Nel perenne dialogo tra materia e forma, Tiziana ha inserito il ricordo come terzo elemento, necessario a restituire ai primi due la possibilità di riscattarsi dall’ovvio
di Marcello Gallucci
Le citazioni, nel mio lavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante.
W. Benjamin[1]
A voler esser coerenti, il deja-vu è l’atto anarchico per eccellenza della memoria: sovverte l’ordine dei ricordi, li libera dalla tirannia del vissuto, dall’ordine imposto all’esperienza e istituisce una poetica per frammenti. Una potenza di aggressione analoga, se possibile, al complesso uso delle citazioni nei testi di Benjamin. Un frammento di vita si libera dal suo cardine temporale e, letteralmente, torna, ri-torna (re-vient) come spettro, esistenza disincarnata di senso. Si fa forma sovrana dello straniamento di me a me stesso: attraverso il deja-vu percorro ciò che torna (di qui il valore iconico) della mia vita come vita non (già più) mia: il che è alla base della sensazione insieme di lontananza e prossimità dell’immagine che ha dato occasione al deja-vu stesso. Alternando coinvolgimento ed estraneità, l’immagine compone il proprio ritmo visivo come spezzatura della sequenza ordinaria della percezione. Diventa un’anomalia tonale ed emotiva. Il frammento (analogo, in ciò, della citazione) che è causa del deja-vu, si impone con un valore “puramente interruttivo”[2], e la sintassi visiva che ne deriva appare frantumata attorno ad una cronostasi[3] che libera il potere rivoluzionario della visione.
Frammento da “Comédie Humaine” (Disegni realizzati con tecniche miste su carta da Tiziana Fusari elaborati e animati da Claudio Tedaldi, 2010)
* * *
Se traduciamo tutto questo in principio pittorico, otteniamo che nella tela la campitura s’affanna a disporre il colore non attorno a un personaggio, ma al fallimento dell’istanza di rappresentazione sottesa all’idea stessa di personaggio. È il principio che muove i grandi dipinti di Francis Bacon. Tiziana, nel cui lavoro più di una volta si avverte un’analoga deriva ontologica – e un’analoga potenza espressiva dell’immagine – scriveva:
La fissità bizantina della mia pittura è solo apparente perché c’è un prima o un dopo in quel momento bloccato sulla vela: è l’immobilità del felino. L’incredulità di fronte all’esistenza così drammatica e assoluta è ridotta ad uno spiedino di convenzioni banali e ridicole. Ma l’essere è tutto lì, in quel punto nello spazio che può passare inosservato, in quella figura istantanea, nel momento in cui l’otturatore si apre e fissa l’espressione stupita, attonita e limitata nel “movimento in corso”. Tancredi parla del punto come del più semplice elemento geometrico nello spazio, primo segno. Primo segno che rompe la continuità dello spazio! Per me il punto è la figura e intorno c’è sempre un unico colore. Quella figura serve per contenere tutte le emozioni che si son accumulate, serve per descrivere il ridicolo esistenziale – è un pieno più vuoto della campitura di colore che la contiene. Per dove partirà questa figura? Le figure, bloccate, stavano facendo qualcosa. Il muoversi di per sé è completamente inutile. Il movimento dell’ansia. Credevo che quell’attivismo adulto fosse un sacro “niente per caso”. Per continuare a crederlo ho bisogno di trasferirlo sul foglio, in quella dimensione posso anche sbeffeggiarlo, ormai il gioco è scoperto.
Sogno di diventare quel colore polveroso che stendo sulle vele e di esaurirmi in campiture di giallo. [4]
Dunque, l’epifania del personaggio è l’apparire di una discontinuità e, rispetto alla campitura, la rivelazione di un nulla, di un vuoto d’essere. I personaggi di Tiziana non hanno quasi mai un volto, né, a ben vedere, i rari tratti somatici autorizzano una qualsiasi attribuzione al di fuori di quella del “tipo”. Fabio Coccetti parla, a proposito, di una “presenza reticente”; Tiziana, che insiste sul sintagma che coniuga corpo, io e mondo, reinventa questo rapporto come nuova Comédie Humaine, assai poco balzacienne, in realtà. A furia di far le pulci alla quotidianità per cercarne le protesi, gli aculei, gli uncini, si è trovata, dice, ad avere la stessa qualità delle sue immagini: “Voglio confrontarmi solo con quello che è instabile come me, che deve avere poca vita. Lo strappo, l’inconsistenza mi sono più congeniali”[5].
***
Non sono tanto io ad interrogare l’immagine, quanto l’immagine ad interrogare me.
