Sembra che il proliferare della scrittura o meglio delle scritture abbia reso l’opera letteraria sempre più improbabile e anacronistica 

di Francesco Correggia

Da molto tempo ho il piacere di scrivere. La mia non è certo una scrittura letteraria ma un modo per sopravvivere, per prendere tempo, per sperare. I miei scritti ormai sono una costante nel mio lavoro da pittore. Nel 1998 avevo in mente di scrivere un inventario sulle parole di fine millennio. Quelle parole che testimoniano il tempo. Le vedevo come gocce di sangue che si depositavano sulla realtà delle cose prima di sparire. Pensavo ad un archivio di parole da salvare, da portare con sé nel nuovo millennio.

Mi ritrovai invece a scrivere intorno all’opera, alla sua genealogia, al suo rapporto con le immagini. Queste mie brevi supposizioni sulla scrittura sono un tentativo di svelarne non i segreti ma le condizioni che la fa essere ciò che è, una sfida, una possibilità, una salvezza. La scrittura è una passione che divora, che prende dall’interno, che non fa dormire. Si ha bisogno di scrivere non solo per diletto ma per ricongiungersi agli altri, per dire ciò che altrimenti rimarrebbe inespresso, chiuso dentro di noi. Per quanto mi riguarda scrivere non è una sorta di supponenza autoriale, di ansia, di desiderio irrefrenabile ma una condizione quasi fisica, una possibilità di uscita dal mondo, di prenderne le distanze per poterlo osservare meglio. Essa è uno smarrirsi nel silenzio, nel raccoglimento che ogni scrivere esige.

Scrivere è un’avventura poetica estenuante. Chi ne è l’autore è quasi sempre insoddisfatto nel rileggersi a stampa avvenuta. L’insoddisfazione è costante per uno scrittore anche mentre scrive. Egli sorveglia la sua dea ma non tanto da impedirle di scorrere sui fogli, di compiere il destino tracciato dagli uomini sventando i tradimenti della parola, i suoi capricci e diavolerie. Ciò che la scrittura alimenta è una generosa solitudine, che pur allontanandoci dal mondo, ci rende felici. Le parole girano in testa nella loro sonorità, nella loro verbalità, ma diventa difficile tradurle in scrittura, in un testo che ha senso. Il problema che deve affrontare uno scrittore, ma anche chi si diletta con lo scrivere, è che la scrittura sembra procedere per conto proprio. È essa a comandare le parole e non viceversa. Scrivere vuol dire lasciarsi andare, lasciarsi guidare da lei, da quel flusso ininterrotto che non può avere padroni e che pure va organizzato, risistemato, ricontrollato senza che ne vada sprecata una sola goccia di desiderio, di volontà, di possibilità. La scrittura in fondo scorre libera su fogli, quaderni, taccuini come un flusso divino che attenua la nostra angoscia, appaga la nostra solitudine. E’ proprio questa quantità di energia, di malinconie inespresse che ci fa prendere la decisione di organizzare il flusso dei pensieri, di renderli scrittura. A questo punto la presenza dell’altro fa capolino come una specie di aspirazione sottesa ma necessaria. Ora la domanda che assilla chi scrive è: si può fare a meno dell’altro, del lettore, quando si scrive dobbiamo tener conto di chi ci legge o bastiamo a noi stessi, noi e la scrittura e nient’altro? Certo si inizia sempre con un faccia a faccia con la scrittura che non prevede il mondo dei lettori o un lettore qualsiasi. La supposizione diventa quindi quella per cui scrivere ha già dentro di sé la risposta e cioè che c’è sempre un lettore quando si scrive, c’è sempre qualcuno cui è destinato lo scritto. C’è sempre un fondo da cui essa si genera anche quando scriviamo per diletto. Ed è proprio in questa metamorfosi della scrittura che, da modo di esprimersi su vari supporti senza alcuna finalità se non quella del proprio piacere, si trasforma in una logica necessaria dell’esistenza che assume varie sembianze. La scrittura diventa un esercizio di libertà che si struttura, si organizza in frasi, proposizioni, periodi mostrandosi nella sua compiutezza da cui traspare comunque un senso di incompiuto, quasi una mancanza, una privazione.

