Sarà il nuovo ed irriconoscibile scenario sociale (tanto caro al Nostro), plasmato ora dalla paura d’imbattersi sfortunatamente in questo o quello tra i quasi otto miliardi di potenziali untori (compreso chi sta scrivendo), a rimodellare, dalle fondamenta, le pratiche artistiche e fruitive
di Antonio Gasbarrini
1. Il Coronavirus e il Sistema dell’arte
Il tremendo K.O. sferrato dal Coronavirus al Sistema dell’arte, con la chiusura di musei e gallerie ed una loro più che problematica riapertura (in termini di un forte condizionamento dei flussi dei visitatori causato dall’obbligato distanziamento sociale e conseguente contrazione delle risorse finanziarie disponibili), impone più di una riflessione agli addetti ai lavori.
In primis agli storici e critici d’arte, i quali, dovendo misurare le loro elaborazioni teoretiche sull’arte del passato, moderna e contemporanea all’interno dell’imprevedibile scenario in corso, saranno obbligati a rivedere molte delle loro “diagnosi estetico-linguistiche” sulle singole opere d’arte, sugli artisti e movimenti legati in un modo o nell’altro prevalentemente alla rinnovabile prassi neo-avanguardista. Data per morta, o quantomeno tramortita, come annoteremo più avanti.
All’interno di questa ineludibile esigenza, vale la pena di riesaminare uno dei più originali contributi ermeneutici su alcune pratiche artistiche contemporanee scandagliate dal critico d’arte e curatore francese Nicolas Bourriaud, con la sua teorizzazione dell’ “Estetica relazionale”, teorizzazione variamente aggiornata nel corso di questi ultimi due decenni. E ciò, in quanto più di uno dei suoi princìpi-guida – non sempre condivisi da più di un autore – sono entrati oggettivamente in conflitto con i prevedibili cambiamenti degli stili di vita individuali e collettivi esportati dall’Occidente un po’ in tutto il mondo, che si registreranno nell’immediato futuro anche in materia di “produzione e consumo” della Cultura intesa nella sua più larga accezione, al cui interno l’Arte ha sempre rivestito il ruolo di protagonista e giammai di effimera comparsa.
Le nostre riflessioni si snoderanno ripercorrendo telegraficamente e con un taglio cronologico, i principali scritti del Nostro individuabili ne L’estetica relazionale, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Il radicante. Per un’estetica della globalizzazione[1], nonché la sua lectio magistralis “L’estetica relazionale al gennaio 2019” tenuta al Macro Asilo di Roma, lectio riproposta integralmente nell’apporto multimediale al presente testo.
Prima di entrare nel merito di alcune sue ridefinizioni semantiche partorite dall’Estetica relazionale di stratificate parole quali ARTE («[…] L’arte è un’attività che consiste nel produrre rapporti col mondo attraverso segni, forme, gesti ed oggetti») o neologismi tipo SEMIONAUTA («L’artista contemporaneo è un semionauta, inventa traiettorie tra i segni») elencate nel glossario riportato nelle pagine conclusive del suo primo libro[2], una piccola digressione non dovrebbe guastare. Eccola.
2. Per mettere subito le cose in chiaro
Mettiamo subito le cose in chiaro: sono un critico d’arte militante. Engagé, continuerebbe ad affermare ancor oggi Jean-Paul Sartre. Più avanti motiverò le ragioni di questa autocertificazione. Mai come nell’attuale momento, con la rivoluzione digitale in pieno svolgimento e dell’“Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (W. Benjamin), lo statuto tradizionale di quell’opera non più auratica è stato messo in discussione. Senza rifarsi obbligatoriamente alle avanguardie storiche o neo ed alla sostanziale deformazione onirico-iconoclasta della loro poetica, può legittimamente sostenersi che la svolta teoretica e produttiva si è avuta sul finire del primo decennio della seconda metà del secolo scorso, con le innovative “performances comunitarie” di Fluxus e con le riflessioni epistemologiche dell’Opera aperta di Umberto Eco, e, perché no?, con la rivoluzione etico-politica-estetica-filosofica situazionista di Guy Debord & C.
Chi si è imbattuto nella curatela di mostre o rassegne d’arte moderna e contemporanea, ha sperimentato sulla propria pelle come «ogni opera d’arte sia nemica mortale dell’altra» (Adorno). In quanto quel manufatto non ancora giunto agli esiti della sua rarefazione concettuale, è innanzitutto amica del solo suo artefice. O meglio: amante. Con/dividerla nello spazio espositivo secondo i consolidati canoni nel tradizionale ménage à trois (artista / opera / fruitore), non sempre è stato agevole. Soprattutto per la morbosa passività voyeuristica assegnata all’intruso (il fruitore, appunto; si pensi alle oscene ammucchiate davanti alla non-vista Monna Lisa, ai selphies et similia ante Covid-19).
