E se la catastrofe fosse stata prevista, esattamente nei modi in cui si sta realizzando, da un pensatore non più alla moda come Karl Marx?
di Renato Nicolini (con una testimonianza di Marco Fioramanti)
Che l’apocalisse sia in corso non c’è da dubitarne. Evidenti testimonianze del suo avvento, i fiumi di fango a Giampileri, ad Ischia, ad Atrano. Il terremoto dell’Aquila – e la paralizzante incapacità di progettarne almeno la ricostruzione. In Giappone le costruzioni resistono al sisma, ma non allo tsunami. Il terremoto nel Cile di Kleist si ripropone in tutta la sua logica, dove ciò che resiste alla natura non resiste alla furia, ancora più distruttiva, dell’uomo.
Dopo terremoto e tsunami, cosa potrà resistere alla centrale nucleare in fiamme, da cui sostanze radioattive vengono continuamente versate in mare? Dalla Chiesa simoniaca chi ci difenderà, come dai preti pedofili? Si dice sia comparso l’anti-cristo nella lontana isola di Antigua, ma sono voci sicuramente esagerate, siamo soltanto agli inizi. Quali saranno gli sviluppi dell’apocalisse? Che cosa condurrà la Terra alla distruzione e la sua popolazione alla morte? Forse l’inizio della fine del mondo va situato ben prima del XXI secolo (l’11 settembre 2001 è inadeguato rispetto agli orrori delle trincee della Prima Guerra Mondiale e del nazi-fascismo)…
Slides (Incisioni inedite dell’Apocalisse tratte dalla cinquecentina “Testamenti novi” – 1562)
A proposito della vita e della morte, sento la suggestione di Philip K. Dick. In uno dei suoi libri più famosi, i morti in una spedizione su Marte fanno arrivare un messaggio ai vivi. “Noi siamo vivi: voi siete tutti morti”. La verità è all’esatto opposto delle nostre illusioni. La scissione radicale tra soggettività e verità, dovrebbe portarci a riflettere se è possibile chiamare ancora vita la totale soggezione dei nostri giudizi all’apparato massmediologico. Ne L’attimo fuggente Peter Weir – attraverso il personaggio del professore interpretato da Robin Williams – cita con entusiasmo l’Ulisse di Tennyson, in particolare la sua promessa di guidare i suoi compagni “oltre l’orizzonte”. “Fino alle Isole Felici / dove regna il Grande Achille”. Ma il Grande Achille è morto, e le isole felici dove regna sono le isole dei morti! Dunque la promessa dell’Ulisse di Tennyson ai suoi compagni equivale ad un destino di morte. Nell’Ottocento, Utopia e Morte si stringono l’una all’altra. Penso alla New York corrotta, così diversa dalla purezza della campagna, di Pierre o le ambiguità di Hermann Melville, dove tutti i personaggi del romance trovano la morte… O al personaggio più popolare di Melville, il Capitano Achab, Ulisse esplicitamente negativo, più incarnazione del Male che del Bene rispetto alla Balena Bianca che simboleggia la natura.
La percezione di una crisi mortale percorre tutta l’opera di Dostoievski, in particolare I demoni. Ma anche un autore votato alla serenità, perennemente sotto il fascino della scoperta avvenuta in età infantile di un sesso, quello femminile, che “vive solo per il piacere”, come Henry James, avverte la negatività del suo tempo. La Londra della Principessa Casamassima (che altri non è che la Cristina Light già fatale a Roderick Hudson, la cui bellezza altera ed egoista ricorda la testa colossale di Giunone nella Villa Ludovisi, indifferente ai mortali), con il suo intreccio di lavoro operaio, cospirazioni, utopie e attentati, appartiene alla stessa visione della negatività del mondo contemporaneo de I demoni.
