È nella convergenza tra arte e filosofia che va cercato l’enigma dell’arte
di Francesco Correggia
Giovanni Piturchio aveva letto per tutta la notte. Era ancora in uno stato di eccitazione costante. Si era appena svegliato ed era sceso dal letto. Aveva preso un caffè e ora si aggirava sbigottito nel salotto con il libro di estetica di Theodor W. Adorno fra le mani. Fuori pioveva a dirotto e il rumore delle gocce che si schiantavano sul vetro della finestra somigliava ad un’ininterrotta lamentazione, a un suono cupo e spettrale. Il suono del tram che passava davanti casa sua era stridulo, insopportabile.
Non sapeva cosa fare. Non usciva da giorni. Quel libro era diventato la sua ossessione. Non era riuscito a leggerlo del tutto quando era un giovane studente. Ne conosceva il contenuto, lo aveva studiato a brani, evocato più volte, citato, consumato per un lungo periodo. Era un testo cui si riferiva spesso quando insegnava all’Università. Non trovava mai il tempo per approfondirne la lettura; così aveva deciso di rileggerlo ora con cura. Lo aveva comprato nell’ultima edizione, quella del 2009. Perché aveva deciso di doversene occupare ? Quali motivi lo spingevano verso quella lettura? Quel libro costituiva una specie di riferimento per l’estetica contemporanea e per la filosofia dell’arte. Era un’ossessione a cui non ci si poteva sottrarre. Perfino pensatori come A. Danto, C. Menke, P. Sloterdijk avevano dovuto farci i conti.
In realtà tutto era partito da un altro libro che Giovanni aveva letto in breve tempo e con una certa insofferenza come se si trattasse di una vicenda importante e decisiva cui si sentiva obbligato a dare una risposta. Si trattava del libro di George W. Bertram: L’arte come prassi umana, un’estetica. Giovanni Piturchio, dopo averlo letto avidamente prese degli appunti e concluse che non ne poteva più di quei giovani autori che supponendo di scrivere cose sensate sull’arte, sull’estetica e la sociologia arrivavano ad una definizione dell’arte più o meno esaustiva sorvolando al contempo sugli argomenti essenziali. L’arte come pratica riflessiva è una prassi sociale, una pratica di libertà scrive Bertram. Tuttavia il modo con cui l’autore giunge a questa considerazione attraverso Kant e Hegel passando dall’estetica di Adorno non convinceva del tutto.
Giovanni Piturchio comprese che sarebbe stato più agile leggere l’estetica di Adorno in versione integrale piuttosto che un libro dove lo si citava continuamente. In fondo era la scrittura a fare la differenza. La Teoria estetica di Adorno che vide la pubblicazione subito dopo la sua morte, nel 1970, è il fulcro vitale per una delineazione della costellazione adorniana. Annoterà tra i suoi appunti Adorno: il libro deve essere scritto quasi concentricamente, in parti di egual peso, paratattiche, ordinate intorno ad un centro espresso dalla loro costellazione.
Dopo aver letto le prime cento pagine tutte di un sorso, come se fosse del raro vino, gli sembrava già di riconoscere il modo di scrivere di Adorno. A lui pareva così. È sempre una questione di stile, di linguaggio, di modo che rende il pensiero anche complesso leggibile e praticabile.
Si fa meno fatica a leggere i grandi protagonisti del pensiero filosofico che i loro giovani interpreti. Rileggere Adorno adesso per Giovanni era come leggere un grande romanzo, fare un viaggio a ritroso, una grande avventura del pensiero non solo estetico ma anche filosofico. Giovanni aveva pubblicato qualcosa su facebook che invitava a leggere alcuni pensatori di estetica e di critica d’arte, taggando le vecchie copertine, come se fossero dei capolavori, degli oggetti d’arte. Aveva postato un libro di Ugo Spirito dal titolo eloquente Critica dell’Estetica del 1964 editato da Sansoni e poi ancora quello di Enzo Paci: Funzione delle scienze e significato dell’uomo edito dal Saggiatore del 1963. Libri sui quali si erano formate generazioni di studiosi, filosofi e intellettuali. Nelle librerie più accreditate quei libri non c’erano più, erano spariti. Quando chiedevi al libraio che fine avessero fatto e se erano stati rieditati, dopo una breve ricerca su quel dispositivo atroce e al contempo sublime che è internet, lui ti rispondeva: “Dispiace, ma non è più stato ristampato”. E se ti azzardavi a replicare: “Come mai, è un libro importante, oggetto di studio ancora adesso”. Il libraio ti rispondeva: “Purtroppo è fuori commercio”.