Con l’avvento dell’Opera aperta quest’ultimo è invece coinvolto non solo con lo sguardo al sacrale rito dell’incontro (con l’artista e l’opera), ma può intervenire in vario modo sulla dinamica fruitiva, partecipando creativamente ed in prima persona anche alla sua modificazione formale (come non ricordare qui le riassemblabili sculture modulari in acciaio inox di un Nicola Carrino, proposte in una sua mostra da me curata nella Galleria FerriArte a L’Aquila sul finire degli anni Settanta?).
Di tutt’altra valenza, non solo estetica, è il percorso che potrei suggerire per approfondire, da un’altra angolazione rispetto a quella teorizzata da Bourriaud, le tante sollecitazioni scaturibili dalla innovativa “creatività relazionale nell’opera condivisa”. Partendo dalla felice esperienza dell’Accademia di Belle Arti di Brera – con l’attivazione nel 2008 del Corso Biennale di perfezionamento “Terapeutica Artistica”, coordinato dalle docenti Tiziana Tacconi e Laura Tonani – ed approdando, a volo d’uccello all’“Atelier Anna Seccia – Artekaleidos lab”, sostanzialmente pre-sperimentato dall’artista pescarese sin dal 1998 con “La Stanza del Colore”, nonché con la coinvolgente azione performativa messa coralmente in atto da una quindicina di artisti abruzzesi con l’iniziativa “L’AquilAbruzzo TendAtelier” realizzata (con la mia curatela e la consulenza museale dell’Angelus Novus) nel giugno-luglio del 2009 a L’Aquila nella tendopoli Centi-Colella mentre continuavano ad imperversare scosse telluriche e nubifragi (si veda in proposito il resoconto di quella irripetibile esperienza nel n. 1 di questa stessa rivista al link
https://zralt.angelus-novus.it/zralt-n1-estate-2013/aquilabruzzo-tendatelier/).
3. Quando e come nasce l’“Estetica relazionale”
Da questa iniziale ed iniziatica apertura ad un fruitore compartecipe dell’evento produttivo e/o espositivo, si è cominciato a teorizzare, con il francese Nicolas Bourriaud, l’Estetica relazionale sintetizzabile con queste sue parole: «Credo che oggi ci troviamo di fronte all’emergere di una cultura di interazioni. Si è costituito recentemente un nuovo sistema dell’arte ed esso è basato sull’idea di relazioni. Un breve sguardo sulla storia dell’arte: la prospettiva, la ‘veduta’, era basata su quel punto particolare in cui, come disse Panofsky, noi diventiamo il soggetto, che è precisamente la posizione caratteristica dell’umanesimo; la costituzione del sé a partire da un punto. Un successivo slittamento significativo nella storia dell’arte è quello del all-over, un modo di estendere l’identità umana. Seguendo la stessa linea, vale a dire il corso del soggetto, direi che l’arte di Performance andrebbe definita più all-around che all-over. Ciò che voglio sottolineare è questo slittamento dall’autorità dell’immagine verso un modo più democratico di percepire l’arte, uno spazio che dovrebbe essere partecipativo piuttosto che basato sull’autorità dell’immagine, come è prevalentemente accaduto nella storia»[3].
Slides
Co-fondatore e co-direttore artistico per vari anni di uno dei più intriganti spazi espositivi parigini, il Palais de Tokyo, Bourriaud ha circoscritto i suoi interessi ad un ristretto numero di artisti i quali sia nella fase progettuale dei loro lavori che in quella “epifanica” della successiva esibizione in uno spazio deputato, hanno orientato la loro ricerca nella direzione tratteggiata più sopra.
Tutti gli artisti da lui incanalati nel proficuo scambio relazionale, non sono riconoscibili grazie al comun denominatore di un “neo-ismo”, bensì per «il fatto di operare in seno al medesimo orizzonte pratico e teorico: la sfera dei rapporti interumani. Le loro opere mettono in gioco i modi di scambio sociali, l’interattività con l’osservatore all’interno dell’esperienza estetica che si intende proporre, e i processi di comunicazione, nella loro dimensione concreta di utensili che servono a collegare gli individui e i gruppi umani tra loro».