E se la catastrofe fosse stata prevista, esattamente nei modi in cui si sta realizzando, da un pensatore non più alla moda come Karl Marx? Marx aveva individuato scientificamente, molto prima di Freud, l’istinto di morte e di autodistruzione del capitalismo, molto più forte del principio di piacere e dei meccanismi dell’accumulazione. L’apocalisse inizia quando l’etica (scissa) del capitalismo si diffonde dalla fabbrica alla società. Marx aveva individuato nella classe operaia la forza storica che avrebbe dovuto sconfiggerla, il “movimento reale che abolisce questo stato delle cose”. Gli operai avrebbero respinto l’invasione della fabbrica capitalista e con movimento esattamente contrario fatto entrare, invece, la società nella fabbrica. “…ecco, si aprono, / abbattute, le porte; e, cantando, / entrano gli operai. Hanno bandiere rosse strette nei pugni, con le falci e i martelli; / hanno i mitra imbracciati; hanno fazzoletti / rossi annodati al collo, sui colletti anneriti / delle tute… /… “Siete liberi – ci ripetono, / come se noi non fossimo più in grado / di capire queste parole – “Siete liberi!”. Così canta Pasolini, nella bellissima scena finale del “Calderon”. Ma gli operai, la loro battaglia di liberazione, non l’hanno mai vinta, l’hanno persa. Hanno perso la loro forza, assieme alla loro unità, con la scomparsa di ogni relazione misurabile tra lavoro e profitto. Così risponde Basilio a Rosaura, battuta conclusiva del “Calderon”: “Un bellissimo sogno, Rosaura, davvero / un bellissimo sogno. Ma io penso / (ed è mio dovere dirtelo) che proprio / in questo momento comincia la vera tragedia. / Perché di tutti i sogni che hai fatto o che farai / si può dire che potrebbero anche essere realtà./ Ma, quanto a questo degli operai, non c’è dubbio: / esso è un sogno, nient’altro che un sogno”.
Oggi non è più il lavoro la principale fonte di produzione di ricchezza, il valore è prodotto – come in un nuovo Medio Evo – dalle rendite e dalle manovre finanziarie. Come andrà a finire? Lo voglio raccontare in forma di favola, La favola del bene comune.
“C’era una volta, non tanto tempo fa ma proprio ai giorni nostri, una società in cui la ricchezza si era talmente sviluppata che si sarebbe potuto pensare di attuare un nuovo principio di distribuzione. Ciascuno avrebbe lavorato a suo gusto, perché avrebbe potuto vivere semplicemente partecipando alla distribuzione del prodotto assicurato dai beni comuni. Il sole e le altre forme di energia naturale avrebbero potuto assicurare il fabbisogno energetico, mentre la trasformazione dell’intero pianeta in area wi-fi avrebbe ridotto al minimo la necessità di spostamenti. Le forme di lavoro si sarebbero evolute in corrispondenza a una società della curiosità e della differenza. Purtroppo questo non avvenne. La possibilità di una società libera dal bisogno del lavoro fu sconfitta; e la cosa più singolare è proprio il modo in cui questo avvenne. Non si discusse mai di cosa avrebbe potuto significare per l’Italia la scelta di far crescere i beni comuni. Provo a elencarli, per farmi meglio capire. Il territorio che ci ospita e di cui dobbiamo curare con attenzione crescente lo stato di salute; il paesaggio, sempre più compromesso da una sciatta casualità che trasforma la campagna in periferia continua; le città, cornucopia infinita di risorse, d’immaginazione, di socialità; il nostro patrimonio culturale, monumenti, aree archeologiche, centri storici, musei…; la scuola; la formazione; l’università; l’immaginazione; il teatro e lo spettacolo; il cinema; l’innovazione tecnologica e scientifica. Si discusse invece delle miserie del comunismo, nella forma (che sicuramente Marx non avrebbe né riconosciuto né legittimato…) che aveva assunto nell’URSS. A sconfiggerlo, più degli orrori dei lager di Stalin e di Breznev, sono state le file e il fastidio invincibile che provocano in chi è assuefatto al tempo reale, e la scarsità di beni di consumo in vetrina rispetto all’offerta delle società capitaliste.