Slides (a cura di Francesco Correggia)

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Scrivere somiglia ad un esercizio di morte che prolunga sempre di più il tempo della fine. A volte essa chiede di più, tanto da non potersene liberare così facilmente, proprio perché il suo segreto si rivela racchiuso nella vita stessa dello scrittore, in quel tempo prima, passato, da lui considerato come perduto. Questo tempo lo si ritrova finalmente all’interno di sé, com’è accaduto a Proust, grazie a momenti in cui si hanno in modo inaspettato particolari epifanie. A quel punto a entrare in gioco sono tutti i nostri sensi in una sorta di rimemorazione di ciò che si pensava confinato nell’oblio e perduto per sempre e che ora ritorna suscitato dalla scrittura. Bisogna tornare spesso sulle frasi appena scritte e ricomporne, la sintassi, la grammatica, trovare gli spazi adeguati tra una proposizione e l’altra, così come con la pittura bisogna tornare più volte sul dipinto, riguardare ciò che si è fatto, fare in modo che lo sporco del colore si tramuti in brillantezza, intervenire sull’equilibrio formale del quadro, sulla forma, sulla grammatica del colore. Occorre restituire energia, salvare, rintracciare, liberare ma anche attenuare i toni, le consistenza, i passaggi, a volte farsi guidare dal sottofondo della scrittura, come dal fondo della pittura, dai suoi ritmi, dai suoi voli nelle vallate dell’immaginario e del sogno. Tutto ciò senza per questo rinunciare al debito di riconoscimento verso chi ci ha preceduti e ha donato tutto se stesso per la scrittura, per l’arte. Notti insonni, vite in bilico, rinunce e tormenti, ripensamenti e angosce. Tuttavia il modo in cui si scrive sta cambiando. Gli strumenti hanno sempre la loro importanza e oggi scrivere può sembrare più facile, più immediato, meno sofferto rispetto al passato.

Quando non c’era ancora il computer con i programmi con cui scrivere, lo scrittore possedeva una buona macchina da scrivere e questa gli bastava. Era la sua arma, quasi il suo corpo. Quante volte nel cinema abbiamo visto romanzieri chinati davanti alla tastiera di una macchina da scrivere. Egli stesso era tutt’uno con il suo strumento, tanto da non separarsene mai. Lo scrivere diventava una cerimonia particolare in cui erano determinanti i luoghi stessi della scrittura, una casa, un salotto, un ambiente isolato, ma sempre uno spazio raccolto, quasi fuori dal tempo. Lo strumento subiva una metamorfosi, da oggetto meccanico si trasformava in un oggetto d’amore diventando un corpo unico con lo scrittore che si incurvava, si protendeva quasi verso quel centro di concentrazione e irradiazione. Nel tempo della macchina da scrivere era difficile tener dietro alle parole che stavano dentro la nostra testa. Si inciampava sui tasti, a volte scorreva il carrello meccanicamente, intere parole saltavano. Gli errori di battitura erano tanti. Si faceva fatica a rileggere, a correggere, a rivedere e riorganizzare il flusso della scrittura che sembrava precipitare dentro le pagine, con fatica, con lentezza. Poi occorreva fermarsi, levare i fogli dal blocco e rileggere, i fogli potevano anche essere gettati via con rabbia. Si rileggeva e si proseguiva ciò che si era scritto dopo aver corretto con una penna, un pennarello, un lapis rosso e blu le parole sbagliate, gli incisi, gli errori di battitura. Quelle pagine diventavano arabeschi di un desiderio, pagine visive del desiderio di scrittura, quasi dei disegni di un dicibile ancora da venire, una mappa di possibilità scritturali, una giacenza disponibile. In questo la scrittura somiglia alla pittura. Non intendo qui difendere la vecchia macchina da scrivere, essa ormai è fuori commercio, nessuna la usa più, né tanto meno intendo elogiare l’epoca in cui si scriveva con la penna, la stilo, la matita, ma voglio solo sottolineare come il cambiamento di strumento in bene o in male abbia modificato l’ottica con cui si scrive e le stesse condizioni con cui si legge un libro.

Debbo confessare che per quanto mi riguarda non c’è mai stata una distanza sostanziale tra la pittura e la scrittura, ma solo una differenza di partiture, un’asimmetria che ha sì le proprie regole ma che poi finisce per ricomporsi in maniera unitaria nella dimensione del farsi dell’opera come questione inscindibile dal senso d’essere, l’opera come aporia, sostanziale trasversalità illuminante. Non può esserci contraddizione fra l’opera pittorica e l’opera poetica, letteraria, scritturale. Ed è proprio questo che stiamo perdendo forse per sempre.