Utensili, a dire la verità fino in fondo, che risultano, oggi come oggi e dopo l’irruenza pestifera del Coronavirus, abbastanza arrugginiti, anche a seguito della esponenziale crescita internettiana dei social e la loro massiva capacità di aggregazione resa quantitativamente vertiginosa dalla pandemia, anche per ciò che concerne il Sistema dell’arte. Innovativa esperienza questa per milioni e milioni di comuni navigatori “non-semionauti”, virtuale quanto si voglia, ma potenzialmente ben più pregnante di quel potenziale scambio relazionale tra artista e fruitore consumato nel chiuso o all’aperto di un dato ambiente.
Temporalmente collocabile tra gli anni Ottanta e quelli Novanta del secolo scorso, coincidente tra l’altro con gli ultimi gemiti del “pensiero debole” o del Post-moderno che dir si voglia, l’esperienza curatoriale di Bourriaud ruotava attorno a quegli artisti il cui modus operandi con performances e installazioni – subentrate di prepotenza a quadri e sculture diventati nel frattempo obsoleti nell’universo estetico ben “dipinto e scolpito” nelle sue pagine dalla prensile lettura: «[…] Rirkrit Tiravanija organizza una cena presso un collezionista e gli lascia il necessario per la preparazione di un zuppa thai. Philippe Parreno invita delle persone a praticare i loro hobby preferiti il primo maggio, sulla catena di montaggio di un una fabbrica. Vanessa Beecroft veste allo stesso modo, e con una parrucca rossa, una ventina di donne che il visitatore può scorgere soltanto attraverso il vano della porta. Maurizio Cattelan nutre dei ratti col formaggio Bel Paese e li vende come multipli, o espone casseforti recentemente svaligiate […] Altri nomi e altri lavori completano questa lista: in ogni caso, la parte più vivace che si gioca sullo scacchiere dell’arte, si svolge in funzioni interattive conviviali e relazionali]»[4].
Come il critico d’arte francese ben sa, in fatto di «funzioni interattive conviviali e relazionali», la Corrente Fluxus ha insegnato in materia e con ben altre implicazioni sociologiche, ludiche ed estetiche con gli Happenings, la cui rivoluzionaria portata relazionale può ben percepirsi in questa autocitazione tratta da un mio saggio:«[…] Nel 1959, un assemblaggio di eventi viene proposto a New York, alla Ruben Gallery, da Allan Kaprow (insieme ad altri performers), il quale con 18 Happenings in 6 Parts, assembla in tre spazi ottenuti con la divisione di teli di plastica, quadri, specchi, luci, suoni e, nella veste di performer, insieme ad altri legge, discute e mangia con i presenti: in una parola, fondendo in modo cosciente, e per la prima volta, arte e vita. Nel biglietto d’invito (una busta di plastica contenente una serie di mini-collages) si poteva anche leggere la frase: «you will become a part of the happenings; you will simultaneously experience them». In ognuno dei tre spazi dove avvengono simultaneamente tre happenings diversi, lo spettatore assiste sì, ma interagisce con gli eventi; nell’intervallo cambia stanza, “immagazzinando” alla rinfusa sensazioni visive, tattili, acustiche a suo tempo auspicate dalle sinestesie futuriste»[5].
Se per uno degli artisti trattato ampiamente in un apposito capitolo – il cubano Felix-Gonzales Torres cresciuto artisticamente a New York e morto prematuramente nel 1996 per AIDS – il “vestito relazionale” cucitogli addosso da Bourriaud non fa una grinza, tali e tante sono le convergenze tra le sue installazioni effimere e il coinvolgimento degli spettatori. I quali, ad esempio, possono modificare le forme plastiche originarie di mangiabili-asportabili caramelle disposte sul pavimento in una configurazione tridimensionale più frattalica che euclidea o di fogli sovrapposti e impilati prendendone e portandone via a volontà, fino alla potenziale sparizione dell’opera, non altrettanto, a mio parere, può dirsi per altri (Maurizio Cattelan, in particolare). Le sue “irriverenti e beffarde trovatine” tardo-concettuali, come ha ampiamente dimostrato la sua recente, meritata scivolata estetica su Comedian (una banana attaccata al muro con uno scotch durante la Fiera dell’ “Art Basel di Miami Beach”, valutata subito 120mila dollari nel demenziale e drogato mercato dell’arte; staccata e mangiata poi, Fiera in corso, da un altro artista, David Datuna in vena di un’autopromozione pubblicitaria), purtroppo ben infiocchettate in alcune righe di Estetica relazionale ed ampliate in Postproduction, dimostrano, ad abundantiam, più di una forzatura tra teorizzazione e prassi.
