ed i perché.
L’aquilone è il sogno proibito. Si tifa per un’impennata che trascini in alto, sempre più in alto, a costo di perderlo per sempre. Solo in tal modo si potrà nuotare in compagnia delle nuvole, arrampicarsi, oppure far lo scivolo sulla costa d’un arcobaleno.
Può spiegarsi alla luce di questi spunti la partecipazione emotivo-razionale ad una lettura corale d’una favola amara che al “vissero felici e contenti” sostituisce il “che fare?”.
Sarebbe interessante sentire su questo argomento Roland Barthes il quale nel suo Il piacere del testo ha spaziato in modo convincente in lungo e in largo affermando: «Il testo che scrivi deve darmi la prova di desiderarmi. Questa prova esiste: è la scrittura. La scrittura è questo: la scienza dei godimenti del linguaggio, il suo Kàmasutra (di questa scienza non c’è che un trattato: la scrittura stessa)». Il godimento o il piacere degli scolari di Pescina va però cercato ben oltre la definizione data sull’argomento dallo stesso Barthes: «Testo di piacere, quello che soddisfa, appaga, dà euforia; quello che viene dalla cultura, non rompe con essa, è legato a una pratica confortevole della lettura. Testo di godimento: quello che mette in stato di perdita. Quello che sconforta, forse fino ad un certo stato di noia), fa vacillare le assise storiche, culturali, psicologiche del lettore, la consistenza dei suoi gusti, dei suoi valori e dei suoi ricordi, mette in crisi il suo rapporto con il linguaggio».
Ed il rapporto del bambino con il testo, il suo crescere e formarsi con “quel” testo, superandolo, come va esaminato? O a che età si è adulti? Le favole sono testo in senso barthesiano? Quand’è che un bambino può chiedersi perché i grandi fanno le guerre, com’è che alcuni vivono in baracche ed altri in ville, dove sta scritto che ci si può accontentare d’una pozzanghera per far navigare una barchetta di carta? Nei loro limpidi occhi c’è tanto posto per la luce, la verità, la giustizia di classe, la fratellanza, la carità cristiana ed altri paroloni simili inventati da etiche e filosofie.
Un intero anno scolastico trascorso con un libro arrivato alle vacanze malconcio, sgualcito, con qualche pagina strappata: un autentico compagno di banco, un primo della classe generoso, aperto, che riesce a seminare più di quanto non possa fare il maestro Gentile. Una rivincita in piena regola sull’uso classista della cultura. Un libro andato in giro con gli scolari mentre scattavano foto, facevano disegni o interviste ai compaesani fontamaresi: «[…] Al tempo dei fascisti, qualcuno è stato fucilato a Fontamara? […] Come fu distrutta Fontamara? […] Nel libro di Fontamara ci sono stati tutti questi personaggi che hanno nomi strani. Vivono ancora persone che hanno questi nomi, per esempio: Innocenzo La Legge, Losurdo, Ranocchia, Sciarappa, Venerdì Santo, Ciro Zironda… don Carlo Magna? […]».
La «baracca attorniata da stalle di asini e da porcili, nel quartiere più sudicio del paese» dove si tenevano le riunioni della lega dei contadini poveri di Fontamara aveva già visto il libro protagonista dell’emancipazione e del riscatto. In un’assemblea che si svolgeva nel cortile di un antico convento francescano, s’intrufola il piccolo Silone con libri sotto il braccio.
«Tu che fai qui?» m’interpellò con voce minacciosa un contadino. «Forse anche tu vai a zappare la terra?». «No» gli risposi. «Per ora studio» e gli mostrai alcuni libri che portavo sotto il braccio. Un vecchio che conoscevo di vista intervenne a mio favore e mi pose una mano sulla spalla in segno di protezione. Rimasi accanto a lui fino al termine della riunione e poi lo riaccompagnai verso la baracca, nella parte nuova del paese, sorta tra le vigne. «Perché mai quell’uomo voleva scacciarmi dalla riunione?». «Forse a causa dei tuoi libri». «Come?» esclamai «Sarebbe colpa studiare?». «No, non è colpa, ma vi sono persone istruite che si servono dell’istruzione per ingannare la povera gente».
Fermare al “rallenty” con le immagini di disegni e di foto il luogo nel quale si è cresciuti. Lasciando l’aula e andando giro per sapere di più di Fontamara ed i fontamaresi. Eccolo ri/nascere, il rizomatico album di famiglia sfogliato con religiosa attenzione, zeppo di scritte. Nei disegni realizzati su comune carta paglierina da imballo, i brani didascalici sono tratti integralmente dal libro di Silone, e ricompongono – come in un mosaico – le pagine più significative (dal punto di vista dei bambini s’intende).
