Catastrofi naturali, guerre e le più recenti devastazioni volontarie terroristiche hanno suscitato una reazione figlia di una doppia sconfitta
di Elisabetta Sonnimo
Prima, durante e dopo… sono queste in sintesi, le fasi che un’opera d’arte attraversa in occasione di un restauro.
La condizione cosiddetta prima dell’intervento, è quella che determina la necessità di un recupero conservativo ed estetico del manufatto. È una fase in cui si studiano cause ed effetti del degrado in funzione dello stato di conservazione, allo scopo di orientare le procedure tecniche da adottare nel restauro.
Durante, è lo stato in cui l’opera, sospesa come un paziente sotto anestesia…, è oggetto fisico di intervento, ed anche in questa fase, tanto più è alto il livello di studio e di competenze dedicate, tanto più assieme ad un recupero conservativo, si eleva il potenziale conoscitivo offerto dall’occasione del restauro.
I molti possibili elementi che scaturiscono durante questo processo favoriscono una migliore, a volte inedita, definizione estetica dell’opera e contribuiscono a chiarire anche la sua funzione oggettiva e simbolica all’interno del contesto socio-culturale che lo ha generato e conservato.
La fase ultima di restituzione del Bene alla collettività dopo il restauro, rientra dunque non solo nel suo recupero estetico e funzionale, ma anche nella prassi di costruzione o ricostruzione della memoria, di un luogo, di un habitat e dell’identità culturale delle comunità che in esso si riconoscono.
Da un punto di vista tecnico e non solo, le fasi prima, durante e dopo il restauro, considerano un ciclo che in genere si intende concluso.
Vale a dire che le metodiche e le procedure di intervento, tendono a far sì che le scelte operative messe in campo garantiscano una conservazione dell’opera più lunga possibile, nell’auspicio di affidare in seguito, una buona durabilità al sistema manufatto-ambiente solo attraverso interventi di manutenzione.
È ormai coscienza comune che ogni volta che il ciclo deve ripartire ci si confronta di fatto con un’opera che ha “assorbito” un ulteriore impoverimento, spesso direttamente proporzionale al danno subito.
Ed è per questo che il restauratore è lieto quando riesce ad agire secondo il principio del “minimo intervento” (spesso faticosamente proposto a quelle committenze che cercano nel restauro sostanzialmente un ritorno di immagine).
Un evento catastrofico, non solo rimette in moto il processo e costringe nuovamente ad intervenire quando l’opera sottoposta a grave danno subisce sostanziali perdite che ne inficiano la riconoscibilità: l’azione di conservazione deve confrontarsi con un limite a volte invalicabile.
Quello che Cesare Brandi definisce «[…] il momento limite in cui l’opera d’arte, ridotta a poche vestigia di se stessa, sta per ricadere nell’informe».
Catastrofi naturali, guerre e le più recenti devastazioni volontarie terroristiche hanno suscitato una reazione figlia di una doppia sconfitta.
Nell’impossibilità di impedire lo scempio, ci si ancora al potenziale tecnologico: ricostruire, rifare, oggi è vista come una soluzione sempre più possibile.
Ma quel ritorno all’informe di cui parla Brandi è il punto in cui la consunzione, il degrado la sottrazione di materia è tale che l’opera perde la sua anima.
Quando questo accade l’intervento di recupero sembra simile all’intenzione di far risuscitare un morto e il risultato, per quanto sia frutto di impegnativi e calibrati interventi, mantiene forte il sapore di artificio.
Spingendo poi ad affidare la memoria ad una ricostruzione virtuale si crea una documento senza anima un po’ come accadrebbe se della tragedia della Shoah ritenessimo possibile perpetrarne il ricordo solo attraverso un oggetto, un luogo, una persona e non invece mediante la crescita di una coscienza collettiva (come meglio descrive Massimo Carboni nell’introduzione al testo “Tra memoria e oblio” di P. Martore ed Castelvecchi 2014).
Far fronte al disastro innanzi tutto proteggendo i Beni preventivamente, magari sì, in questa fase impiegando ogni possibile tecnologia, non fosse altro quella di archiviare in modo sistematico e realmente gestibile all’urgenza tutto il know-how disponibile, compresi gli aspetti solo apparentemente più laterali, come quelli riferibili al “ruolo” sociale dell’opera d’arte e al suo contesto comunitario e territoriale.
Se l’opera scompare, non più sulla sua materia si può agire, ma sulla sua memoria, facendo appello a quel circuito virtuoso di crescita culturale che è possibile ottenere considerando i nostri Beni Culturali e paesaggistici ancora esistenti, come elementi fondamentali per lo sviluppo umano.
Più in generale, rispetto all’inevitabile impermanenza delle cose, occorre agire da subito per fare in modo che ciò che potrebbe scomparire o deperire fino a trasfigurarsi, entri più profondamente possibile nella nostra vita e si stratifichi come una eredità, una risorsa a cui fare appello.
Se la conoscenza, la cura e la fruizione dei Beni tangibili e quelli intangibili entrassero davvero a pieno titolo, e, come indispensabili ad un percorso formativo e di crescita, si migliorerebbe la qualità della vita.
Una persona che è stata educata ad apprezzare la bellezza, con più probabilità, sarà di per se ostacolo al degrado, all’incuria e allo sfruttamento del paesaggio.
E se pure malauguratamente parte di questa bellezza dovesse scomparire sotto la “catastrofe”, difficilmente questa persona potrà farsi persuadere a vivere senza. In qualche modo si orienterà per ricreare o cercare un ambiente armonico.
Se si innesca la profonda convinzione che le opere d’arte, il paesaggio, non sono un’opzione al benessere, si inizierà a pretendere di viverci insieme, di esserne educati alla conoscenza, per se stessi e per lo sviluppo di una responsabilità condivisa.
Slides (Alcune delle opere restaurate da Elisabetta Sonnino)
Nel contesto di queste riflessioni, e più in particolare sulle implicazioni di “valore” sottese al rapporto fra i luoghi e i loro abitanti, prendo ad esempio per contrasto, l’interrogativo che alcuni ancora si pongono e propongono: «Può una città rinascere con l’arte?». Era l’infelice titolo di un articoletto giornalistico scritto per la recente apertura del nuovo Museo Nazionale d’Abruzzo. Nonostante la marginalità dell’articolo medesimo, mi auguro si abbia presto la coscienza e se ancora necessario, l’intraprendenza per eliminare ogni punto interrogativo…
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«Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato»
(Italo Calvino, Le città invisibili)
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