Voltate le spalle a quello che poteva somigliare al sogno del comunismo di Karl Marx, anziché aver cura dei beni comuni si decise di metterli sul mercato, cioè di trasformarne la natura da pubblica in privata. I beni demaniali – che, tra le altre cose, avrebbero dovuto costituire la garanzia del debito pubblico – vennero alienati, a partire dalle spiagge per finire con gli ex forti militari. Anche l’acqua (che Adamo Smith definiva con intelligenza come il bene più utile, e che proprio per questo non può trasformarsi in valore di scambio) fu privatizzata. Dato che non esisteva più il concetto di bene comune, il territorio fu abbandonato all’abusivismo e al degrado ambientale. I parchi nazionali, cominciando dal Parco Nazionale del Vesuvio, furono trasformati in discariche, in nome dell’emergenza. Venendo meno lo spazio pubblico le città si trasformarono in una serie di enclaves private in lotta ciascuna contro tutte le altre. Condominio di J .G. Ballard fu riconosciuto come il libro sapienziale, profetico, di questa forma d’Apocalisse. Dopo pochi decenni, il livello delle acque si era innalzato, ed i monti si erano sfaldati in fango e frane. L’Italia era totalmente sommersa.
(“Night Italia” n.6, 2011)
La testimonianza di Marco Fioramanti
Caro Renato…
innumerevoli gli incontri che fecero seguito a quel lontano 1982 quando ci conoscemmo al Teatro Olimpico durante una performance di Falso Movimento, poi le visite in Assessorato, la tua lettera-referenza per il Gruppo trattista, lasciapassare ufficiale per il mio primo blitz berlinese, le chiacchierate da tè o al bar/ristorante sotto casa, i tuoi racconti di quando tu – giovane studente di architettura – andasti con un gruppo di ricerca a Cuba e conoscesti Che Guevara; i tuoi progetti teatrali, l’entusiasmo con cui nei primi anni 2000 sostenevi il nostro gruppo di Pittura Clandestina, gli sms che mi lanciavi ogni tanto, come quello per raggiungerti a Villa Borghese per documentare la scopertura della targa di tuo nonno Giovanni, scultore della fontana del laghetto di Villa Borghese, fino alla tua generosa voglia di essere l’editorialista di “Night Italia”.
Sei stato il mio punto di riferimento e mi hai insegnato che si può essere creativi e geniali, pur restando understatement.
Su esplicita e motivata richiesta della rivista ZRAlt! ho ben acconsentito a riproporre il tuo Editoriale pubblicato sul n. 6 di “Night Italia” che sembra scritto proprio per il trimestrale aquilano, tanto premonitrici e attuali sono le tue riflessioni sull’apocalittica catastrofe che continua ad incombere sulla nostra sgangherata e non-egualitaria società.
Colgo anche l’occasione per riproporre il mio scritto su quella bella, “Calda estate romana”, che ha contrassegnato la tua attività d’intellettuale a tutto tondo.
Un bel ciao dal tuo amico Marco.
Roma, autunno 2014
LA BELLA ESTATE
di Marco Fioramanti
Esce di nuovo in libreria – con una lunga introduzione dell’autore che tiene conto dei fenomeni accaduti nell’ultimo ventennio – il volume di Renato Nicolini sul fenomeno indiscusso dell’Estate Romana: una stagione decennale di un “effimero metropolitano”.
Scrive Jack Lang, già Ministro della cultura francese, nella prefazione del libro (edito dalla casa editrice calabrese La città del sole): “Un assessore alla cultura di 34 anni metterà nel giro di qualche anno della dinamite al torpore dell’ambiente. La sua modalità operativa? Doppia: creare la sorpresa e il desiderio. Il suo credo? Da un lato – rivoluzione copernicana. Se ce n’è una – fare della folla la protagonista dello spettacolo; dall’altro, abolire la gerarchia tra cultura d’élite e cultura popolare”. Attraverso la sua azione, l’Estate Romana esplode in mille fuochi: Circo in piazza, Città del Rock e del Jazz, Musica nella Città, Teatro d’appartamento, Arte della strada, Città del teatro, Città televisiva… è palpabile, dappertutto l’ “effimero”, sollecitato dai suoi desideri, rimbalza sulla città. Ma c’era soprattutto la sensazione che, quello che Renato chiamava con questa espressione così convincente il “meraviglioso urbano”, fosse proprio una realtà. Una realtà forte, un’incredibile ricchezza, la cui esistenza era dovuta interamente al solo talento del suo ideatore. I romani dovevano accorgersene subito dopo la sua partenza, nel 1985…”
Era il 1977. Il Pci aveva raggiunto alle elezioni dell’anno precedente il suo massimo storico e aveva dato alla Capitale una giunta d’eccezione sotto la guida del sindaco Giulio Carlo Argan, eminente storico d’arte. Alla Cultura era stato nominato l’architetto Renato Nicolini. Era il tempo degli “Indiani metropolitani” e una Bologna blindata si preparava ad accogliere la tre-giorni del Movimento sulla Repressione. Ben presto si videro gli effetti. Roma esplose improvvisamente in un tripudio eclettico di manifestazioni culturali.