Continuava a piovere e Giovanni poteva benissimo starsene in casa con comodo, stendersi sul divano, mettere i tamponi di cera alle orecchie e pensare. Giovanni era un uomo di sessantacinque anni. Era da poco in pensione. I suoi figli, due gemelli di ventuno anni, studiavano all’Università ma non gli davano preoccupazione. Erano accorti, studiosi e disciplinati. Aveva divorziato già da dieci anni e avrebbe potuto benissimo rifarsi una vita ma lui continuava a pensare e a vivere in perfetta solitudine come se quella fosse la sola via che potesse condurre alla pienezza dell’essere. Aveva avuto qualche problema a causa dei continui sfratti cui era incappato per via del mancato pagamento dell’affitto. Lui se la prendeva sempre con le agenzie immobiliari e i proprietari che pensavano di arricchirsi con gli immobili taglieggiando chi aveva bisogno di una casa, chi non poteva consentirsi canoni così elevati. Gli immobiliaristi dal canto loro difendevano i proprietari sostenendo che gli affitti erano alti per via delle spese condominiali e delle tasse che i proprietari dovevano versare. Insomma era sempre colpa dello Stato. La legge sull’equo canone era stata abolita proprio perché i proprietari preferivano tenere le case sfitte piuttosto che affittarle a un prezzo inferiore di quanto loro pensassero di ottenere. Il mercato era stato liberalizzato con il risultato che gli immobiliaristi erano cresciuti di numero e gli immobili erano diventati investimenti su cui lucrare e non più case in cui vivere. Giovanni ancora una volta aveva avuto uno sfratto ma non se ne preoccupava. Lui amava leggere e si occupava di scrittura. Aveva ben altro da fare. I libri erano la sua vita. E poi dove li avrebbe sistemati tutti quei libri? Aveva cercato un’altra abitazione. Tutte erano identiche: case arredate con mobili Ikea, poltrone, tappeti e quadri pessimi. Non erano previsti i libri se non qualche mobile che poteva sembrare una libreria e che avrebbe potuto accogliere qualche cimelio, un qualche oggetto di arredo e non certo dei libri. Perciò aveva deciso di continuare a fare quello che per lui era necessario: leggere e pensare. Non avrebbe cambiato nulla della sua vita, alla fine sarebbero arrivati i vigili per uno sfratto forzato e Giovanni avrebbe sistemato tutti i suoi libri, la sua scrivana dell’ottocento, il tavolo in noce massiccio, la sua poltrona, i suoi quadri, le stesse emozioni e sensazioni che aveva vissuto in quella casa, sulla strada. Poi li avrebbe offerti ai passanti recitando Ovidio. Oppure ne avrebbe fatto un rogo buttando via tutto quello che a uno non piaceva e non voleva, tutte le nefandezze e le brutture della vita per poi ricominciare daccapo. Sarebbe stata un’idea geniale. Trascinare tutto fuori, compreso il letto e la scrivania, le lettere, gli appunti i disegni e bruciare tutto, insieme ai ricordi.
Ne avrebbe avuto il coraggio? Era questo che pensava mentre tentava di riprendere la lettura di Adorno. Lo sentiva vicino quel signore della critica radicale, dell’ipercritica, quell’illuminato sociologo dall’aspetto severo e non cangiante; l’anti Heidegger per antonomasia, che aveva perfino osato opporsi al riverbero della storia marxista. C’era qualcosa che aveva a che fare con l’etica nella sua estetica.
Il grande critico della società borghese, la quale continuava a stare nel proprio agio dentro i dorati recinti del dominio, della supponenza e dell’ignoranza, fregandosene dei libri e dell’arte. Era stato Adorno che aveva liberato Benjamin dal sospetto di essere troppo schierato a favore di un’arte con un forte valore espositivo disarcionando la pretesa cultuale dell’opera, negandone di fatto l’aura. Nel nome di Hegel Adorno riteneva che in Benjamin quelle teorie non avessero del tutto cancellato l’aura dell’opera. Esse dovevano cogliersi nell’ambito radicale di una critica illuminista della modernità, cioè in una logica oppositiva e dialettica. La tradizione non va negata solo perché c’è il moderno, ma criticata senza ingenuità in base alla situazione, dunque anche per Adorno è il presente che istituisce il passato. Anche l’evaporazione della trascendenza estetica diventa estetica; in modo davvero mitico le opere d’arte sono incatenate non alla loro esistenza ma alla propria antitesi.