Ed ecco come Bourriaud sintetizza le critiche rivolte al suo lavoro:«Queste pratiche artistiche relazionali sono state oggetto di continue critiche. Dato che si limitano allo spazio delle gallerie e dei centri d’arte, contraddirebbero quel desiderio di partecipazione sociale che ne fonda il senso. Così si rimprovera ad esse di negare i conflitti sociali, le differenze, l’impossibilità di comunicare in uno spazio alienato. […] Il principale rimprovero nei confronti dell’arte relazionale è che rappresenta una forma edulcorata di critica sociale»[6].
Subito dopo, così risponde per le rime:«Ciò che questi critici dimenticano è che il contenuto di queste proposte artistiche dev’esser giudicato formalmente: in rapporto alla storia dell’arte, e tenendo conto del valore politico delle forme (quel che chiamo “criterio di coesistenza”, cioè la trasposizione nell’esperienza vissuta degli spazi costruiti o rappresentati dagli artisti, la proiezione del simbolico nel reale)»[7].
Ma, è proprio in rapporto alla storia dell’arte e su quanto di meglio abbia saputo esprimere con le avanguardie storiche e neo, o con singoli artisti, che “l’incasellamento relazionale” si rivela in molti casi fuori luogo, in quanto le presunte, innovative opere, altro non sono che la configurazione formale del dejà vu e dejà pensé riduttivamente rimasticati.
4. Come riprogrammare il mondo con l’arte contemporanea
Ma, per dar a Cesare quel che è di Cesare, va subito annotato che l’aggiustamento di tiro paradigmatico effettuato da Bourriaud quattro anni dopo nell’aggiornare la sua Estetica relazionale con le nuove modalità produttive e percettive rimescolate da internet (rete pressoché poppante i bit nel momento in cui scriveva), motiva un po’ meglio le sue argomentazioni circa i cambiamenti intersoggettivi relazionali in corso tra artista e fruitore .
Leggiamone la sua liaison: «Esthétique relationelle, di cui questo libro è una continuazione, descrive la sensibilità collettiva entro la quale nuove forme d’arte sono state iscritte. I due libri partono da uno spazio mentale rinnovato aperto al pensiero grazie a Internet, lo strumento centrale dell’età dell’informazione nella quale siamo appena entrati. Esthétique relationelle però riguardava l’aspetto conviviale e interattivo di questa rivoluzione […]. Invece Postproduction comprende forme di conoscenza generate dall’apparizione della rete: in breve come orientarsi»[8].
Chiamando sostanzialmente in causa la tecnica del montaggio – particolarmente congeniale in campo musicale e cinematografico – il suo “ri/montaggio della realtà da cui siamo attorniati”, viene così esplicitato: Riprogrammare le opere esistenti – Abitare stili e forme storicizzate – Usare le immagini – La società come repertorio di forme – Investire nella moda e nei media.
All’interno di queste voci principali viene poi inserita la ricerca di quelle artiste ed artisti (in netta prevalenza) che in un modo o nell’altro si rifanno ai suddetti pattern.
Va subito rilevato che le opere proposte, per lo più analogiche, vengono prevalentemente collegate, come retroterra formale e linguistico, all’Arte Concettuale, Minimal e Povera, tant’è che, nel capitolo “Usare le forme”, una normalissima (dal mio punto di vista) installazione di John Armleder, consistente in una bauhausiana sedia sbilenca poggiante su tre piedi e sovrastata da due astrattizzanti quadri minimal, viene, tra l’altro, così descritta:«Nel lavoro di Armleder, la compresenza di quadri astratti e mobili post-bauhaus li trasforma in elementi ritmici, esattamente come il selector dei primi tempi dell’hip-hop mixava la musica con il cross fader del suo mixer»[9].
Sono sufficienti questi voli pindarici in cui la “scoperta” di contaminazioni di vario genere vanno a legittimare una presunta nuova modernità del fare arte (la sua teorizzata “altermodernità”), sganciata totalmente da demolitrici istanze neo-avanguardiste? Lasciamo la risposta al lettore, ma dopo aver scorso queste righe conclusive di Postproduction:«L’arte è un contro-potere. Non che il compito degli artisti consista nel denunciare, militare o rivendicare, perché tutta l’arte è impegnata, qualunque sia la sua natura e le sue finalità. […]. Nella vita di ogni giorno incontriamo fiction, rappresentazioni, forme, che nutrono un immaginario collettivo i cui contenuti sono dettati dal potere. L’arte, invece, ci presenta delle contro-immagini, forme che mettono in questione le forme sociali. […] Sta a noi spettatori mettere in evidenza queste relazioni, giudicare le opere d’arte in funzione dei rapporti che producono all’interno del contesto specifico nel quale si manifestano. Perché l’arte è un’attività che consiste nel produrre rapporti con il mondo, e materializzare – in una forma o nell’altra – le sue relazioni con lo spazio e il tempo»[10].
