La stessa fine di L’Aquila la farà il centro storico di Salerno, quando verrà sottoposto a sollecitazioni di un terremoto abbastanza forte
di Giuseppe Siano
La conservazione di un bene culturale o artistico ha bisogno che gli uomini rispettino la materia utilizzata per rappresentare un pensiero; perché è proprio in essa (materia) che si conserva anche il tipo di messaggio tramandato, il quale passa alle generazioni future.
Non a caso, è convinzione comune che mantenendo integra la materia di una produzione umana si dà potere evocativo alla rappresentazione di un pensiero trasmesso attraverso ciò che viene chiamato oggi “il sentire” nell’estetico.
Grazie a questo rapporto tra pensiero e materia, “il sentire” sembra che solleciti nell’osservatore la ricerca di un “insight” [alias “visione interna” o “modello”], attraverso cui egli fruisce del messaggio che è in ogni produzione umana.
Si afferma, infatti, che questo connubio a tre — inscindibile — tra pensiero, materia e sentire estetico, permetta d’individuare una serie di modelli operativi della produzione artistica in generale, o architettonica come dispiegheremo brevemente nel nostro caso. Quanto qui affermato è rilevato anche da un’efficace formula presente nella Estetica di Luigi Pareyson, il quale dimostra come il fare artistico “è un fare, che mentre fa, produce un modo di fare”.
Possiamo sottolineare che il discorso sull’artistico, dal secolo scorso (proprio grazie al “sentire”), fu sdoganato dal pensiero e dal racconto metafisico superiore proprio grazie alla predominanza del “sentire dell’estetico”.
Per questo motivo non è più uno scandalo che i modelli dell’operatività artistica abbiano relazioni col “fare”, e si attribuisca loro anche la riconoscibilità che prima era appannaggio di una metafisica e di un pensiero “superiore”. Il “fare che produce un modo di fare” diventa così un metodo per indicare una specifica organizzazione del nostro pensiero, la quale è riscontrabile nella produzione di qualsiasi opera materiale. Ecco che ne deriva che il pensiero non può prescindere da un modello di manifestazione e di organizzazione della materia e viceversa. Una materia originaria dà maggiore forza evocativa al messaggio percepito da un conoscitore d’arte. Il rapporto è sempre a tre tra il modello evocato o scelto dal “sentire” in quel momento dall’osservatore, e la materia che evoca quell’organizzazione di pensiero, proprio attraverso il percorso manifestatosi a causa del modello scelto.
Un’opera d’arte, compresa quella architettonica, quindi, soggiace alle regole di un rapporto fisico e spaziale che implica il rapporto tra materia e pensiero. Ma è ormai noto, anche, che questo rapporto è trasmesso al fruitore attraverso la mediazione del “sentire”, che per molti è divenuto oggi “messaggio”. Ed è il «messaggio» che trasmette anche la scelta di un’organizzazione o modello di un osservatore. Tanto forte è questa relazione che Cesare Brandi nella Carta del restauro del 1972 ci ricorda che ci sono tre principî fondamentali da cui non si può prescindere se si vuole intervenire correttamente sulla materia in un restauro:
- Sinteticamente il primo ci dice che anche quando s’introducono elementi nuovi in un’opera da restaurare, questi devono essere invisibili a distanza e riconoscibili da vicino.
- Il secondo si riferisce proprio alla «materia» di cui è composta l’opera. Se questa materia per la quasi totalità è sostituita, spesso disturba il fruitore nella ricostruzione del pensiero di un’immagine del passato.
- Il terzo riguarda la prescrizione che l’intervento su un’opera d’arte, anche di consolidazione, non impedisca restauri futuri.
Sono questi minimi strumenti teorici fondamentali che ci permettono di analizzare se siano stati rispettati il pensiero e la materia nella ristrutturazione dei siti storici, dei palazzi, dei muri e delle case di un centro storico, ad esempio dopo uno degli ultimi terremoti.
Prendo ad esempio la mia Salerno, senza prima che non ricordi qui che avevo predetto all’amico direttore di ZRAlt!, Antonio Gasbarrini (mi sembra nel 2003), che per il tipo di materiali utilizzati nella ristrutturazione di una chiesa della sua città, L’Aquila, si stava indebolendo la fabbrica; e gli annunciai, come una Cassandra, che in un «improbabile» terremoto futuro sarebbe crollata solo per il fatto che si stava utilizzando per le strutture murarie una malta in cemento su una fabbrica in pietra.
Mi si permetta una riflessione. La maggior parte delle abitazioni e monumenti in pietra dei siti storici che sono arrivati a noi sono stati sollecitati in Italia da tanti terremoti del passato, per cui queste costruzioni hanno sfidato i secoli. Eppure sarebbe ora chiedersi i motivi secondo i quali le ristrutturazioni avvenute specie negli ultimi cinquant’anni di molte di quelle case in pietra, restaurate in cemento — o con malta di cemento —, poi siano crollate sotto i colpi degli ultimi eventi sismici. Nonostante non sia un tecnico delle costruzioni fui tra i pochi che, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, abbia messo in guardia sui disastri futuri per il tipo di ristrutturazione che si stavano realizzando.
Non dovrebbe essere uno storico dell’arte a dover dimostrare, non solo per questioni estetico-artistiche, che le ristrutturazioni in cemento non si possono integrare in una fabbrica costruita in pietra.