Mentre rimuginava fra sé e sé su quel pensiero imprendibile eppure così attuale, si ricordò che quando era un giovane studente a Brera andava spesso in biblioteca Sormani per leggere quei libri che non poteva permettersi di comprare. Ecco, era lì che nel 1976 aveva fatto la scoperta di Minima moralia di Adorno assieme a quell’altro celebre libro di Deleuze e Guattari L’anti-edipo.
Slides (a cura di Francesco Correggia)
Si ricordò che aveva preso degli appunti. Se li portava sempre con sé come delle reliquie. Ora quel pensiero gli sembrava così familiare da non poterne fare a meno. Giovanni Piturchio lo aveva metabolizzato senza rendersene conto, ecco il motivo della sua sicurezza. In realtà la lettura della Teoria Estetica di Adorno era piuttosto complessa e non si poteva liquidare con un semplice: sono argomenti del passato, possono andar bene fino agli anni settanta. Giovanni fremeva, voleva leggere in fretta per assaporare quel godimento che arriva quando alla fine si comprende fino in fondo il pensiero di un autore così complesso. Aveva finito di far colazione e la pioggia ora scendeva ad intermittenza. Le nuvole comunque sostavano nella città regalandole un leggero sapore di umidiccio che a Giovanni non dispiaceva. Cercò di levarsi di dosso quella cappa che gli impediva di uscire.
Ora che aveva risolto l’idiosincrasia che nutriva per il giovane studioso di filosofia dell’arte contemporanea Bertram e aveva compreso il perché dell’allergia dell’arte verso se stessa, aveva deciso di uscire da casa, di fare il grande salto. In cuor suo aveva scelto di non cercare casa attraverso internet e soprattutto di non cercarla a Milano, in quella città che ormai conosceva bene. Vi aveva abitato a lungo e ora non ne poteva più. Uscì dalla casa. Attraversò il breve tratto che lo separava dalla fermata del tram e con il libro ancora fra le mani, attese. Aveva perso il tram di prima. Gli capitava sempre. Ogni volta che decideva di prendere il tram 16, non faceva in tempo, gli passava proprio davanti gli occhi, per lui era una specie di avvertimento: quel giorno sarebbe stato in qualche modo infausto. Quel giorno, al contrario di quanto si sarebbe dovuto immaginare, decise di fare con comodo. Non gliene importava più niente del tempo. Lo aveva preso una strana forma di tranquillità. Non voleva più lamentarsi. Era diventato noioso pensare che al centro di tutto ci fosse lui e la ricerca della casa. Doveva pensare al resto. Il tram finalmente arrivò.
Giovanni con un balzo saltò dentro, si guardò attorno. Le persone sembravano immobili. Un signore con un abito grigio e la camicia bianca aperta sul collo e fra le mani una valigetta in pelle si sistemò accanto ad una donna piuttosto affascinante con un abito corto e le gambe, bianche lisce, senza calze. L’uomo si attaccò al proprio cellulare e si mise a parlare nella consueta liturgia aziendale. Due donne orientali conversavano in una lingua che per quanto ne sapesse doveva essere cinese. Erano entrambe deliziose nel loro tenue cinguettare. Due giovani ragazzi in piedi ridevano senza ragione spingendosi l’un l’altro in una specie di danza rituale. Alcune donne arabe ingombravano l’entrata con i passeggini e i loro rumorosi bambini. Erano grasse e abbondanti. Una di loro aveva un volto rotondo, espressivo e con gli occhi neri profondi e intensi. Il velo islamico le ricopriva quasi completamente, sebbene una porzione di viso si mostrasse con sicurezza e orgoglio.
Tutti nel tram sembravano guardare lui che era appena entrato. Giovanni trovò un posto libero in fondo. Si sedette, aprì il libro. Ogni riga della pagina era stata ricoperta, da segni, marcata dalla matita con evidente forza, quasi un tentativo di strapparla quella pagina. Tracce, punti, svolazzi, ricoprivano in maniera intermittente l’interno del libro. Sembravano geroglifici, rigagnoli di pensieri che svanivano per poi ricomporsi da qualche altra parte. Giovanni continuò a leggere fra quelle marcature fino a quando le parole gli sfuggirono e si accorse che stava pensando ad altro. Il tram arrivò al capolinea, fece un giro della piazza e si fermò sferragliando come se avesse esaurito tutte le sue forze. Giovanni scese e percorse via Montevelino che si trovava proprio al confine con la piazza. Si ricordò che aveva abitato molti anni prima lì in una casa al numero 14. Prese un caffè in un bar in piazzale Cuoco. Gli avventori erano tutti arabi ma Giovanni non se ne preoccupò. Consultò la Gazzetta dello sport e uscì dal bar rapidamente. Gli venne in mente di quella ragazza tedesca che era stata sua ospite per qualche tempo proprio in quella casa. Si chiamava Astrid. Non si può dire fosse bella, ma aveva un fascino naturale, una certa purezza sgombra da qualsiasi artificio. Era bionda, alta, gli occhi azzurri, un po’ grassoccia, ma delle gambe lisce e levigate, agili anche se muscolose, i fianchi larghi e i seni piccoli come piacevano a lui. Giovanni ci aveva provato ma non aveva funzionato. La portò a Venezia cercando il classico idillio amoroso ma non accadde nulla. Lei andò via e Giovanni ancora una volta cambiò casa per amarezza e per non ricordare più il corpo di quella ragazza che continuava a vivervi come un fantasma.