Vedremo come questo ulteriore passaggio relazionale (artista / opera / fruitore) intessuto nel primo libro all’interno dello spazio espositivo, sposterà l’accento, ne Il radicante, all’onnivoro spazio-tempo della globalizzazione e alla conseguente omologazione dell’essere trasmutato viepiù in oggetto, anonima merce tra le merci.
Perciò, cari Pablo Picasso con la tua Guernica e Guy Debord con la tua Società dello spettacolo e relativo détournement, siccome ci siete ancora grazie alla vostra altissima arte-pensiero, battete, per favore, un colpo. Sempre a proposito di quanto sinora da me sostenuto negli “interstizi” (parola molto cara – al singolare – a Bourriaud)[11], chiudo il paragrafo con questa seconda autocitazione che in fatto di installazioni e coinvolgimento del fruitore, la dice lunga, molto più lunga dell’arte relazionale bourriaudiana:«Non possiamo tralasciare di menzionare l’evento che aveva messo la pietra tombale al Dépassement de l’art, senza per questo evitare il completo aborto della Réalisation de la philosophie: ci riferiamo all’accennata plurinstallazione performativa Destruction of the RSG-6 (una distruzione più semantica che simbolica di un rifugio antiatomico dove era allestita anche una mostra con opere di Debord, Bernstein e Martin), organizzata alla Galleria Exi, ad Odense in Danimarca, nell’estate del 1963. L’esibizione mirava, mediante la ricostruzione di un rifugio antiatomico, a divulgare i contenuti dell’azione clandestina svolta dal gruppo inglese Spies for Peace, che aveva reso noto con la pubblicazione della brochure Danger! Official Segret RSG-6- il sito, nonché i piani del rifugio governativo. Nel testo in catalogo di Debord […] vengono, tra l’altro, date delle delucidazioni sulle opere esposte (le cinque “directives” di Debord, alcune “cartographies thermonucléaires” di Martin e la serie delle “victoires” della Berstein). Le “direttive”, scrive Debord nel catalogo, possono essere considerate come degli slogans che potrebbero vedersi scritti sui muri (cosa che puntualmente avverrà durante il Maggio francese); le “cartografie termonucleari” sorpassano d’emblée ogni laboriosa ricerca posta in essere dalla “nouvelle figuration” in pittura, in quanto avvalendosi della tecnica dell’action painting [con colate di colore effettuate sulle carte geografiche a rilievo, n. d. a. ] si potranno vedere “realisticamente” diverse regioni del mondo, coinvolte, nel giro di qualche ora, nella prossima guerra mondiale; con le “victoires” le sconfitte storiche della rivoluzione, sono ottimisticamente trasformate, con opportuni detournamenti, in vittorie. Ma quel che è più importante ricordare, sono le istruzioni date da Debord a Martin (a nome degli altri situazionisti) sulla “pruristallazione” (ante litteram) distribuita in tre ambienti. Il primo (Shelter) doveva dare l’idea di un orribile rifugia antiatomico contenente un letto da campo, scatole di conserva e bottiglie d’acqua minerale; inoltre, come ambientazione sonora un rumore interrotto di una sirena (su registratore), mentre la luce doveva essere fastidiosa. L’atmosfera, poi, difficile da respirare per un eccesso di deodoranti, con la presenza di due assistenti (vestite con tute antiatomiche) che obbligavano il visitatore a restare 10 minuti, durante i quali venivano distribuiti dei medicinali. Per finire, un manichino dentro un sacco di plastica messo in un angolo “pour figurer le cadavre”. Nel II ambiente (Rivolta), le foto ingrandite di Kennedy, la regina d’Inghilterra, de Gaulle, Khrouchtchev, Franco, Adenauer, il re di Danimarca e tre carabine con piombini con cui i visitatori sparano sulle effigi. Nel III ambiente (Exhibition), una tradizionale “piccola mostra” situazionista, oltre a riviste e volantini. Una perfida Nemesi al servizio dei sempiterni, invisibili poteri occulti, però, al posto della distruzione simbolica del rifugio antiatomico, ne decretava, 18 mesi dopo, una reale per gli “antiquadri” esposti (con una bomba incendiaria messa da un provocatore nella casa di Martin dove erano depositati insieme ad altro materiale documentale e divulgativo situazionista; anche due “direttive” di Debord risultarono incendiate, e cioè “Tous contre le spectacle” e “Non à tous les spécialistes du pouvoir – Les conseils ouvriers partout”. (Questa nostra ultima conclusione l’abbiamo dedotta da una serie di incroci documentali) »[12].
