Nelle more del reclusorio Lafcadio si rammentava degli insegnamenti di Siddharta, per il quale nella vita bisogna sapere aspettare, respirare e meditare
di Marco Palladini
In quei giorni Lafcadio Morriconi aveva rincorso antichi maestri d’ascia perché gli sagomassero una elegante imbarcazione a vela, atta a scivolare via sull’acqua marina sospinta dal refolo dei venti, navigando di bolina, o anche alla peggio una robusta barchetta per allontanarsi dalla terraferma sotto la spinta di lunghi remi cigolanti negli scalmi ancora nuovi.
Insomma, tutto pur di isolarsi dal Contagio proliferante, mentre a riva si affollavano storie banali raccontate banalmente da uomini banali e mortali che mortalmente si annoiavano, oppure noiosamente morivano nel ripetersi seriale della sciagura. Ma invece niente: i maestri d’ascia scomparsi, le barche arenate a riva, tutti in clausura e nel reclusorio qualcuno metteva su la canzonetta di Battiato e parodizzando cantava: “Il morbo infuria, il pan (per ora) non ci manca / sul ponte sventola bandiera bianca”. Siamo già a questo punto? si domandava Lafcadio. Siamo già al segnale di resa completa? Ed elucubrava sui colori delle bandiere. Il segnale di pestilenza a bordo era la bandiera gialla. Poi c’era la bandiera rossa, non quella dei comunisti, ma quella che indicava una situazione di pericolo estremo, l’avvertimento a non avventurarsi in mare, ossia nella fattispecie a non inoltrarsi nei marosi della socialità oramai pressoché tutta a rischio Contagio. Lafcadio dal suo canto avrebbe voluto sventolare una bandiera nera, la bandiera della pirateria da inalberare contro i signori della pandemia, ma era una battaglia persa in partenza, lo sapeva. Perciò masticava amaro e taceva e restava a passeggiare sulle sponde rocciose del lungomare e rimirava l’orizzonte, come se dall’altra parte del globo terracqueo potesse arrivare il bastimento che lo conduceva in salvo. Ma era una pia illusione: tanto qui con costanza si canta e si danza, ma senza speranza.
In quei giorni Lafcadio dialogava (a distanza) col suo amico Giorgio S. su questa esperienza assolutamente inedita. Su questa epochè planetaria creata dal Contagio. Una paresi del genere umano precipitato in un tempo sospeso in funzione anti-virale. Un tempo di attesa indefinita, un tempo di vuotitudine (ma non contemplativa), un tempo in controtempo e in controtendenza con le attitudini abituali, da riempire con qualsiasi cosa aiutasse a combattere l’angoscia profonda e anche il tedio infinito. Da più parti, osservava Giorgio, mi si dice di fare come i giovani del “Decameron” di Boccaccio in fuga dalla peste trecentesca e mettermi ad inanellare racconti e raccontini divertenti o satirici oppure osceni per ingannare il tempo morto e/o mostro. In verità, gli confessava, l’unico, vero stimolo boccacesco che aveva era di connettersi alle più note piattaforme di pornovideo e masturbarsi ferocemente per ore. Ma pure l’attività onanistica alla lunga gli veniva a noia o comunque restava a secco di sperma e allora sacramentava versus gli scrittori e scrittorelli che alla radio o in televisione apparivano per raccomandare di utilizzare il tempo ritrovato (ma non proprio come in Proust) per darsi alla lettura, sottintendendo (of course) la lettura dei loro libri e libercoli. Ma, cazzo!, anche no!, strepitava irato Giorgio S., che se la rideva soltanto ascoltando una pubblicità radiofonica che terminava con l’invito: lasciati abbracciare! Invito quanto mai anacronistico ed improvvido e involontariamente umoristico nel tempo dell’epochè che stabiliva la distanza di sicurezza di un paio di metri tra corpo e corpo per potere evitare il rischio del Contagio. Siamo l’uno, sottolineava Giorgio, il nemico dell’altro. Tutti untori, untorelli e untoracci e assieme potenziali vittime. Homo homini virus. Io stesso non mi fido di nessuno, neppure di te Lafcadio o dio Lafca che dir piaccia. Tutta la retorica degli ideali di fratellanza, solidarietà, amicizia, empatia, simpatia, comunità e comunismo sono stati spazzati via in un batter d’occhio dal bieco Contagio. In questo deserto di disumano troppo disumano, resta soltanto l’antica morale del “vita mea, mors tua”. La metto giù piatta Lafcadio: se il prezzo per salvarmi è che tu debba morire, ebbene io ti dico tranquillamente: muori. E, naturalmente, arrivederci all’inferno.