Dopo un giro intorno alla piazza tornò al capolinea e risalì sul tram numero 16. Riaprì il libro e continuò a leggere. Si rese conto che stava per toccare i punti salienti del libro. Adorno compiva un giro vorticoso ed estenuante nel mettere d’accordo Hegel per cui si era tanto speso con Kant. Dall’arte come realizzazione dello spirito assoluto che trova nella totalità la sua più autentica vocazione metafisica pur nella contrapposizione fra coscienza e realtà, all’arte come libero gioco, come pensiero senza concetto. Cos’era? Un passo avanti rispetto a ciò che Hegel aveva risolto senza problemi o ancora un salto indietro per ripartire con slancio verso il presente? No, non si trattava né di un passo avanti, né di una conciliazione insostenibile, ma di un capovolgimento dove la determinazione kantiana del sublime viene spinta al di là di essa. Era in quel punto che Hegel avrebbe incontrato Kant.
Giovanni si era, anche questa volta, sistemato in fondo al tram pensando di starsene tranquillo. Qualcosa lo disturbava, qualcosa che baluginava dentro la sua testa impedendogli di proseguire nella lettura. Oramai rimanevano pochi giorni alla decisione inequivocabile: cambiar casa, cambiare città, ricominciare. Giovanni si svegliava ogni mattina in un turbine accorgendosi che gli eventi intorno a lui diventavano sempre più dissociati. E lui non faceva proprio niente se non quello che doveva fare: finire di leggere quel libro per sostenere quanto per lui era chiaro.
Si convinse che Bertram non avesse letto bene l’Estetica di Adorno, tutta costruita su un inappellabile ipercritica. Ne aveva preso solo una parte, quella che interessava a lui per la sua teoria dell’arte come prassi di libertà. La critica agonale di Adorno andava invece vista nel suo complesso. Non puoi prenderne una parte liquidando tutto il resto. Essa è un’ipercritica delle tradizionali forme di estetica nell’ottica di costanti contraddizioni che l’opera svela nel suo opporsi all’indeterminatezza. È un esercizio del pensare che sempre sviluppa nuove articolazioni.
Non è la riuscita dell’opera che fa da sfondo all’arte e che costituisce il suo rango, né tanto meno la sua prassi sociale ma al contrario è la sua inafferrabilità, la sua critica costante all’affermazione, alla riduzione sistematica, alla visibilità; è la sua intermittenza con la storia a rappresentare il vero tratto dell’essenza dell’opera. La sua reificazione può essere superata e rovesciata nel suo contrario e cioè nel pensare l’opera come determinatezza dell’indeterminato che ora appare nella sua essenza sublime. Ecco il ricorso all’estetica di Kant. La modernità, pur nella sua astrazione, alla fine nega se stessa svolgendosi in termini aporetici. Il rifiuto viene ricondotto alla familiarità. L’abitudine stende un velo là dove avrebbe dovuto cogliersi l’inconciliabile, l’opposizione irriducibile. Forse è attraverso questo velo che Bertram avrebbe voluto proporre il concetto positivo di arte come interpretazione. Quel che Bertram non capisce è che la prassi umana è ormai incompatibile con la libertà là dove la natura è essa stessa tecnica. L’interpretazione come momento della prassi del fare dell’arte non è più possibile in un sociale ormai standardizzato e livellato.
Le opere d’arte per Adorno non possono essere capite né dall’estetica né da chi si esercita con la critica d’arte, né possono essere lette come oggetti ermeneutici. Da capire sarebbe semmai allo stato attuale la loro incapibilità. Una volta abbondonato l’antico concetto estetico di mimesi, esso ritorna attraverso il bello artistico, sembra volerci dire Adorno.