5. L’Arte relazionale al cospetto dell’Estetica della globalizzazione ne Il Radicante
Con un sostanziale aggiustamento “di tiro relazionale”, ne Il radicante. Per un’estetica della globalizzazione, sono gli artisti, più che le opere, ad instaurare un rapporto dialogico con il contesto civile-culturale in cui essi di volta in volta convivono. Ponendo subito una domanda:«Perché la globalizzazione è stata commentata così tanto da un punto di vista sociologico, politico, economico, e quasi mai secondo una prospettiva estetica? Come influisce questo fenomeno sulla vita delle forme? […] scrivendo questo libro ho tentato di non perdere mai di vista una rigorosa ossessione: guardare il mondo attraverso quello strumento ottico che è l’arte, al fine di abbozzare una “critica d’arte del mondo” nella quale le opere dialogano con il contesto in cui sono prodotte»[13].
Ed ecco spuntare subito, sull’orizzonte della sua eclettica altermodernità che non necessiterebbe più di parole-concetto ideologizzate partorite dal «modernismo di ieri», quali sono avanguardia, universalismo, progresso,e, in modo particolare, radicalità. Parole-concetto assorbite e trascese da un’arte radicante «epiteto che indica un organismo che fa spuntare le proprie radici e le accresce man mano che procede» – ancora in fieri – con i correlati creatori contemporanei degni di: «Essere radicanti: mettere in scena, mettere in cammino le proprie radici in contesti e format eterogenei; negar loro la possibilità di definire completamente la nostra identità ; tradurre le idee, transcodificare le immagini, trapiantare i comportamenti, scambiare piuttosto che imporre»[14].
In questo nomade relativismo più socio-antropologico che estetico, il ruolo centrale lo svolge, in arte, un nuovo tipo di astrazione non già pittoscultorea, ma formalmente micro-antagonista, da contrapporre a quella dominante. Ed eccone esplicitate le ragioni:«I codici della rappresentazione dominante del mondo dipendono dall’astrazione perché si presenta come il linguaggio stesso dell’ineluttabile; i maneggi dei gruppi e degli individui, presentati dal potere sotto la forma di una meteorologia, permettono di perpetuare un sistema di dominio. Così gli spazi vuoti che punteggiano la cartografia satellitare del sito Google Earth corrispondono a interessi strategici, militari o industriali: il ruolo dell’arte è quello di riempirli attraverso il libero gioco dei racconti e dei diagrammi, utilizzando gli strumenti di rappresentazione adeguati. Non si combatte l’astrazione irrealizzate se non con un’altra astrazione, che dà a vedere ciò che le cartografie ufficiali e le rappresentazioni autorizzate dissimulano»[15].
In merito a queste ultime affermazioni, rimando alla prurinstallazione performativa situazionista Destruction of the RSG-6 commentata nel punto 4, per riconfermare che ben altre implicazioni concettuali, su tutte, continua ad avere, dal punto di vista di un critico militante, la laicizzata e laicinizzante Avanguardia (con l’A maiuscola), avendo tra l’altro sostenuto – sin dagli anni Ottanta-Novanta (gli stessi in cui Bourriaud ha incubato i principi teoretici della sua Estetica relazionale) – e curato con apposite mostre tenute in Italia e all’estero, i movimenti dell’Inismo[16] e dell’Arte Agravitazionale[17].
È ben vero che l’incipiente altermodernità contemporanea nasce senz’altro « nel caos culturale prodotto dalla globalizzazione e dalla mercificazione del mondo» e che occorre «resistere alla standardizzazione dell’immaginario fabbricando circuiti e modi di scambio fra i segni, le forme e i modi di vita», ma ciò nulla toglie alla praticabilità di un’Avanguardia ch’è stata sempre figlia del proprio tempo, con forti accentuazioni sciamaniche (Joseph Beuys) e predittive (Guy Debord su tutti).
6. La lectio magistralis al Macro
Un aggiornamento anche d’ordine teoretico su L’Arte relazionale e la filiazione diretta dell’Estetica della globalizzazione, il critico francese l’ha fornito in occasione della sua disinvolta lectio magistralis tenuta a braccio al Museo Macro di Roma nel gennaio dello scorso anno (il video è nel link). Oltre a ripercorrere le motivazioni e le fasi salienti della sua ricerca, sostenuta sempre da mostre e rassegne chiarificatrici da lui curate anche con il sostegno valoriale dato ad un contenuto numero di artisti (per lo più giovani), ha offerto ai numerosi presenti una serie di spunti.