Non è che ora tutto ciò sia mutato; è solo cambiato il sottofondo dello scrivere, la scenografia del suo accadere. Lo scrittore continua a battere freneticamente su una tastiera sempre con ossessione, ma essa ormai è veloce come un turbine. Appoggiare il dito su un tasto significa far partire rapidamente le lettere che compongono la frase. I tempi di correzione sono più veloci, scrivere è quasi un fatto immediato, i tempi fra il pensare e lo scrivere si accorciano, la rapidità è tutto. Bisogna anche considerare che ora tutti possono scrivere, ne hanno il tempo e la tecnologia adeguata. Spedire mail, scrivere sul blog, su facebook, sui social network, scrivere piccoli racconti e spedirli in giro per il web è ormai una consuetudine a cui non potremmo mai rinunciare. Non si ha bisogno di attendere a lungo, basta un click e via, noi siamo nel mondo, abbiamo i nostri lettori e sono ammessi anche errori di grammatica, nessuno ci fa più caso, l’importante è il contenuto del messaggio, la sua presa diretta. Non si ha bisogno di riflettere su ciò che si scrive, si scrive e basta. È come pronunciare un nome, parlare con qualcuno. Tutto accade in tempi rapidi, in un esplodere di messaggi, condivisioni, pareri giudizi. Al contrario di quel che appare è lo scrivere che sembra annunciare nell’epoca del proliferare dei linguaggi la sparizione della scrittura, un ritorno di un’inconsueta e inaspettata oralità secondaria. Forse ci stiamo solo sbagliando e ci troviamo davanti a qualcosa di nuovo, di radicalmente differente rispetto al passato.

Le librerie propongono libri con autori che molte volte vediamo in televisione. Gli autori sono molto divertenti. Per la maggior parte sono giornalisti, pubblicisti, presentatori televisivi, magistrati, penalisti, imbonitori, cantanti, qualche calciatore. Non c’è niente di male che essi scrivano magari per solitudine, per insoddisfazione, per farsi perdonare la loro imbarazzante e perpetua visibilità. Il fatto è che ormai basta essere celebri, popolari per pubblicare qualsiasi cosa assuma le sembianze della scrittura. La scrittura per costoro è un modo per celebrarsi maggiormente, per affermare la propria autorevolezza. Gli editori fanno a gara per avere i nomi più prestigiosi. Lo scrivere diventa uno status symbol. Gli editori fanno cassa e tutti sono contenti. Basta andare in libreria per rendersi conto della quantità di libri di personaggi televisivi noti, di pubblicisti, attori, attrici, comici, messi in bella evidenza negli scaffali delle librerie più importanti. Ormai a riempire gli scaffali sono loro, quasi a sostituire i grandi e riconosciuti scrittori della letteratura mondiale. Quando entro in libreria mi sforzo per cercare di capire se mi sono perso qualcosa. Comincio a leggere qualcuno di questi romanzi, ma dopo le prime venti pagine, mi coglie la noia, l’imbarazzo. L’incipit qualche volta funziona, altre volte l’autore dimostra di avere seguito una buona scuola di scrittura creativa. Poi la descrizione diventa noiosa e sterile, i dialoghi esasperanti e volgari. A metà libro il presunto scrittore nel tempo della scrittura elettronica gioca la sua ultima carta: la digressione. Egli cerca di catturarci, ma la scrittura è sempre più banale, immediata senza alcuna tensione, senza alcun ritmo. Il racconto sembra concludersi, ma potrebbe anche non finire e continuare all’infinito. Alla fine prevale l’autobiografia che diventa non un gioco degli specchi importante condotto con ironia, ma un narcisismo auto celebrativo. In realtà il presunto romanzo è un raccolta di luoghi comuni su come vivere e un taglia e cuci tipico della scrittura computerizzata. Niente di profondo. La domanda diventa ora; ma dov’è ciò che un tempo chiamavamo letteratura? Sembra che il proliferare della scrittura o meglio delle scritture abbia reso l’opera letteraria sempre più improbabile e anacronistica. Tutto si consuma in una gestazione variabile di sentimentalismi, passioni, invidie, gelosie come se bastasse ordinare qualcosa alle nostre mani che subito gocce roventi di esaltazione creativa si materializzano in scrittura. Essa così rasserena la nostra anima e quella dell’autore, compiendo ciò che per noi era qualcosa di improbabile e cioè essere presenti nelle corde delle dinamiche standardizzate della società mediale, nel mondo della realtà aggiunta. Dunque lo scrittore è proprio questo che cerca, il suo essere presente nel percepirsi esistente?

