Stare a distanza vuol dire smetterla con i comportamenti di una socialità falsa, vuol dire tornare all’essenziale, smettere di fingere, riconoscere l’altro per la sua interiorità, per la sua voce, per le parole che sa dire, per il suo volto, per il bene che ci può dare davvero
di Francesco Correggia
Una tragedia immane si abbatte sul mondo. Ha il nome spettrale e malvagio di Coronavirus. Nessuno può sfuggirgli, ci s’infetta attraverso l’aria che respiriamo, il contatto. È forse il compiersi di una catastrofe già annunciata o è l’ennesima pandemia a cui l’umanità ciclicamente è sottoposta. Poi passerà e tutto rimarrà come prima. Chi può dirlo? Ormai sono settimane di quarantena, nessuno può uscire tranne che per andare in farmacia, a fare la spesa o per lavoro.
Al supermercato ci sono code infinite. Le persone si devono tenere a distanza di almeno un metro e portare le mascherine e i guanti. Dappertutto aleggia un’aria greve di smarrimento come se fossimo in guerra. Riusciremo a sopravvivere? I più colpiti come al solito sono i più deboli: gli anziani, i diabetici, quelli con patologie pregresse.
Ci siamo abituati a sentire in televisione le cifre dei contagiati, dei positivi, dei ricoverati in terapia intensiva, dei guariti e dei morti. E poi ancora le percentuali, l’aumento o il calo dell’onda malefica. Tutti aspettiamo il picco, come se poi potesse esserci solo un calo, una discesa che va verso la fine del contagio. L’orrore non ha un volto preciso ma è astratto tranne quando vediamo uscire le bare dei morti dagli ospedali e assistiamo sgomenti in televisione alla conferenza della protezione civile. Si danno i dati aggiornati con freddezza luciferina, si sgocciolano le cifre degli ammalati, dei guariti, dei ricoverati in terapia intensiva, dei morti. Sembra di assistere ancora una volta al solito spettacolo televisivo con la verità che non viene mai detta del tutto ma non è così. I morti ci sono per davvero e la pandemia è cosa reale. La paura ci prende e qualcosa di consistente si materializza. Bare che salgano il fiume verticale dei morti come recita una vecchia poesia di Neruda, il fiume livido in su con le vele gonfiate dal suono della morte, gonfiate dal suono silenzioso della morte.
Sembra trascorso un secolo da quando mi accingevo a pubblicare questo libro prima del Coronavirus. Gli avevo dato anche un titolo: Ai bordi dell’arte, Naufragi e trascendenza. Era il tempo dei naufragi e dei morti in mare che ancora non era quello delle morti per Covid19 ma ne era la premessa, l’annuncio. Il libro è rimasto qui sul mio desktop, pronto per essere stampato, l’ho mandato a qualche editore per la pubblicazione, ma le risposte sono state tiepide oppure inesistenti. Anche il libro, pensavo, ha fatto naufragio, ma non importa. Mi ero rassegnato a lasciarlo nell’abisso della dimenticanza come tante altre cose della mia vita ma poi ho pensato che era arrivato il tempo di stamparlo anche senza il marchio dell’editore.
Ho compreso meglio, all’ombra del Coronavirus, che la scrittura è sempre qualcosa di mediato, di straordinario che avvicina l’uomo ad altri uomini, ad altri destini e al contempo ho capito che questo non era possibile nella società di oggi che continuiamo a chiamare contemporanea. Ho scoperto che chi scrive e chi legge, se lo fanno autenticamente e fuori dagli schemi consueti, sono legati dal medesimo destino. Operano per quella ricerca della verità che non può essere mai del tutto svelata, se non a costo della vita, della rinuncia, della perdita. Ho compreso che non bisogna scrivere per gli altri, per gli editori, il pubblico i giornali ed inseguire le vendite, il successo, l’economia, i canali pubblicitari. Occorre, al contrario, scrivere per un lettore presunto, per un ipotetico destinatario, offrirsi senza ritegno al destino inenarrabile del silenzio, della sparizione. Nessuno leggerà il tuo libro, è per questo che si deve scrivere. Entrare in colloquio con un possibile altro e reciprocamente intendersi come esseri umani accomunati dal medesimo destino non è solo un’illusione, in realtà si è da sempre soli. È questo il senso dell’opera: la solitudine che va verso l’eternità, che sconfigge il tempo e rivela l’essenza delle cose, il che vuol dire attraversare il confine pur nella distanza che ci separa.
Scrivevo:
Bisogna comprendere i cambiamenti e saperli dominare per meglio conviverci. Quante volte abbiamo pensato che occorreva essere irremovibili, rimanere nella propria disperata coerenza piuttosto che lasciarsi coinvolgere e accettare il mondo per come lo percepivamo nella sua larga maglia di bizzarrie e stravolgimenti? Il mondo e la realtà sono fatti per trasformarsi e trovare la via più rapida per rinnovarsi e riconfigurarsi in nuove forme di aggregazioni. È la vita che è così. Non possiamo farci niente. È un errore pensare di cambiare il mondo secondo la nostra volontà e i nostri desideri. Bisogna, al contrario, prendere atto della catastrofe e sopravvivere.