«Marietta era lì, nella soglia della cantina, ostruendo la porta con la sua gravidanza, la terza e la quarta da quando il marito era morto in guerra. Il marito le aveva lasciato una medaglia d’argento con la pensione. – Ogni tanto gli spari s’interrompevano, ma poi riprendevano più fitti. Proseguendo, divenne più chiaro che provenivano da Fontamara e che si trattava di colpi di moschetto. – Berardo finse di non vederlo, gli voltò le spalle e si mise a leggere con esagerata attenzione un manifesto attaccato al muro. Invece Scarpone andò dritto verso di lui “Teofilo si è impiccato” gli disse. – Una domenica con un rumore d’inferno arrivò un camion per portare i Fontamaresi in Avezzano gratis e invece di portare con loro le bandiere portarono con loro lo stendardo di S. Rocco. – Negli interrogatori Berardo appariva sempre più malconcio. La prima volta non aveva che un segno turchino sotto l’occhio destro, ma dopo gli interrogatori seguenti la sua faccia era appena riconoscibile: le labbra, il naso, le orecchie portavano le tracce della violenza patita. Tuttavia egli non parlava».
C’è in questa puntigliosa trascrizione dei brani siloniani la voglia di far capire che le situazioni scabrose – illustrate con acquerelli e pastelli e con una iconografia semplice ed essenziale – sono state verificate, e di conseguenza comprese, nel contesto sociale romanzato. Ma, sesso e violenza non sono stati confusi con l’amore, la pietà cristiana con il paternalismo, la resistenza individuale con l’ennesima guerriglia urbana.
Le scarnificate parole di Fontamara si sono trasmutate in immagine con una scioltezza sorprendente: forma e contenuto, nel loro perfetto dosaggio, sono state trasferite, quasi per una medianica empatia, dallo scrittore ai “lettori in erba”.
La fantasia del bambini ha bisogno di verifiche. Volti e fatti di Fontamara sono stati documentati (non esistendo per essi alcuna frattura tra reale ed immaginario), scattando foto a persone ed ambienti o facendo interviste.
Slides (La rivoluzionaria sperimentazione didattica di Annibale Gentile)
Le considerazioni di Silone nella lettera scritta a Gentile – riportata nella Parte II – sul rapporto tra la libertà della fantasia creatrice e le sollecitazioni ed i condizionamenti esterni sono condivisibili («[…] La tendenza paesana a considerare ogni romanzo come un libro di chiave, in cui c’è da riconoscere ogni personaggio e ogni luogo, mi dispiace dirlo, è un fenomeno d’incultura. Mi dispiace che esso permanga non solo tra gli analfabeti, ma anche tra i professionisti e le persone istruite. È umiliante dover ribadire dei concetti che costituiscono l’abc della cultura. Parrebbe essere ovvio che un romanzo rappresenta una realtà diversa da quella empirica: nel romanzo l’essenziale è la vita interiore dei personaggi, e la loro interdipendenza spirituale […]».
Ma, nel caso specifico, non si è riscontrato alcun effetto riduttivo: i ragazzi hanno – a loro modo – effettuato una indagine sociologica e topologica per capire meccanismi istituzionali (fascismo, chiesa, sfruttati di classe) altrimenti incomprensibili.
Proprio per appropriarsi della realtà, per le fotografie non hanno usato didascalie riprese dal libro (così come hanno fatto con i disegni), ma motivato soggettivamente immagini di per sé nude e crude.
«Questa fotografia è stata scattata sul paese dei soldati e raffigura la staccionata in legno con la quale l’Impresario podestà aveva fatto recintare le terre che prima appartenevano ai fontamaresi, poi sono diventate del podestà ed è andata perciò diverse volte in fiamme. – Questa foto rappresenta la divisione delle acque del ruscello, e secondo Don Circostanza sarebbero state divise per tre quarti e tre quarti. – Questa foto rappresenta un gruppo di fontamaresi».
Le didascalie, pertanto, hanno una funzione riequilibratrice: nei disegni è l’insicurezza di non aver saputo esprimere con le immagini ciò che si è letto a far usare le stesse parole di Silone; nelle foto è un’immagine “troppo reale”, troppo somigliante a quella descritta nel romanzo, a far optare per parole più personali e soggettive, quasi a voler intervenire in quella realtà per conferire alla stessa, recuperandola, la dimensione fantastica che le è propria.
La partecipazione del lettore e la contemporanea riscritturazione del romanzo nei termini sino a qui descritti, è stata non solo totale, ma altamente caratterizzata da un coinvolgimento espressivo-creativo stimolato quasi integralmente da esigenze morali.