Duccio Demetrio nel suo libro dal titolo Perché amiamo la scrittura sostiene la tesi secondo cui lo scopo dello scrivere è un desiderio, un’attività che genera nuova materia che incorpora e trattiene parole, centellinando spazi e margini. Secondo la sua tesi lo scrittore è colui che riesce a incarnarsi nelle parole proprio perché per lui la letteratura passa in secondo piano: quel che è importante è il piacere della scrittura, il desiderio di scrivere che ci libera dal dolore. Egli scrive: “Prima di tutto c’è il modo di sentire la vita attraversata dalla scrittura”. Nella scrittura, sostiene ancora Duccio Demetrio, “c’è una specie di legame, di intreccio con i miti del passato, con la mitopoiesi, i mitologemi”.

Seguiamo ora cosa scrive Platone a proposito della scrittura e della sua invenzione. Nel Fedro ci racconta del rifiuto della scrittura di Socrate. Quando Theuth, uno dei vecchi dei dell’Egitto, va dal re Thamus a presentargli una delle sue originali invenzioni e cioè la scrittura come rimedio alla perdita di memoria, Thamus fa notare come lui non dica il vero, accecato dalla paternità della sua invenzione. Il Re sostiene che la scrittura non sia altro che un invito alla pigrizia per i discepoli, piuttosto che essere una medicina per la mancanza di memoria. La scrittura, dice Thamus, non è che una forma di alienazione che separa l’autore dalla verità. Il rifiuto del Re è da mettere in relazione al concetto di sapienza nel mondo dell’antica Grecia. Socrate attraverso Platone pensa che la scrittura allontani dal vero sapere che è nascosto nelle cose e che solo la parola può tentare di rinvenire o di accostarcisi. Il paradosso è che quel che dice Socrate lo dobbiamo proprio alla scrittura, a quel che scrive Platone. Jacques Derrida ne La farmacia di Platone, riprende proprio questo passaggio per sottolinearne la complessità e l’attualità. Chi scrive è quasi condannato alla scrittura. La scrittura si insinua nelle nostre vene come una specie di veleno che preso a piccoli dosi diventa un antidoto alla morte, alla sofferenza. Quel che voleva dire Socrate è che la scrittura è un dono che può ingannare se non la si guida con saggezza amando la verità. Essa contiene in sé sia la ricetta per la guarigione sia la malattia.

Ma c’è un altro passaggio degno di nota. Non si può pensare di scrivere se non si è in uno stato di abbandono, di riconoscenza. Roberto Bellarmino, noto prelato e scrittore della compagnia di Gesù, nel 1621 in De arte bene moriendi scrive di una lontananza dal mondo, di un morire al Mondo. Scrivere è una questione di fede che nasce dal cuore, è un offerta al Signore. Scriviamo quando sappiamo che le cose non ci appartengono e che esse vengono a noi perché noi ci rivolgiamo ad esse con amore. Raccontare qualcosa attraverso la scrittura vuol dire essere nel mondo e non del mondo. E la scrittura può aprire i suoi paradisi artificiali solo per coloro che essendo morti al mondo non temono la morte del proprio corpo per poter narrare, dire, raccontare ciò che può essere tratto dall’invisibile. Certo che l’amore è importante e forse è per troppo amore per la scrittura che l’amore smodato verso di essa può rivelarsi altrettanto dannoso quanto il non avere amore. Vi è nella scrittura qualcosa che ha a che fare con la cura e il sacrificio che sempre si rinnovano. Lo scrittore è felice quando sa di essere in uno spazio nuovo, di avere perso e di essersi rialzato, pur rimanendo invischiato in una trama da cui non può uscire se non senza pagare un debito di riconoscenza.