Alla Basilica di Massenzio spetta l’onore di inaugurare la festa: sul grande schermo bianco avvolto dai ruderi dell’antica Roma viene proiettato il film “Senso” di Luchino Visconti davanti a centinaia di persone (ingresso gratuito, ndr) e la sera successiva, a pagamento, proiezione de “Il pianeta delle scimmie” davanti a migliaia di spettatori. Tale successo inaspettato portò alla costruzione di quattro grandi schermi su cui venivano proiettati in simultanea quattro diversi film. È lo stesso assessore che rimane stupito dall’entusiasmo delle masse e così commentava “Venendo dall’ospedale, dove quel giorno era nata mia figlia Ottavia, sul tardi, verso mezzanotte, andai a vedere se la manifestazione stesse avendo successo, c’erano quattromila persone e io mi trovai seduto tra la classica famiglia romana che stava continuando il suo picnic e un gruppo di ragazzi che mi passavano, presumo, uno spinello”.
Il Napoleon al Colosseo
Estate 1981, al Colosseo si proietta il Napoleon di Abel Gance (1931): è la prima volta dopo il restauro voluto (e finanziato) da Frank Ford Coppola. Ottomila spettatori paganti. “Nell’ultima mezz’ora della sua durata – ricorda Nicolini – Gance aveva previsto l’entrata in funzione di altre due macchine di proiezione laterali, oltre a quella centrale in modo da dilatare l’immagine con effetti di grande panorama”. La vittoria in Francia di François Mitterrand alle elezioni presidenziali portò grande prestigio alla serata: ospiti illustri, la firstlady Danielle Mitterrand, e Jack Lang, nuovo Ministro alla cultura. Verso la fine della proiezione venne improvvisamente a piovere. “Nazzareno, detto Attila – ci riporta l’autore – responsabile del servizio vigilanza, ebbe l’idea. Furono presi dei sacchi a perdere della Nettezza Urbana, di quelli grandi ancora in uso a Roma per i condomini, e vennero praticati dei buchi per la testa. Così Petroselli, M.me Mitterrand, Jack e Monique Lang ebbero degli impermeabili tanto efficaci quanto poco formali”.
Il Festival dei poeti a Castelporziano
Litorale di Ostia, 21 giugno, giorno d’equinozio, dell’anno 1979. Inizia una tre-giorni di poesia tra le dune. Le prime manciate di sabbia piovono sui versi, poco graditi, di Dario Bellezza. Ulteriore reazione del pubblico quando anche poeti non ufficiali si sentivano in diritto di salire sul palco. Allen Ginsberg stemperò la situazione che stava degenerando “intonando il mantra del padre morto”, accompagnato dal banjo di Peter Orlovsky. L’organizzazione decise alla fine di far recitare tutti secondo un ordine alternato. L’ultima sera si esibirono i poeti della beat generation, da Burroughs a LeRoy Jones, “che aveva scelto di chiamarsi Amiri Baraka e cominciò Money money money tra un entusiasmo indicibile”. Grande fu l’emozione quando Evgenij Evtuschenko si rivolge al pubblico recitando in italiano. L’ultimo applauso è stato per Ginsberg che portò tutti a salire sul palco facendo cedere la struttura in tubi Innocenti che lentamente si adagiava sulla sabbia senza provocare danni.
Il camion scomparso
Durante la presentazione del libro al Nuovo Sacher, un Nicolini sobrio in Loden stile-Monti (scrive un gazzettiere cinico dei nostri giorni, ndr) inizia il suo intervento rievocando la prima uscita del suo libro come cronaca di un grande insuccesso editoriale: “un’edizione quasi fantomatica che, per colpa di un intero camion pieno di copie scomparso nel nulla, oggi è ritrovabile solo fra le bancarelle e i mercatini all’aperto sparsi per la città”.
(“Articolo 33”, Marzo/Aprile 2012)
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