In quei giorni Lafcadio era (un po’, ma non proprio come monsieur Proust) alla ricerca del tempo perduto. Ritrovava immagini e memorie sepolte negli angoli più riposti e dimenticati dell’encefalo e, talora, era quasi sul punto di commuoversi. In ogni caso, in opposizione a Giorgio S., opinava che non per tutti si era regrediti al “vita mea, mors tua”. Per molti valeva il motto “vita mea, vita tua” o anche “mors tua, mors mea”. Pensava alla moltitudine di medici, infermieri, personale sanitario vario e poi i lavoratori dell’intera filiera agro-alimentare, i lavoratori dei trasporti, le forze dell’ordine, persino un bel po’ di politicanti che non avevano disertato, che restavano al proprio posto. Alla guerra come alla guerra. E in guerra non si diserta, si combatte e si muore. Persino diversi preti e sacerdoti si erano immolati, avevano dato la precedenza ad altri, confidando che sarebbero stati ripagati con un bel posticino in paradiso. L’egoismo individuale aveva ceduto il passo in misura assai considerevole all’altruismo di specie. Come nelle frotte dei topi di fogna in cui ci sono gli elementi più anziani che si sacrificano andando ad assaggiare le esche eventualmente avvelenate, per consentire ai ratti più giovani di sopravvivere e così prolificare. Al Contagio animale, riflette Lafcadio, l’uomo a sua volta reagisce con un calcolo animale circa il male minore. L’intelligenza di noi animali forse è la vera architrave dell’anima. Ed era una intelligenza di specie umanimale per cui, non casualmente, erano i vecchi e gli anziani che in prevalenza morivano. Una decimazione anagrafica che tagliava corto con le polemiche sulla società gerontofila. Questo mortifero disastro segnava per Lafcadio una cesura, un passaggio storico. Ci sarà un’era prima del Contagio ed un’era post-Contagio. Una fatale linea di confine, traguardando la quale ci si inoltra nell’oceano aperto del futuro, dove forse accadrà una metanoia, una trasvalutazione di tutti i valori, un cambio radicale di paradigma, se non altro in forza del capitale shock socio-economico. Qui stanno le colonne d’Ercole oltre cui far rinascere un mondo nuovo, su delle basi radicalmente ripensate e lungo uno scala di valori totalmente rovesciata? Oppure no? Nel suo aporetico rimuginare, di una cosa era persuaso Lafcadio: se dopo questo Contagio non ci daremo davvero una regolata, sarà giusto che l’oceano si rovesci su di noi, allergici a seguir “virtute e canoscenza”, e ci anneghi definitivamente come specie refrattaria e maledetta.
Slides (a cura di Marco Palladini)
In quei giorni Lafcadio, pur cercando di isolarsi anche dal lato comunicativo, non poteva evitare di essere raggiunto dalle innumeri e inverificate ‘voces’ che riferivano essere il Contagio l’esito previsto di una guerra batteriologica o biologica che dir si voglia, scatenata da forze oscure, forse desiderose di mandare nel chaos il mondo per prenderne il controllo. Pur senza cedere alle favole complottiste sempre circolanti o ritornanti, suscitava certo curiosità e sconcerto che il virus zoonico del Contagio assomigliasse, quanto ad effetti letali, come una goccia d’acqua ad una sorta di supervirus creato in un laboratorio. Come la vita non di rado imita la fiction, così la natura imita, oppure emula la scienza? Un simile rovesciamento dei fattori dell’equazione esplicativa era certamente possibile, ma naturalmente suscitava un milione di sospetti e di dubbi, che tutte le chiarificazioni dei virologi e immunologi sulla acclarata differenza della sequenza genetica tra il virus naturale e quello laboratoriale non riuscivano realmente a dissipare. Già lo scrittore Thomas Pynchon, ricordava Lafcadio, aveva spiegato che il dispiegarsi della pulsione paranoica nella psiche collettiva era una delle forze più potenti che mandavano avanti il mondo. Quindi non c’era da meravigliarsi se la narrazione ufficiale del Contagio confliggeva con una contronarrazione paranoico-dietrologica che presentava più versioni. Anche perché alcune di esse apparivano in qualche modo verosimili o possibili. Del resto, meditava Lafcadio, il potere da sempre si avvale degli ‘arcana imperii’. Ciò che vediamo delle dinamiche del potere è soltanto la minima punta dell’iceberg, c’è un continente sottostante dove si sviluppano le peggiori trame, gli intrecci più nefandi e criminali, dove i giuochi e i tradimenti si fanno doppi, tripli, quadrupli, quintupli ad libitum. E anche in tempi di mediacrazia non si sa ‘veramente’ nulla di cruciale e nevralgico. Vige una omertà comunicativa totale e totalitaria. L’informazione è la più solerte guardiana del potere. Chi prova a denudare i segreti del potere – basti pensare a Julian Assange con l’affare Wikileakse a Edward Snowden con le rivelazioni sui programmi di sorveglianza in Internet da parte dell’intelligence Usa – mal glie ne incoglie. È già tanto che i due siano tuttora vivi, seppure ridotti al silenzio. Non: o la borsa o la vita, bensì o la parola (non più libera, ma sottomessa) o la vita. D’altronde pure Pasolini con il suo j’accuse: “Io so… ma non ho le prove”, praticamente si autocondannò a morte. Gli esecutori materiali della condanna contano poco, conta che fu il potere arcano del sistema di quasi mezzo secolo fa a decidere di farlo fuori.