La netta presa di posizione dei ragazzini e delle ragazzine, tra i valori accettati e quelli rifiutati, non poteva e non può scaturire da scelte ideologiche, ma solo su basi squisitamente etiche: ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è ingiusto e ciò che è giusto.
Scelte effettuate però non in senso catechistico, ma comprendendo della morale evangelica disseminata in tutte le pagine del libro, quei valori essenziali e universali che accomunano gli “esseri” e sono indipendenti dal tempo e dal luogo in cui va a dispiegarsi una data società.
Intervento creativo-espressivo, quello degli alunni di Fontamara non risolventesi in gioco o evasione, ma in approfondimento critico-intuitivo (delle situazioni, dei personaggi, della realtà storica etc.).
A fine anno, un questionario di ben 50 domande (riportato nel giornalino CIAO, scuola!, si veda in Appendice) riannoderà i fili individuali e corali di questa straordinaria, forse irripetibile avventura didattica: «Rispondi liberamente alle seguenti domande: 1) – Cosa ti ha interessato di più nella lettura di “Fontamara”? 2) – Nel libro cosa ti ha divertito? 3) – E che cosa ti ha fatto soffrire? […] 12) – Quali sono, secondo te, le ingiustizie più gravi subite dai cafoni? 13) – Cosa significa, per te, cafone? 14) – E cosa significa “cafone” per Silone? 15) – I cafoni, secondo te, esistono ancora oggi, e chi sono, eventualmente? […] 48) – Se dovessi scrivere tu un libro, di chi o di che cosa parleresti? 49 – Con quale titolo o ambientato dove? 50) – I cafoni di Fontamara si ribellarono a tutte le ingiustizie scrivendo un giornale e riuscirono nel loro intento, perché il loro giornale fu la scintilla della rivolta. Secondo te, perché noi abbiamo fatto un giornaletto e che cosa siamo riusciti ad ottenere, a fare, a cambiare? Dillo francamente».
Il senso delle loro risposte e di quell’indimenticabile anno scolastico, sono stati riportati nella copertina del giornalino ciclostilato – attualmente sbiadito – in una sorta di editoriale ispirato dal “Magister-tutor” Annibale Gentile: «Cari amici, prepariamoci a salutare la Scuola. È cresciuta, vero, in questi ultimi tempi, come un fiore nato dal seme del rinnovamento. I suoi petali più belli si chiamano: famiglia, democrazia, metodi nuovi, sperimentazioni, abolizione voti ed esami, futuro migliore. Prepariamoci a salutare la Scuola, perché mancano solo pochi giorni al suono dell’ultima campanella e salutiamola con la speranza e l’augurio di ritrovarla, poi, ancora migliore, proprio come la vorremmo noi, come la vorrebbe la società, come la vorrebbero tutti. Una Scuola già disegnata e progettata dai Decreti delegati, ma che deve essere ancora realizzata. Non bastano le leggi per cambiare il mondo, o tanto meno servono le sole parole. Occorrono i fatti e la Scuola-nuova attende ancora i fatti. Salutiamo la Scuola e tutti coloro che devono cambiarla, che insieme devono farla diventare migliore, molto migliore! Salutiamola per augurarle che dai fiori nascano i frutti attesi. Ciao Scuola!».
Da quella metà degli Anni Settanta del secolo scorso, molte controriforme (contrabbandate per riforme) sono state messe in campo da alcuni ministri dell’istruzione incompetenti nel frattempo succedutisi nel governo del Paese. Tanto per fare un solo esempio, il Ministro Maria Stella Gelmini ha affermato recentemente, con un comunicato ufficiale diramato dal Ministero da Lei presieduto, che il felice esperimento effettuato tra il Cern di Ginevra e il Laboratorio di Fisica Nucleare del Gran Sasso, relativo a neutrini superluminali, era riuscito grazie al tunnel costruito con finanziamenti italiani: «Sono profondamente grata a tutti i ricercatori italiani che hanno contribuito a questo evento che cambierà il volto della fisica moderna. Il superamento della velocità della luce è una vittoria epocale per la ricerca scientifica di tutto il mondo. Alla costruzione del tunnel tra il Cern ed i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l’esperimento [sic!], l’Italia ha contribuito con uno stanziamento oggi stimabile intorno ai 45 milioni di euro».
Amaris in fundo: ai bambini delle scuole elementari attualmente non è più garantita nemmeno la disponibilità della carta igienica per “pulirsi il culetto”. In presenza di un tale oltraggio, Che fare?
[Testo tratto dal volume “Antonio Gasbarrini – Annibale Gentile, I Fontamaresi, La Scuola delle Libertà nella Fontamara d’Ignazio Silone, Angelus Novus Edizioni, L’Aquila, Novembre 2015]
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