***
Non ho mai chiesto a Tiziana (non ne ho avuto il modo, e la crudeltà del tempo me lo ha impedito) se e quanto i coccodrilli che aprono d’imprevisto le sue composizioni (penso ai Quaderni del periodo 1999-2003, ma anche e forse a maggior diritto agli Abbecedari, del 1999-2006, alla già ricordata Comédie, 2003-10) fossero una deriva – o un omaggio – a La strada dei coccodrilli di Bruno Schulz (Le botteghe color cannella). Ora che Mauro Mattia ha composto le tante fila del percorso di Tiziana in un libro che è insieme dichiarazione d’amore e, esso stesso, opera d’arte, il richiamo a Schulz mi pare un’evidenza insopprimibile. Uno Schulz, beninteso, malato di rivelazione; che rimane, lui per primo, basito dinanzi alle epifanie cosmiche del grottesco; che insegue la realtà del grado più basso per cogliervi i segni del miracolo inconsapevole e, tutto sommato, futile e gratuito del quotidiano. Sono da tempo tentato dal proporre una lettura incrociata e personale delle derive schulziane: ebbene, anche in Tiziana il grado più basso della materia (o la forma nella più assoluta elementarità) è il presupposto di figurazioni imprevedibili che spesso sollecitano non tanto un discorso, quanto un altro dire: il ridicolo. La mia ricerca muove fin dall’inizio dagli oggetti, dalla banalità e serialità del quotidiano, dal box in cui veniamo parcheggiati infanti e dal quale cominciamo da subito a cercare i segni di espressione di noi, di comunicazione e di condivisione del mondo[6].
Dunque, ridicolo è il pensiero nell’attimo della sua esitazione dinanzi al ripresentarsi dell’oggetto, è il banale nel suo prepotente ritorno alla nostra attenzione: quando, insomma, il fenomeno già notato riappare, senza che ci sia da parte nostra scopo o intenzione di provocarne la ricomparsa: e con ciò stesso ci impone una risposta. Che non c’è: sulla tela compare ciò che ridico, ma appunto solo in quanto lo-ridico.
È questa la fonte della pietas di Tiziana, della delicatezza con cui muove la trama delle sue creazioni per proteggere, avvolgere, de-semantizzare cose e persone? L’arte accoglie le cose, le riceve nella loro più intima fragilità. Cattura l’odore del pane di casa, lo rinchiude e lo salvaguarda proprio nel momento in cui, consegnandolo alla permanenza dell’immutabile, lo rende simile a un cadavere (Zolle e Pane Quotidiano, 1997-2009). Le sagome di creta diventano konvolut, i corpi si trasformano in reliquie (Calligrafie del corpo, 2004-07).
L’esercizio dell’arte si fa rarefazione barocca: Vele o Figurine che siano, al centro delle immagini è una disattenzione, una rilassatezza – quasi un dimenticar se stesse, un farsi cogliere impreparati, che offre un riscatto poetico all’atrocità del divenire. Ma c’è – ed è insomma questo che mi interessa – c’è in Tiziana un discorso in più, che è segnato dalla trasformazione dell’esperienza. Del trauma dell’esperienza. Ognuno di noi ha la sua casa mentale e da lì esce ogni giorno per incontrare il mondo. Le pareti di questa casa sono costituite dal lessico famigliare che è stato come la malta di costruzione della propria individualità. La peregrinazione interrotta tra le esclamazioni, le asserzioni, i richiami non può che essere fermata sulle facciate delle chiese, le chiese dove ci hanno catalogati, affogati nelle acque benedette. Il nostro stare al mondo ce l’hanno disegnato già da lì[7].
Nel perenne dialogo tra materia e forma, Tiziana ha inserito il ricordo come terzo elemento, necessario a restituire ai primi due la possibilità di riscattarsi dall’ovvio. Ovvero: la materia del ricordo reinventa una possibilità all’espressione alterando la forma che la conteneva, mentre a sua volta la forma-in-divenire del ricordo cambia la materia, impedisce di condensarla in una fissità perenne. Di nuovo Schulz, e Kantor che lo prosegue. Tiziana s’inventa un personale percorso di disattenzione attenta, un lusso da flâneur che proietta sugli oggetti e sui panorami gli scampoli irriverenti della propria storia. Memorie di famiglia, memorie di figlia. Sciarpe e Lessico Famigliare trasformano l’operazione artistica in un’azione a rovescio di incisione del senso sul supporto. Frasi scritte al contrario, ricamate all’inverso costruiscono la trama d’arte dell’opera, che non si presta al significato, piuttosto lo lascia fluttuare. Ed è in questa sospensione che lo inchioda, invece, la struttura lapidea che, nelle intenzioni dell’autrice, avrebbe dovuto contenere l’opera.