In quei giorni pure le schiere politiche oppositive si erano attacitate. Gente abituata a berciare a pie’ sospinto, ad accogliere e rilanciare le dicerie più scriteriate si era ammutolita come premuta da una nuvola oscura di disfattismo e nichilismo che obnubilava pure le menti più coriacee. Il Contagio disarmava le opposizioni, essendo lui stesso un’arma potentissima, quasi un’arma atomica. Per il resto, si moriva e Lafcadio surfeggiava sui notiziari che aggiornavano sul numero dei morti. Già varie decine di migliaia di persone: come se fossero spariti tre o quattro paesoni o cittadine. Ma le previsioni erano di milioni di cadaveri. Un ‘body count’ da brivido. Individui svaniti senza pubbliche esequie e incinerati e frettolosamente tumulati, non pochi persino in fosse comuni. Un Contagio trasversale e aclassista, nel senso che colpiva equanimemente il riccone e il sottoproletario, il tenore famoso e l’operaio, il prestigioso architetto e l’umile ciabattino, il principe e il suo stalliere. Dunque, un Contagio intrinsecamente rivoluzionario, forse ontologicamente comunista, laddove l’essere-per-la-morte diventava l’unico, vero legame comune tra le persone ed insieme le eguagliava e le vincolava al medesimo destino. Tutti sorpresi dal fato virale cinico e baro nella propria fragilità, inermità, nei propri ossessivi timori da era della super-ansietà. Poi, certo, c’erano i magnati che si rifugiavano in castelli o super-ville lussuosissime e blindatissime o si isolavano su mega-yacht da cento metri che salpavano al largo e venivano riforniti grazie all’elicottero di bordo che faceva la spola con la terraferma; e c’erano i poveri diavoli costretti in risicati e più che affollati seminterrati, dove si scatenavano le più infami tentazioni prossenetiche o scoppiavano cruenti scontri intrafamiliari; e c’erano anche i senzacasa, i clochards, che vivendo nei cartoni ai bordi delle strade, non avevano alcun riparo e morivano nel Contagio come mosche e lombrichi o scoiattoli e passerotti nel rogo di una foresta.
In quei giorni Lafcadio riceveva non poche chiamate da parte di persone che gli confessavano di destarsi al mattino, dopo sonni disagevoli e perturbati, con la percezione di avere fatto un sogno orribile e la convinzione che tutto fosse (tornato) a posto. E invece no. La realtà era peggio del peggiore incubo che si potesse fare e la tentazione era quella di rimettersi immediatamente a dormire. Il sonno e il sogno, anche brutto, come un rifugio, un territorio onirico-ideale, deviralizzato, dove poter condurre una esistenza alternativa a quella della cattività domiciliare, della quarantena sovraimposta. Nelle more del reclusorio Lafcadio si rammentava degli insegnamenti di Siddharta, per il quale nella vita bisogna sapere aspettare, respirare e meditare. Così, lui aspettava senza sapere bene che cosa aspettarsi. Respirava, ascoltando il soffio dell’aria e osservando il movimento dei polmoni, che lo rassicuravano che tutto ancora funzionava. E meditava sul suo essere, come miliardi di altri, un debole fuscello alla mercè di una tempesta batterico-sanitaria mai vista. Considerava anche che il vivere nell’interfaccia permanente tra la realtà reale e la realtà aumentata del virtuale non metteva nessuno al riparo da una realtà iper-microscopica che ti mette k.o. senza che tu possa vedere o prevedere da che parte arrivi il pericolo, il contatto fatale che ti precipita nel dramma. Hai voglia a parlare di guerra all’invisibile. Se di questo si trattava, allora era una guerra persa in partenza, perché contro l’invisibile non si può vincere. Si può al massimo sperare di contenere le perdite. E infatti il numero quotidiano dei decessi planetari era da guerra totale. O meglio da disfatta totale. Non si trattava di ricamare retoricamente sullo ‘sconfittismo’, ma di accettare che la sconfitta è l’unico, vero orizzonte ontologico dell’uomo. E che soltanto ripartendo dalla cognizione della sconfitta destinale, si può immaginare di ricominciare a vivere. Augh.