Slides
Lo farò lo stesso, dal momento che ho scelto di raccontare in questo breve articolo le incongruenze estetico-percettive oltre che strutturali su una rivista che tratta anche di “teorie delle catastrofi”.
In tempi non sospetti, negli anni ’80, scrissi una serie di articoli e un pamphlet sulla questione restauri a Salerno. Su ZRAlt!; ne pubblico una minima parte (slides) certificanti alcuni capisaldi concettuali a me chiari allora, e presenti anche in queste riflessioni.
I motivi per i quali sono sicuro che la stessa fine di L’Aquila la farà il centro storico di Salerno, quando verrà sottoposto a sollecitazioni di un terremoto abbastanza forte, brevemente sono i seguenti.
Prendiamo ad esempio due monumenti che potrebbero essere i biglietti da visita della città di Salerno.
Il primo: il Castello di Arechi che domina la città. L’altro, è la Chiesa di San Benedetto che è di fronte al Museo provinciale, dove è conservata la testa di Apollo considerata da molti studiosi dell’età greco-romana la più bella al mondo.
Il Castello di Arechi fu ristrutturato dall’architetto Mario Dell’Acqua e la Chiesa di San Benedetto dall’Arch. Ezio De Felice. Entrambe le fabbriche sono il risultato visibile di un restauro allora in voga che era definito “creativo”.
Rimando ai miei articoli scritti a suo tempo e alle interviste rilasciate per sottolineare lo scempio che è stato fatto di questi monumenti con la reinterpretazione spaziale e, per quanto riguarda il Castello da Arechi, anche con la costruzione di una terrazza, al di là dei materiali usati con scale reticolare in ferro etc..
Comunque dopo questi restauri Salerno ha ora due costruzioni, una chiesa e un castello, i cui spazi sono stati per lo più reinterpretati dagli architetti restauratori nel ’900. Questi restauri, di fatto, hanno reso più difficile agli storici dell’arte anche quel poco di fruibilità che era rimasta della fabbrica antica.
Il restauro creativo, proprio perché reinterpretava le continue trasformazioni delle opere nel corso dei tempi precedenti, rimanda non a un modello storico originario, ma alla visione dell’ultimo architetto restauratore, che ne reinterpreta lo spazio.
Da aggiungere, poi, che i due architetti restauratori chiamati in causa hanno impiegato materiali nuovi a vista. Penso,a d esempio, a quanto ferro reticolare sia stato utilizzato per realizzare gli interventi per il Castello. Ciò che è importante notare, però, è che questi materiali ne hanno anche indebolito le rispettive strutture in pietra e sono difficilmente amovibili senza causare ulteriori danni alle due fabbriche.
Per questo motivo, credo che un non augurabile prossimo terremoto sarà rovinoso per il Castello, dal momento che ci sono oggi anche infiltrazioni d’acqua causate proprio da quello che si credevano fossero consolidamenti; specie per la malta in cemento e alcune gabbie di ferro introdotte “invasivamente” nella struttura di pietra ad opus incertum.
Cosa diversa, invece, è capitata alla chiesa di S. Benedetto, a cui dedicai un pamphlet. Essa è stata ricostruita quasi totalmente in cemento; però sono state mantenute solo alcune parti in opus incertum che avrebbero dovuto essere tracce delle vestigia del passato e avrebbero dovuto dare un’immagine di assieme a uno storico dell’arte. Il risultato finale, purtroppo, è stato quello di aver reso confusi e difficilmente fruibili gli spazi.
Proprio in questi luoghi intermedi della fabbrica esterna, tra struttura antica e moderna, poi, si sono create delle sacche dove si sono depositate le infiltrazioni d’acqua. Non a caso si sa che il cemento per natura è idro-assorbente e non può essere utilizzato come malta per la pietra. La malta in cemento, invece, è stata utilizzata per rendere compatta quel poco di rudere in pietra della muratura esterna che l’architetto De Felice voleva conservare, creando quelle infiltrazioni di acqua nella struttura.
Ricordo che fu anche deciso di spostare una parte del Museo Diocesano del Duomo di Salerno nella Chiesa di S. Benedetto, ma come ebbi a rilevare, ci sarebbe voluto un deumidificatore acceso 24 ore su 24 per ristabilire una climatizzazione corretta. Dopo un mese di prova, infatti, quella parte del museo Diocesano fu riportata a Piazza Plebiscito, i cui tesori — specie quelli di tessuto — però da allora non ricordo che siano mai stati più esposti. Ancora oggi non si sa che fine abbiano fatto i vestiti restaurati, le mitra e i libri che per poco tempo erano stati esposti nella Chiesa di S. Benedetto — per giunta, impregnandosi d’acqua.
La fruizione delle opere d’arte per ora è legata ancora a questo connubio tra materia e pensiero che sottende il “sentire”, anche se presto con le nuove tecnologie dell’informazione potremo assistere anche a ricostruzioni storico-ambientali in 3D delle fabbriche e degli eventi ad esse connesse.
Agli storici dell’arte che credono ancora nella materia e nel pensiero, comunque, rimane la nostalgia di vedere l’Italia depauperata del proprio patrimonio artistico-culturale a causa delle tante speculazioni che riguardano in modo particolare le ristrutturazioni architettoniche, affidate spesso a ditte che poco sanno di restauri, mentre i controlli delle Soprintendenze oggi sono sempre più rari e permissivi.
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