***
Un flâneur, si sa, non viaggia tanto nella memoria, quanto nella sua memoria. Chi tematizzi il deja-vu è persino più audace: le forme dei propri ricordi descrivono posizioni oggettive, atti assoluti di ribellione che trasformano il rapporto con la storia, lo reinventano, obbligano a leggere una permanenza del transitorio, alterano i rapporti di senso, estenuano le cronologie, procedono per salti. Gioca a sparigliare le carte, il flâneur, e copia il divin fanciullo di Eraclito-Nietzsche. Tesse la trama di una nuova continuità. Estetica?
***
A chiosa di quel che ho scritto, una nota. Tiziana Fusari, pittrice, rara nel panorama italiano. Scomparsa improvvisamente nel 2012 per l’inclemenza di un male atroce e rapidissimo. Viveva a L’Aquila. Negli ultimi periodi, la sua ricerca denota sempre più l’esigenza di un ricorso alla memoria personale, da trasformare – vuoi per azione, vuoi per contestualizzazione – in materia dell’opera. Per slittamenti progressivi, trasfiguranti, questa memoria si fa sempre più intima, emotiva, personale. Attorno al 2009, con gli esiti del terremoto, il percorso di Tiziana subisce un’ultima evoluzione: ne La vita in fasce (2009-12) protagonista è una borsa:
A casa di mia madre. La scatola è sopra l’armadio. Dentro, due rotoli di fasce per neonato. La vita in fasce perché la vita è costantemente “in fasce”, ogni ora, ogni giorno, in un quotidiano, rinnovato stupore; le fasce quale sostegno sia all’inizio che alla conclusione della vita ed “in fasce” si traduce la raccolta di testimonianze fotografiche che nella borsa hanno il loro Virgilio. Per circa un anno, dall’aprile 2009 all’ottobre 2010, il tessuto discontinuo e sempre incompiuto della memoria viene rappresentato per il tramite di una borsa rossa e blu. La borsa, opera delle mani sapienti di mia madre, realizzata con il tessuto di una coperta di corredo di sua madre, mia nonna, per tessere fotografiche diventa testimone di un viaggio il cui percorso si dipana su una tela interminabile eppure costretta nella sua dimensione finita. La borsa come il viaggio e “il viaggio non finisce mai – sottolinea Josè Saramago – Solo i viaggiatori finiscono. Ma anche questi possono continuare ad esistere nella memoria, nel ricordo, nei racconti”. Ad una borsa, alla borsa di mia nonna, di mia madre e mia, si consegna – e io ho consegnato – il contenuto irrinunciabile della vita per quel che è stato, per i pochi simulacri di memoria di sé dei quali ciascuno non vuole, non riesce o non può fare a meno. Si viaggia, oscillando nell’andare, tra l’esserci e il non, a metà strada tra allucinazione e realtà, protagonisti inconsapevoli di una sola collettiva storia che attraversa gli anni e le avversità. La borsa oggetto simbolo di una migrazione ininterrotta[8].
Quel che Tiziana non dice, non racconta, è la vita da sfollati che impone a lei e Mauro il viaggio, o almeno il suo incipit. E la borsa, che da subito li accompagna, si propone nella rarefazione fotografica del racconto con la potenza straordinaria del deja-vu. Così, quando, ad esempio compare tra le derive dei tubi innocenti che violano lo spazio di una casa semidistrutta, avvinghiata ad uno snodo come ostinatamente, per non lasciarsi andare, senti che grazie ad essa il flâneur ha saldato le forme della catastrofe attorno ad una nuova percezione del tempo e della memoria. Flâneuse d’eccezione, Tiziana inserisce allora se stessa all’interno del fotogramma, riscattando il valore di rovina del frammento, trasformando il deja-vu attraverso il ricorso alla memoria insieme personale ed ancestrale (la borsa parla di sua madre, sua nonna, lei…). Il valore “puramente interruttivo” della citazione opera un cortocircuito tra il suo volto e la borsa, mentre condiziona a sfondo (semplice tappeto ritmico narrativo) i bastioni del Castello dell’Aquila. Questa storia, nel momento in cui svanisce, è già appena diventata nostra.
[1] W. Benjamin, Strada a senso unico, in Opere Complete, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser ed. it. a c. di E. Ganni, vol. 2, Einaudi, Torino 2001, p. 455.
[2] Catherine Perret, cit. in G. Scaramuzza, Citazione come oblio, in “Leitmotiv” n. 2, 2002, online all’indirizzo http://www.rodoni.ch/zemlinski/PDF/benjaminbaudelaire.pdf.
[3] Cioè l’illusione di un arresto del tempo che segue il movimento rapido dell’occhio (nistagmo o saccade) durante la percezione.
[4] Tiziana Fusari, Rewind, a cura di Mauro Mattia, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 56-7.
[5] Ivi, p. 58 e 272.
[6] Ivi, p. 264.
[7] Ivi, p. 256.
[8] Ivi, p. 280 (Diario, 18 giugno 2010).
Scrivi un commento