In quei giorni, soprattutto nei primi giorni e settimane, Lafcadio vedeva una esplosione collettiva di cosiddetti flash-mob canterini alle finestre e ai terrazzi e terrazzini dei palazzi. Gente affacciata che intonava inni patriottici o canzonette pop le più sdate, oppure sventolava bandieroni nazionalistici in un moto di energia esorcistica, ossia per farsi animo, darsi coraggio e scacciare la paura, ripetendosi a pie’ sospinto “andrà tutto bene”, e applaudendo e applaudendosi, invocando l’unità del popolo, la condivisione, forse all’insegna del “mal comune, mezzo gaudio”. Ma era un mezzo gaudio che lasciava indifferente Lafcadio, convinto che nelle contingenze più sventurate e terribili, molte persone rischiano seriamente di svalvolare, di dar fuori di matto. E forse più i giovani dei vecchi. Perché l’aspettativa di vita dei giovani è ben più lunga e sono quelli che hanno, quindi, maggiormente da rimetterci nel Contagio. Oltre ad essere, la più parte, in una condizione generazionale e quotidiana, assai grama, quasi disperante, una condizione profondamente depressiva per le prospettive future pressoché inesistenti. Ciò che aumentava a dismisura l’esasperazione e il malessere, così che Lafcadio avvertiva in quelle eruzioni di forzato entusiasmo una sorta di cinico sottotesto, che diceva: va bene se muoiono tanti vecchi, ancora meglio se ne muoiono di più, se vanno al creatore tutti gli anziani, perché così ci sarà assai più spazio per noi, si libereranno cospicue risorse per darci un futuro che per ora non abbiamo. Ecco, Lafcadio in quel “andrà tutto bene” leggeva l’autoincitamento ad una non dichiarata, ma implicita guerra intergenerazionale, dove è logico e normale che i vecchi si facciano da parte, se ne vadano ‘affankulo’, per lasciare il posto ai giovani. Poi, però, passate le prime settimane, l’ondata esorcistica canterina e festaiola via via finì per spegnersi. Rimase soltanto il silenzio. Il silenzio luttuoso del Contagio a gravare ed opprimere sulle macerie sociali o socio-sanitarie. Smarrito l’entusiasmo reattivo iniziale, i giovani ricaddero in dubbi amletici, in un essere o non essere o, meglio, in un essere e non essere che abbassava l’umore, incupiva lo spirito, mozzava il respiro. Intanto gli autobus giravano vuoti nelle strade desertificate in una parodia di vita veicolare. Gli autisti dopo il sollievo per la scomparsa del traffico, guidavano, attoniti, per nessuno nella città defunta, via via invasi della certezza della insensatezza di quel vano circolare in tondo.
In quei giorni di sospensione dove sperando che il peggio non accadesse, di fatto esso stava accadendo eccome, Lafcadio galleggiava in una nuvola di pensieri oscuri, in una risacca di sensazioni imperscrutabili. Da una condizione permissiva si era regrediti in una condizione repressiva o autorepressiva, in cui la pandemia generava una automatica panicodemia, in un circolo vizioso senza fine. Si sentiva prossimo all’Uroboros, al mitologico serpente che si mordeva senza tregua la coda. Così, curava i fiori del suo giardino dove aveva piantato alla rinfusa tulipani e girasoli, ortensie e camelie, dalie e oleandri. Preferiva darsi al giardinaggio piuttosto che fare come il suo amico Riccardo C. che riempiva ogni giorno fitte pagine di diario, dove annotava anche le cose più sciocche o risibili. Persino quante scorregge diuturnamente faceva o quante volte andava al bagno a mingere. Il fatto è, gli diceva Riccardo, che posso tentare di capire qualcosa di me stesso, soltanto quando mi metto a scrivere. Lafcadio ne prendeva atto, ma non si faceva tentare dalla scrittura. Lui era attirato nel maelström dei notiziari dalle news derapanti o devianti. Come quella che riferiva di un solenne comunicato dei jihadisti del sedicente Califfato Islamico o Isis, in cui erano riassunte le direttive dalla Sharia, la legge islamica. In sostanza, asserivano i bellimbusti islamisti radicali, il Contagio non colpisce di per sé, poiché esso dipende dagli ordini e dalla volontà di Allah. E, dunque, soltanto avendo fede assoluta e cieca in Allah si può essere immuni al virus o, comunque, guarire. Perché soltanto il jihad, la guerra santa, purifica i corpi e le anime dei fedeli. Che il Contagio avesse investito principalmente la Cina materialista-comunista e l’Occidente miscredente era la prova provata che il morbo era la sacrosanta e giusta punizione divina riservata a chi non crede in Allah. I veri, ardenti, obbedienti musulmani nulla debbono, quindi, temere, perché Allah li salverà. Lafcadio rifletteva che il Contagio non diminuiva affatto le distanze e le differenze tra culture, religioni e politiche. Il comunicato jihadista mostrava una tipica impalcatura da superstizione medioevale cristiana, che si ripresentava identica nel XXI secolo (cristiano) nelle arcigne vesti dell’islamismo radicale e che esprimeva certo l’ansia di rivincita dei militanti dell’Isis contro chi li aveva sul campo, di fatto, sgominati, ma insieme rivendicava una narrazione potentemente religiosa dove veniva spiegato che tutto ciò che accade sulla terra corrisponde ad un piano superiore, divino, perché Allah non ha, non può avere, alcuna pietà per chi non si sottomette, non si ‘abbandona’ a lui. È un dio irrappresentabile Allah, un dio non iconizzabile, tanto meno antropomorfizzabile, un dio astratto e inafferrabile, ma che ti afferra brutalmente e si prende come e quando vuole la tua vita. Un effettuale ‘dio dello sterminio’.