Al centro sembra comunque esserci sempre lei: la scrittura. Si tratta dell’autore, la sua solitudine, la sua maldestra e indecifrabile vita. La vera realtà è proprio ciò di cui siamo fatti ed è ciò che l’arte, la letteratura, la poesia e il pensiero su di esse ricercano. La scrittura e non tanto lo scrivere è un pensare, un saper cogliere essenze mentre si guarda il niente. Se lo scrivere è un modo di vivere, di gioire, di piangere, di compiere un gesto che per noi ha un grande significato e che ci ricompensa, la scrittura è una partitura, un piano dove niente è lasciato al caso, dove occorre la distanza, la sconfitta, l’amore, la sottrazione, la donazione. Nella scrittura c’è un cosmo che si dipana attraverso intrecci, sorprese, predizioni. Se il caos, l’avventura, la disseminazione sono coessenziali allo scrivere, tuttavia la scrittura fa di quei segni un universo dove la sincerità si mescola con l’ineluttabile ambiguità, la passione cede all’equilibro geometrico della narrazione. Così essa rivela mentre nasconde, si innalza mentre sembra deviare, cedere ad altri spazi. La scrittura da sola a volte si fa beffe dell’autore, sembra scoraggiare la lettura, a volte pare voler allontanare il lettore, a volte lo stanca. Lo fa perché vuole portarlo su un altro registro di lettura, su un altro piano ed è per questo che lo scrivere non indugia mai davanti a qualsiasi enigma anzi essa ne crea di nuovi e inaspettati. Quando la scrittura rimane in attesa, paziente sulla carta o davanti ad uno schermo, lo scrivere la incalza, con le sue tracce, i suoi enigmi, i suoi sprazzi di luce. Lo scrittore cerca un altro spazio, un altro supporto, una superficie che possa accogliere i segni, le tracce, le indistinte idee che lo attraversano per poi restituirli alla stessa scrittura, ancora alla tastiera, sullo schermo. Essa da sola continua il suo cammino, procede con la sua ansia indistinta di testimonianza. Quel che abbiamo annotato, scarabocchiato, su fogli di carta sparsi sulla scrivania è diventato il materiale, quel sottofondo di ciò che sarà nel libro. Lo stesso succede alla pittura quando l’artista prima del dipinto riempie di appunti, disegni, note non solo i suoi fogli da disegno, ma qualsiasi supporto che possa somigliare ad una pagina. Il vero progetto per uno scrittore come per un pittore è proprio questo pre-gettamento, questo recarsi in avanti senza sostegno, a volte senza alcuno scopo e non qualcosa di preordinato, di schematico e meccanico.

Scrivere la scrittura, performance di Francesco Correggia, IX London Biennale, Studio.ra, Roma, 1-3 maggio 2016

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Più che un esercizio lo scrivere è una pratica costante dell’arte del morire di ciò che diverrà scrittura, detto, legge, comandamento, libro. Lo scrivere si trasforma in scrittura, in libro scritto quando l’indistinto esce dalla sua soglia obliqua e si tramuta in un cosmo, in un universo a cui il lettore può finalmente accedere con pazienza e raccoglimento, pur nell’interdizione della parola scritta, la quale a sua volta si separa dalla voce, divenendo segno, immagine, espressione del senso. Di conseguenza la scrittura, allora come adesso, non può che essere un disegnare, un portare luce nelle zone d’ombra che s’incuneano fra un senso e l’altro tra incertezze, simbolismi e contesti. La differenza sostanziale tra un libro e un dipinto consiste nel modo di lavorare il linguaggio, di sottometterlo, di farlo esplodere, di farlo essere. Da una parte i segni verbali, le metaforiche poetiche, le semantiche narrative, le locuzioni, dall’altra i segni, le metafore, le immagini, i rimandi simbolici. Ciò che costituisce la dimensione dell’opera è proprio questo intreccio di luoghi, di costanti rimandi tra parola e segno, scritture e immagini. Scrivere alla fine diventa una fatica a cui non si può rinunciare, “un mestiere di vivere” come avrebbe detto Pavese, prima di suicidarsi, come se neppure più la scrittura potesse liberarci dal mal d’essere, dall’angoscia del vivere. Oppure essa è un lucido gioco intellettuale, un gioco mortale e tuttavia capace di un’intima grazia come accade nella scrittura di un autore ingiustamente ignorato come Guido Morselli. Ci vorrebbe una metodologia dell’approccio alla lettura del libro, all’opera stessa, in senso semiotico, antropologico, fantastico e metaforico, per comprendere l’incrocio sorprendente tra la scrittura e il nulla, la pittura e la scrittura.

Sembra ormai che non sia più necessario sapere come si scrive ma cosa si scrive. Invece è proprio il contrario; è come si scrive che è essenziale per ciò che si scrive. Questa è la differenza fra chi scrive per diletto e per passione e chi lo fa con giudizio e responsabilità. Tra chi può solo gioire del piacere di scrivere nell’intimità che essa procura e chi è un vero scrittore; tra colui che si diletta a dipingere e un vero pittore.