Tra questi, la sottolineatura che l’Arte relazionale, anche se con motivazioni ed esiti diversi, può farsi risalire molto indietro nel tempo. Ma, il fatto sostanziale è che, dopo la caduta del Muro di Berlino e la globalizzazione dell’economia di mercato, c’è stato un cambiamento radicale nel rapporto tra il genere umano, viepiù ridotto a merce, anomizzato oggetto tra gli oggetti.
Infatti, per Bourriaud, nell’attuale era dell’antropocene ove l’ecosistema di una Natura sempre più compromessa nei suoi equilibri tra viventi e materia inorganica, sta andando in tilt, il compito dell’arte e dell’artista va assumendo e sempre più deve assumere, un nuovo statuto, consistente in un rimontaggio o montaggio alternativo che dir si voglia della realtà. Montaggio finalizzato poi ad una sorta d’intesa antagonista tra artista e fruitore sensibilizzato alle infinite contraddizioni esistenti sul pianeta tra l’omologato (ai fini produttivi connessi alla massimizzazione del profitto) scenario plasmato dalla tecnostruttura e dalla correlata impotenza del singolo individuo che poi, alla fin fine, è vittima della stessa infrastruttura che direttamente o indirettamente ha contribuito ad installare con il suo lavoro mercificato.
Ecco perché, la bestia nera del critico francese è stata nei tempi più recenti, l’affermazione della corrente di pensiero filosofica del “Realismo speculativo”, il cui nocciolo consiste nel valutare l’essere umano quale oggetto tra gli oggetti, anche se qualificato poi come “oggetto sensibile”.
Di fronte a tali posizioni, solo l’energia dell’opera, a prescindere dall’epoca in cui è realizzata, garantisce la sua sopravvivenza temporale grazie alla Bellezza da cui essa energia è emanata.
Ma qual è la parola d’ordine imprescindibile a cui deve attenersi ogni mostra relazionale? Il concetto più condivisibile è stato espresso da uno degli artisti aderenti a tale impostazione neo-concettuale: «Una mostra non consiste nell’esporre qualcosa a qualcuno, ma di esporre qualcuno a qualche cosa”. Ciò in quanto l’arte è un’esperienza e lo statuto dello spettatore è quello di essere testimone attivo, critico nei confronti del capitalismo globalizzato che lo ha trasformato in cosa. È quindi all’interno dell’ecosistema degenerato che vanno individuati nuovi spazi di relazione.
Non esiste poi una divisione tra natura e cultura, trattandosi sostanzialmente di una totale invenzione occidentale che ha poi legittimato la colonizzazione dei popoli non-colti (dal punto di vista dell’uomo bianco), dell’oppressione delle donne, ecc.
Perciò, in sintesi, l’artista non deve esprimere la sua individualità e il proprio ego, ma semplicemente instaurate polifonie tra elementi diversi (si pensi alle installazioni), confrontando così le sue idee con quelle dello spettatore attivo. In tal modo l’arte porta la precarietà in un contesto sociale omogeneizzato.
7. Che ne sarà dell’Estetica relazionale dopo la terribile pandemia “pestifera” del Covid-19?
Un potenziale, forte ridimensionamento alla visione estetica relazionale di Bourriaud sino a qui tratteggiata, l’ha data sostanzialmente, nel giro di qualche mese, la “pandemia globalizzata” scatenata dal Coronavirus con la repentina metamorfosi (temporanea?, parziale?..), di quell’economia finanziario-produttiva affermatasi negli ultimi decenni a livello globale.
Continuare a pensare che il duetto artista/fruitore mediato dall’opera, sostanzialmente identificata dallo stesso critico con una data forma esibita in uno spazio deputato («FORMA – Unità strutturale che imita un mondo. La pratica artistica consiste nel creare una forma capace di “durare” facendo incontrare su un piano coerente delle entità eterogenee, al fine di produrre un rapporto col mondo») e da un’artista così ridefinito («ARTISTA – […] l’artista odierno appare come un operatore di segni, che modifica le strutture di produzione al fine di fornirne doppi significanti. È un imprenditore / politico / regista […]», oggi come oggi, con la sterminatrice pandemia che sta scardinando alle fondamenta il naturale contatto fisico-tattile scambiato tra gli umani (dalla stretta di mano, alla carezza, dall’abbraccio al rapporto sessuale), è quantomeno anacronistico.
Sarà il nuovo ed irriconoscibile scenario sociale (tanto caro al Nostro), plasmato ora dalla paura d’imbattersi sfortunatamente in questo o quello tra i quasi otto miliardi di potenziali untori (compreso chi sta scrivendo), a rimodellare, dalle fondamenta, le pratiche artistiche e fruitive.