In quei giorni Lafcadio incrociava un vicino burlone, Fabrizio G., che ogni volta gli ripeteva: viral Morriconi ancora tu, ma non dovevamo non incontrarci più? Aggiungendo con ghigno petrolinesco: e se non dovessimo rivederci, speroche la disgrazia letale, la Severe Acute Respiratory Syndrome, non sia la mia. Lafcadio ascoltava stancamente le sue battute, in un certo senso anti-iettatorie, e tirava diritto. La propria naturale asocialità si era macroscopicamente implementata nel reclusorio. Mentre il silenzio metropolitano era rotto soltanto dalle sirene delle autoambulanze che trasportavano i colpiti dal Contagio, ora ai primi sintomi, ora effettualmente moribondi, negli ospedali, peraltro strapieni, rigurgitanti di letti e barelle in ogni dove. Mentre nei reparti di rianimazione non entrava più nessuno. Chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato. Gli ultimi arrivati agonizzavano in corsia, neppure degni di un postremo sguardo di pietà. Glielo raccontava un conoscente medico, Silvio F., che operava in emergenza e gli confidava di comportarsi come i chirurghi di guerra: un rapido controllo dei corpi malati e poi, in trenta secondi, decideva chi si poteva cercare di salvare e chi andava lasciato morire. Non solo, aggiungeva: il Contagio è tirannico, ha sussunto o, meglio, spazzato via qualsiasi altra patologia. I soggetti infartati o con l’ictus, o con tumori anche gravi, venivano a malapena considerati, più spesso lasciati perdere, appunto perché non erano una “emergenza”. L’intera gerarchia del male e dei malanni era stata sovvertita, e qualsiasi affezione che non avesse a che fare con il Contagio passava in secondo piano. Il soggetto incancrenito, ma non viralizzato poteva tranquillamente morire nella disattenzione e noncuranza del personale sanitario a tutti i livelli. Il Contagio era un dittatore che decretava l’insignificanza e la non importanza delle altre malattie. E sorella morte sorrideva e ringraziava, incrementando ogni giorno il carico dei cadaveri che si portava via. Migliaia e migliaia di corpi come nella più sanguinosa delle battaglie.
In quei giorni Lafcadio si sentiva sprofondato in uno strano interludio, per dirla con Eugene O’Neill, un intervallo prolungato e che minacciava di essere definitivo, rispetto all’abituale quotidianità esistenziale. Anche la più mediocre routine veniva rimpianta. Ma era normalità quello che si viveva prima? E che cos’è la normalità? Chi sta in carcere non finisce per considerare normale lo stare dietro le sbarre di una cella? Dunque, se tutto può diventare ‘normale’, allora non c’è più l’eccezionale? Sottraendo il concetto ad un famigerato giurista filonazista, un filosofo alla moda imperversava sulle gazzette denunciando il rischio di uno “stato di eccezione” permanente. Ma se l’eccezione diventa la normalità, dove sta la sorpresa o lo scandalo? Homo homini virus, già. L’uomo è un animale straordinariamente adattabile a qualsivoglia condizione, persino la più infame e coatta. Il Contagio questo stava dimostrando con eloquenza di risultati. Il gregge umano tenuto a bada dai lupi del Contagio belava tremebondo e si allineava obbediente e ossequioso alle direttive del potere. E allora il cambio di paradigma tra il prima e il dopo sarebbe stato nel senso di far accettare come normale lo “stato eccezionale”? Era a questo che il Contagio mirava? Forse non era il potere che aveva innescato il Contagio, e però era stato pronto a cavalcarlo per trasvalutare ogni nozione di normalità. Tale era il flusso di pensieri che Lafcadio andava accumulando nella temperie morbile. Del resto, pure lui assentiva quando Fabrizio G. lo provocava ironicamente: sù, Morriconi Lafcadio, non ti abbattere e sorridi con me, che tanto nessuno può sapere di che vita vivremo o di che morte moriremo domani. Conta soltanto il presente, l’hic et nunc. Il non ora, non qui, non sono contemplati. Poi, certo, ci sono taluni che restano ‘morbosamente’ attaccati alla ‘robba’ secondo verghiani Malavoglia e non si rendono conto di essere già morti dentro, cadaveri d’anima ambulanti. Dead men & women walking. Forse qualcuno dovrebbe recargli la kattiva, ferale notizia. Paesaggi terrestri con zombi, signora mia, per dirla con lo scrittore di Voghera, Arbasino.
In quei giorni tornava, ancora una volta e ognisempre e ossessivamente, il leit-motiv dell’essere in guerra con l’invisibile. Un tema da film catastrofico-fantascientifico o fantasociale. Che cosa significa lo capiamo tutti. Che cosa ‘segnifica’ è un po’ più complicato. Il segno-invisibile è qualcosa che, non vedendosi, non c’è per i nostri sensi, eppure aggredisce e ti uccide serialmente. Il segno-invisibile è un serial killer che ti costringe a misurarti con te stesso, con la tua limitatezza sensoriale e di ‘vedute’. Qualcosa che mette alla prova il tuo self-control, sapendo che per quanto tu cerchi di essere attento e cauto e previdente, nessuno è immune, nessuno è al riparo dal Contagio, che ti può cogliere in qualsiasi momento, alla sprovvista, ti colpisce alle spalle, a tradimento, e tu puoi lamentarti e piangere e maledire, ma alla fine devi convenire con Franz Kafka che “il senso della vita è che finisce”. È tutto qua, non c’è altro che tu possa seriamente dire e teorizzare. Continuando a scorrere nel fiume tumultuoso delle news, Lafcadio ebbe ad apprendere che preoccupati dall’incrudirsi e incrudelirsi del Contagio, moltissimi americani, oltre a fare incetta di viveri, di alcolici, di sigarette e pure di marijuana, si erano messi disciplinatamente in coda davanti alle armerie, per acquistare armi leggere e pesanti e munizioni in grande quantità. Da una parte agiva il riflesso psichico condizionato dell’uomo di frontiera, dell’avventuriero del Far West, dall’altra agiva la convinzione che il Contagio avrebbe messo fuori giuoco tutte le forze dell’ordine, e che si sarebbe precipitati in una situazione di anarchia, di chaos totale dove era più che probabile la necessità di difendersi da soli, sparando a tutto spiano. Ancora una volta, vita mea, mors tua. Uno scenario mentale post-apocalittico che richiamava immediatamente il romanzo “The Road” di Cormac McCarthy. Peraltro, rifletteva Lafcadio, quei bravi e previdenti citizens yankees, stavano ordinatamente in fila, uno dietro l’altro, probabilmente già immaginandosi di spararsi l’uno con l’altro. Laddove come nell’O.K. Corral riesce a sopravvivere soltanto quello più svelto e più abile col revolver o chi si è armato di più, magari con fucili-mitragliatori militari o, persino, con bazooka. Il Contagio funziona pure da reagente, da cartina al tornasole per sottolineare ed implementare le caratteristiche peculiari di ogni nazione.