È nella convergenza tra arte e filosofia che va cercato l’enigma dell’arte, il suo contenuto di verità. In questo senso l’estetica deve far posto alla filosofia o a una specie di genealogia, di etica della descrizione. Il bello dell’arte supera il bello naturale poiché in esso è l’idea che diventa visibile e in questo l’opera d’arte ha un qualcosa di spirituale, di assoluto e universale. Tuttavia questo universale è ancora qualcosa che va nella contraddizione, non giunge cioè mai a chiarezza. Così lo spirito nell’opera d’arte diventa opposizione pura ad ogni processo di standardizzazione.
La critica radicale di Adorno va ben oltre una semplice riduzione a una prassi, non si accontenta dell’interpretazione come prassi sociale di comprensione dell’opera, come prassi di libertà. Essa sembra smarcarsi dalla teodicea hegeliana del reale per cui ciò che è conforme al reale è vero, dove natura e reale sembrano confondersi. E lo fa ancora una volta chiamando in causa la dimensione di mercificazione tecnica che assume il bello naturale e il suo divenire immagine insieme a quel bello ormai reificato in industria del turismo globalizzato.
Qui Adorno fa un salto interessante sostenendo in sostanza che l’opera d’arte è figlia dello stesso caos aorgico del bello naturale. Ciò che nell’arte si manifesta, quel suo di più rispetto al bello naturale, non è più ideale e armonia. Il suo aspetto liberatorio così come Bertram lo intendeva risiede nel contraddittorio e nel dissonante, non in una prassi riflessiva produttiva essenziale all’essere umano. Questa prassi semmai è sempre maledetta e inopportuna, è sempre negazione e in quanto tale la verità nella società di massa è che nei suoi prodotti più autentici come l’arte emerge l’irrazionalità della costituzione razionale del mondo.
L’arte nuova deve conservare il suo carattere di conoscenza, ma deve mantenerlo nella contraddizione e non come schema formale, per far sì che attraverso la frammentazione del suo essere possa mantenersi critica. Adorno pensa che proprio il suo essere critico porti l’opera d’arte ad isolarsi socialmente, ossia a riconquistare la sua autonomia e farsi allo stesso tempo portatrice di un rifiuto netto, di una negazione della società totale. È qui che sta l’attualità del pensiero adorniano sull’arte.
Uno sbalzo improvviso del tram, un sussulto, riportò Giovanni alla realtà. Le parole ormai erano svanite nei percorsi inquieti del tram e le persone come le cose sostenevano il loro peso stando seduti o levitando da una maniglia all’altra. Il mondo scorreva davanti, a fianco, dietro i suoi occhi. Giovanni sentì qualcosa che gli faceva ammirare quel mondo. Era il suo di mondo e c’era un non so che di tenero in quel percepire il mondo, qualcosa di bello. Un mondo che insieme ad un’infinità di mondi, ad una velocità impensabile precipitava nello spazio siderale. Si sentiva sospeso nell’indeterminato pur nella determinazione del trasporto su binari. Si accorse che il tram stava tornando là da dove era partito. Stava tornando davanti casa sua in via Faruffini al n 40.
Continuò a ripensare le parole di Adorno che suonavano come un’indicazione, una tabella di marcia verso la liberazione o verso l’assoluto in cui si spegne ogni empiria e senso della vita. Concluse con lui che tutte le opere d’arte, anche quelle affermative, dovevano essere a priori polemiche. L’idea di un’opera d’arte conservatrice e fatta per i salotti o per fare a gara con i prodotti del design, della comunicazione e della moda è affetta da un controsenso. Come colto da un’allucinazione, Giovanni richiuse il libro e si alzò dal sedile e questa volta non volle farsi portare dal tram in un luogo qualsiasi della città. Scese, non pioveva più da molto. Il cielo a Milano non è mai terso. Quella nebbiolina e quell’umidiccio persistevano ancora intorno a lui, alle cose, agli oggetti, alle persone, alla città. Fra qualche giorno fumi malefici, polveri sarebbero tornati invisibili sulla città facendola apparire dall’alto come una zona grigia. Le centraline di misurazione delle polveri e dei gas di scarico avrebbero ancora superato ogni limite. Il comune avrebbe di nuovo attivato il blocco del traffico fino all’arrivo di una nuova pioggia. Sarebbe stato quello il futuro ? Tutti in attesa della pioggia?
Giovanni Piturchio aprì la porta di casa, abbassò le persiane, serrò le finestre, chiuse la porta della sua camera che dava sulla strada, accese la luce, avviò il computer e cominciò a scrivere.
In fondo il mondo è l’unica cosa che abbiamo.
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