Il totale scombussolamento di un acefalo e compulsivo consumismo della classi più agiate, ma anche medie, a tutto scapito di un’equa “redistribuzione di giustizia sociale” e quantomeno di un minor malessere quotidianamente sperimentate da quelle più reiette ed emarginate (a cominciare da una universale e paritaria tutela di un sacrosanto diritto alla salute, garantendo un equo “mangiare” per tutti, mettendo così la parola fine all’intollerabile situazione del concreto rischio quotidiano di poter morire per fame), cambierà “radicalmente” gli stili di vita occidentali o para-occidentali. E con essi, gran parte dell’ecosistema capitalistico-finanziario così come lo abbiamo conosciuto-vissuto fino a qualche mese fa. Da qui l’urgenza, per gli artisti tutti, di riadeguare la loro creatività riposizionandosi sulle traballanti coordinate di un cambiato, fosco orizzonte esistenziale.
Fondendo innanzitutto, e con maggiore pregnanza di quanto non sia già avvenuto nel passato con le Avanguardie, le parole etica ed estetica, con l’ausilio di un trattino dalla valenza semiotica: “est-etica”. Una “est-etica” tutta da plasmare con una più agguerrita dialettica instaurabile tra la realtà analogica di un corpo soffocato da un invisibile virus e l’etereo flusso digitale di bit alle prese non solo con la immersiva realtà aumentata, ma con la mutazione genetica dei computer quantistici in corso di sperimentazione.
Proprio per quest’ultimo contesto, dare per improponibile un’attuale (ma, anche futura) ricerca estetica attestabile sui canoni della rottura formale, simbolica e linguistica in essere storicizzabile in ambito avanguardistico, secondo noi non ha alcun senso. Per una semplice ragione. Se è ben vero che il cosiddetto “darwinismo” in Arte (Achille Bonito Oliva) ha pressoché esaurito la sua energia innovatrice, è altrettanto vero che esso costituisce e costituirà il lievito naturale della crescita cognitiva in ambito scientifico, nonché dei suoi riverberi in quello tecnologico. Di rimbalzo in rimbalzo, con il conseguente cambiamento della Weltanschauung (lo spirito del tempo), anche l’Arte sarà tenuta a fare i conti – tanto per fare un solo esempio – con le enigmatiche materia ed energia oscure (tali sono, al momento).
[1] Nicolas Bourriaud, Arte relazionale, Postmedia Books, 2010 (Esthétique relationnelle, Dijon, Les presses du réel, 1998); Postproduction, Postmedia Books, 2004 (Postproduction, Berlino, Lukas & Sternberg, 2002); Il radicante. Per un’estetica della globalizzazione, Postmedia Books, 2014 (ed. originale Radicant, Pour une esthétique de la globalisation, Paris, éditions Denoël, 2009).
[2] ID. Estetica Relazionale, Op. cit., pp. 101-105.
[3] Da una sua intervista rintracciata su Internet.
[4] Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, op. cit. pp.7-8.
[5] Antonio Gasbarrini, Un empatico Fluxus per Matilde, in Affinità elettive – Studi per Matilde de Pasquale (a cura di Marino Freschi, Angelo Iacovella, Novella Novelli), Edizioni Empiria, Roma 2013, pp. 129-146.
[6] Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, op. cit. p. 79.
[7] Ibidem.
[8] Nicolas Bourriaud, Postproduction, op. cit., pp.5-6.
[9] ID., Postproduction, op. cit. p. 41.
[10] ID., Ivi, pp. 46-47.
[11] «[…] l’opera d’arte rappresenta un interstizio sociale. […] L’interstizio è uno spazio di relazioni umane che, pur inserendosi più o meno armoniosamente e apertamente nel sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio [rispetto a quelle descritte nell’interstizio marxiano, n.d.a.] rispetto a quelle in vigore nel sistema stesso». Ibid. p. 15.
[12] In: Guy Debord, Dal Superamento dell’arte alla Realizzazione della filosofia (a cura di Antonio Gasbarrini), Angelus Novus Edizioni, 2008, pp. 37-46.
[13] Nicolas Bourriaud, Il radicante. Per un’estetica della globalizzazione, op. cit., p.8.
[14] Ivi, p. 18.
[15] Ivi, p. 59
[16] Antonio Gasbarrini, L’Avanguardia inista. Occasioni di critica, L’Harmattan Italia, Torino, 2005.
[17] ID., Arte gravitazionale, Parise Adriano, Colognola ai Colli (VR) 1990.
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