In quei giorni Lafcadio raccoglieva involontarie confessioni di giovanotti e giovanotte dei vari pianerottoli. Con lui che affermava: lei mi tira scemo, ma non riesco più ad agganciarla. E lei che asseriva: lui mi fa sesso, ma non riesco più a sentirlo. Poi trapelavano sui giornali già una moltitudine di scriba che annunciavano romanzi e saggi e diari e memoire poemi sul Contagio. Così come c’erano registi di ogni specie, pure infima, che progettavano film, telefilm, serie Tv, video, docu e docu-movie sul tema. E non già i canzonettisti e canzonettari confezionavano ballate e pezzi pop con cui inondare YouTube? E anche i compositori colti non meditavano austere opere o ispirati requiem in omaggio ai caduti? E gli artisti visivi non immaginavano già dipinti e sculture e installazioni le più varie per celebrare l’inaudito accaduto? E i fotografi non scattavano a ripetizione nei luoghi del Contagio o nelle città e nei paesi deserti o raccoglievano milioni di selfie per lucrose collezioni da esporre e pubblicare post-pandemia? E i teatranti erano forse da meno, che già stavano redigendo i copioni di futuri spettacoli? E coreografi e ballerini non pensavano pure loro ad estrose performance di danza per dare plastica evidenza ai corpi rapiti via dal morbo? Insomma, osservava Lafcadio, tutto questo esercito di mestieranti delle arti, dello spettacolo e della comunicazione non si sta già disponendo e predisponendo a sfruttare avidamente la calamità, vista come una occasione per fare quattrini o per guadagnare visibilità, pure in assenza di uno vero spessore di pensiero, e di proposte e di un linguaggio originali? Tutti costoro sono dei meri ‘parasite’ del Contagio? Certo, gli replicava Giorgio S., ma ciò è inevitabile, perché dio Lafca, siamo tutti parassiti sulla crosta del pianeta Terra, non te lo dimenticare.
In quei giorni, super-parassiti erano pure i super-ricchi. Una storietta esemplare. Uno di loro si era rifugiato in una magione principesca su una isoletta privata del Mediterraneo con la sua rigogliosa corte di amanti, guardie del corpo, medici, domestici, cuochi e segretarie. Tutti messi, in pratica, agli arresti domiciliari assieme a lui che non voleva alcuna turnificazione o sostituzione di personale per timore che il Contagio arrivasse pure sull’isola e lo mettesse fuori giuoco (cosa che Lafcadio molto avrebbe gradito, invero). Vicenda esemplare di come funziona la denarocrazia, la effettuale padrona della sedicente democrazia. Chi ha i quattrini, tanti, tantissimi quattrini, può comandare su chiunque, perché, si sa, ogni uomo (e donna) ha un suo prezzo. E il nababbo non faceva questione di soldi. Pagava senza problemi e ordinava senza discussioni. D’altronde la denarocrazia funzionava così dai tempi dei faraoni egizi, degli imperatori romani, dei re e dei principi medioevali. Come pure dei maharaja indiani che quando morivano facevano seppellire con loro anche le mogli e le concubine, evidentemente non degne di sopravvivere senza di essi. Pur egualitario nel distribuire la morte, almeno questa, ossia la rigida suddivisione classista e denarocratica del mondo, il Contagio non era riuscito a modificarla. Intanto, di fronte all’interminabile allungarsi della lista dei defunti e alle vane preci del papa e di altri alti prelati, un vescovo sconvolto la mise giù piatta: “… noi non diciamo: Dio è buono. Il segno dell’amore e della bontà di Dio è la figura di Gesù”. Quindi, elucubrava l’ateo Lafcadio, secondo costui il figlio di dio è buono, ma il padre no. Il dio padre può essere pure kattivo, kattivissimo, una vera carogna. Allora forse il Contagio ce l’ha mandato questo dio feroce. Anzi magari il Contagio è una delle manifestazioni di dio, la parousia del suo essere spietato, omicida, sterminatore esattamente come Allah secondo gli islamisti radicali. Il quale Allah però, come detto, salverebbe i suoi fedeli, ammazzando gli infedeli. Mentre il dio cristiano non salva neppure le schiere dei suoi credenti. Un dio del Contagio totalitario, onnivadente, assassino, che non dispensa vaghe speranze, bensì un sicuro terrore. Vale a dire: se credi in me, devi tremare come una foglia al vento. D’altronde non fu lui a inviare il gesucristico figliolo ad incarnarsi sulla terra per finire ad agonizzare sulla croce?
In quei giorni si era persino animato un acceso dibattito se l’infosfera fosse una proiezione telematica della biosfera, o fosse un habitat virtuale alternativo alla biosfera, dominato dagli algoritmi e dalla crescente espansione dell’intelligenza artificiale, che avrebbe inghiottito progressivamente il bios umano riducendo via via i soggetti ad ectoplasmi del web. Lafcadio assisteva a tale discussione tra neo-neorealisti e ciber-virtualisti senza prendere posizione. Anche perché non aveva approfondito la questione e, dunque, non aveva una precisa opinione. Il Contagio assorbiva quasi per intero la sua attenzione e ascoltava Silvio F., il medico di prima linea, che insisteva sulla radice zoonica del virus che trasmutando si riallocava da un corpo d’uomo all’altro. E gli ricordava che lui era stato in Africa vent’anni prima, al tempo dell’epidemia del virus Ebola e che di fronte agli indici elevatissimi di mortalità di quel germe (fino, in certi casi, al novanta per cento dei contagiati), ci si rinfrancava, per dir così, del fatto che esso si trasmetteva soltanto attraverso il contatto di umori salivali, spermatici e di liquido ematico. Se fosse stato un virus trasmissibile per via aerea avrebbe annientato almeno la metà della popolazione del continente nero. Ecco, il presente Contagio aveva materializzato quel lontano incubo epidemiologico, con la variante che il tasso di mortalità era fortunatamente molto più contenuto, pur facendo uno sfacelo di vittime. Ma non è detto, soggiungeva, che prima o poi non si si sarebbe arrivati ad un Contagio globale con un tasso di mortalità prossimo al cento per cento. A quel punto l’umanità tutta sarebbe stata spacciata. Ma un agente del Contagio, obiettava Lafcadio, che si moltiplica e vive nei corpi esterni, se li fa fuori tutti non si condanna da sé? Se muore l’intera umanità non muore anche l’agente virale? Non è un controsenso? C’è una logica biologica in questo, o il Contagio è il prodotto di un agente patogeno suicida? Dietro la pandemia c’è un mero kamikaze? Silvio, a sua volta, ascoltava Lafcadio e ribatteva. Il fatto è che non si è capito bene chi sia questo agente patogeno. Perché è un mutante. Nel trasloco da un corpo all’altro cambia, magari di poco, ma cambia e questo mutamento anche minimo si può rivelare fatale. Così, può colpire un settantenne e provocargli soltanto una fastidiosa febbre influenzale, quindi trasferirsi in un soggetto dodicenne o in una ragazzina tredicenne e ucciderli in pochi giorni. È successo e succederà ancora. Viceversa, può spedire all’altro mondo un paziente di mezz’età e saltare nel corpo di un medico curante coetaneo come me e dargli soltanto lievi sintomi. La temibilità di questo agente virale sta, dunque, in questa sua imprevedibilità mutante. Nessuno può sapere o indovinare in anticipo se colpirà la forma, chiamiamola leggera, del virus o quella pesante e micidiale. È un terno al lotto che tiene chiunque in sospeso ed in ansia. Ma allora questa continua mutazione, ragionava Lafcadio, non la potremmo definire una forma perversa di intelligenza? Silvio F. non aveva al riguardo risposte. Forse pensava che l’intelligenza è un’arma a doppio taglio, soprattutto se appare ‘intelligenza col nemico’. Ma chi era il nemico qui? Nell’annus horribilis non sembrava ciascuno il nemico dell’altro? Forse pure la verità assomigliava ad un nemico?
In quei giorni si moltiplicavano e si accumulavano storie e storiacce anche patetiche, strappalagrime, di ordinaria pestilenza. Così come non mancavano quelli che mostravano di avercela con te d’emblée, esprimendo una antipatia immediata e definitiva. Lafcadio sempre in preda ai suoi altalenanti umori idiosincratici, cercava conforto nei vecchi amori. Come, ad esempio, i film ‘polar’ da rivedere a manetta. Quelle pellicole che, intrecciando il genere poliziesco e il noir, raccontavano storie di delinquenti e d’azione intriganti, epperò colme di malinconia esistenziale, di uno sguardo obliquo e pessimistico sui moventi e i destini dell’uomo. I film in cui, eccelleva, ad esempio Jean-Pierre Melville. Di contro, la moglie di Lafcadio, Danka, slava di Spalato, insisteva a leggere i volumetti di un noto maestro di meditazione, che il marito disistimava cospicuamente. Leggi uno, le diceva, che predica bene, che ammonisce al non attaccamento alle cose materiali, ma poi scopri che vive in una specie di ashram-castello, circondato da fanciulline e fanciulloni devoti che hanno devoluto tutte le proprie sostanze (tutt’altro che esigue) alla (sua) causa. Che poi sarebbe la causa (assai dubbia) di un guru che possiede un maxi-garage pieno di fuoriserie, di berline stile Bentley e di moto Norton, Bmw e Harley Davidson. Alla faccia! Costui mentre disquisisce sulla impermanenza di tutte le cose e sui princìpi alati della vita interiore, sulla casa dello spirito che protegge dalle urla del mondo, accumula ricchezze della vita esteriore ed è avido di denaro, molto denaro per vivere come un sovrano nella vanitas vanitatum. Che c’entra? Replicava Danka, lui non ha mai detto di avere fatto voto di povertà. Ecco, appunto, insisteva Lafcadio, il nostro santone parla ispirato, ma sarebbe assai più credibile se avesse fatto un francescano voto di povertà e vivesse come un senzatetto, uno spiritato homeless e non come un altezzoso signore altoborghese circondato dai segni della sua maestà, che si è arricchito alle spalle dei suoi discepoli. E qui ti sbagli, lo contestava la moglie, perché le donazioni sono soltanto una piccola parte delle sue entrate. Lui si rifà agli insegnamenti di Gurdjieff che proclamava la sostanziale equipollenza tra l’affermarsi nelle pratiche meditativo-spirituali e l’imporsi come imprenditore o commerciante. Gurdjieff era un soggetto di forte slancio ascetico-poetico verso l’invisibile e al contempo un soggetto economico capace di dominare le cose visibili e di industriarsi con grande successo. Ne prendo atto, rispondeva il marito, ma se non altro questo Gurdjieff era chiaro, non ciurlava nel manico, teorizzava esattamente quello che poi praticava, cioè l’ossimoro di una non-azione iperdinamica. Lui non era un impostore come il tuo maestro ultravioletto e furbetto che dice di abitare il vuoto e poi si impinza come un suino. I litigi tra i coniugi proseguivano a lungo, anche per riempire il tempo della reclusione forzata, per rompere la cappa di un silenzio tombale che, nel tempo del Contagio, non si riusciva proprio a percepire come un silenzio sacro.
In quei giorni la luna appariva più pallida e smorta del solito. Una luna storta che influiva pure sulle turbe psichiche, collettive ed individuali. Persino i governanti meno cinici e smagati nelle prassi di potere e sottopotere finivano per deragliare, per imboccare il binario sbagliato. Diversi ministri si suicidarono, travolti e stravolti dall’angoscia del Contagio. Uno aveva proclamato: il Contagio non ci appartiene, ma era stata una dichiarazione goffa a cui era seguita una crisi profonda minata dal senso di colpa che lo aveva indotto a spararsi un colpo alla testa. Un altro aveva gridato: qui per interrompere la diffusione del morbo ci vuole uno Stato sempre più forte oppure vincerà la morte. Che in effetti se lo portò via, dopo un salto nel vuoto dall’ottavo piano del suo ufficio. Lafcadio intanto vedeva dalla sua finestra decine di droni solcare il cielo sopra la città, fino al porto, come misura ulteriore e più severa di controllo del territorio. Poi attraverso i telefonini, imposti a tutta la popolazione dai sei ai novant’anni et ultra, una app tracciante seguiva gli spostamenti di milioni, miliardi di individui, rintracciati pure quando stavano a defecare sulla tazza del cesso. Si montavano inoltre, ovunque, telecamere a raggi infrarossi che effettuavano il riconoscimento prognatico-facciale di chiunque. L’uomo privato non era più ammissibile. Sì, in quei giorni stava definitivamente terminando la deriva postrema del XX secolo. Altro che secolo breve, un secolo lunghissimo che ora il Contagio stava brutalmente congedando, per inaugurare effettualmente il XXI secolo che, attraverso la bufera pandemica, si annunciava come un territorio inesplorato, inquietante, più che minaccioso. Un territorio di paranoie parossistiche e di strategie sicuritarie tendenzialmente totalitarie. Un territorio dove rischiare l’asfissia o a causa di un batterio virale che ti soffoca i polmoni o per via di lacci statuali oppressivi e repressivi che strangolano gli spiriti liberi e libertari residui. Comunque, non c’era niente da fare. Il tempo di ieri era scaduto. Lafcadio ne era ben cosciente. Gli ritornava in mente il motivetto canoro “Here it comes the age of hyper-anxiety”. Alla fine del tunnel un’altra galleria e poi un’altra ancora? Non addàpassà ’a nuttata, ma da una nuttata all’altra? Lafcadio o dio Lafca usciva in giardino e interrogava la luna piena, impassibile e muta, che tondeggiava sul mare in bonaccia. Forse, pensava, l’astro stesso non sapeva e non capiva. Ecco, tutto quello che dirvi possiamo è che non sappiamo e non capiamo.
Aprile 2020
La prima volta che leggo tutto d’un fiato un racconto sullo Smart. Complimenti ,una scrittura fluida,sincera che fa’sentire tutto il peso di quei momenti di smarrimento che tutti noi abbiamo provato e che in parte abbiamo ancora. Interessante la scrittura non convenzionale come parole come Chaos o denarocrazia.