Queste parole ora rileggendole sembrano appartenere ad un’altra epoca. Eppure non è così. Non c’è un prima e un dopo ma sembra esserci il ripetersi della medesima formula e cioè: si deve cambiare, niente sarà come prima per poi magari continuare a fare quel che si faceva prima. L’ottica di prima: i piaceri, le mode, i consumi, gli sprechi, la ferocia rimangono indenni anche se siamo costretti a ripensare le nostre esistenze solo per poco. Ce ne saranno altre di questioni ancora più difficili da risolvere oltre a quelle che avevamo. Cambieranno anche le parole che useremo. Intanto per tutti la domanda è una: riusciremo a fare la vita di prima?
Scrivevo:
Nel mondo restano frammenti privi di senso. L’uso di questi frammenti potrebbe apparire superfluo nelle pratiche di consenso attuali, una farsa banale. Eppure è proprio da qui che si dovrebbe ripartire, da questi margini residuali in un ottica di resistenza e sopravvivenza. Che cosa bisogna fare? Rimanere fermi in un principio che appare vero e insuperabile ma che crea il vuoto attorno a noi o piuttosto prendere atto dei fatti compiuti, essere carini e simpatici, sorridere e accettare i fatti anche se sono a noi avversi e cercare di mutarli dal loro interno?
Non si tratta del principio di realtà opposto a quello del piacere che cerca nell’immediato l’appagamento dei propri desideri. È piuttosto una constatazione che richiede un equilibrio fra diverse contingenze. Quando capiamo che lo spirito critico, l’autenticità, il rispetto per l’altro, la coscienza, Dio non servono più al bene comune e nessuno ne vuol sentire parlare non dobbiamo chiuderci nella gabbia dorata dell’intransigenza. L’idea che possa esistere una possibilità etica ed estetica di vivere e pensare non può essere solo un’illusione. Così come non lo è l’ipotesi che l’arte possa cambiare il mondo, ritrovare la strada della verità e della virtù e liberarci dalla menzogna. Se nessuno ha saputo finora ascoltare bisogna che ora lo faccia . .
Questa volta non siamo davanti a un naufragio, all’ennesima metafora, ad una dimensione nautica del disastro, non siamo cioè solo dinnanzi a problemi come l’emarginazione, l’immigrazione, la povertà, la diseguaglianza, i cambiamenti climatici ma davanti a un Virus che occlude i polmoni, fa morire con una lenta agonia, si trasmette con facilità e può colpire chiunque. Oltre ai consueti rituali sociali bisogna rivedere i modelli economici e finanziari che fin qui hanno condotto la produzione di un sistema capitalistico globale e tirannico. Il virus porta allo scoperto questione non del tutto risolte, apre ferite laceranti rispetto al mondo così com’è, alle ingiustizie e sopraffazioni. Bisogna cambiare, dunque non può essere il solito slogan ripetuto più volte dai media poiché il Covid 19 fa sul serio e niente può essere come prima.
Scrivevo:
Il paradosso del nostro mondo perduto è filosofico ed è coerente al fallimento del progetto illuministico. Esso fa ricorso a un criterio apparentemente inconfutabile, radicato nell’individualità concreta e al tempo stesso capace di garantire il buon funzionamento di una collettività, la felicità. Dopo essere stata da Kant esclusa, in quanto movente inadeguato di una morale autonoma, la felicità ora torna in auge. Il calcolo dei piaceri perseguibili dagli individui viene sottoposto al criterio della crescita complessiva della felicità “oggettiva”, per il maggior numero di persone. È la promessa della felicità e non la felicità in quanto tale che viene perseguita dai canali pubblicitari, dai media, dalla moda, dal sistema economico finanziario. L’illusione arriva al suo apice quando per raggiungerla o avvicinarvisi si smonta il linguaggio, si banalizza ogni cosa e la parola ridiventa muta, la cultura si trasforma in spettacolo, attrazione turistica.
Una miriade di domande dovrebbero farsi avanti, ora che siamo chiamati a vivere la nostra solitudine insieme alle nostre famiglie o da soli. Che cosa significa stare all’ombra del Coronavirus, c’è un prima e un dopo nel nostro mondo, nella politica, nei rapporti sociali, nelle nostre esistenze e nel nostro modo di vivere? Sembra che ancora l’ansia di protagonismo, perfino ora, non ci faccia pensare a come stiano veramente le cose, a come essere nel dopo.
Che cosa dunque dovrebbe cambiare nella nostra vita e nelle nostre abitudini senza agitare il tormentoso squallore del protagonismo, della pubblicità, dell’arrivare per prima, dell’essere sempre più avanti degli altri?
Né possiamo dimenticare che il paese ha dei problemi, dei difetti, delle mancanze non più accettabili come la corruzione, l’evasione fiscale, e ancora la lentezza della macchina burocratica amministrativa, le poche risorse per la ricerca, i tagli alla sanità ecc.
Slides (a cura di Francesco Correggia)
Il paese del dopo dovrà per forza fare i conti con queste questioni e risolverle in maniera adeguata e forse saremo capaci anche di far meglio e ripartire rinnovati e rinforzati. Queste belle parole non possono ad ogni modo fare a meno di entrare nella dimensione dell’immaginario collettivo, dei mutamenti culturali e comportamentali a cui l’ombra del Coronavirus e la sua capacità di diffondersi ci costringono.
Stare a distanza non è solo quel metro di spazio fra una persona e l’altra che serve per difendersi dal Virus, ma guardare le cose senza farci prendere dall’apparenza, dall’epidermide, dai sensi. Stare a distanza vuol dire smetterla con i comportamenti di una socialità falsa, vuol dire tornare all’essenziale, smettere di fingere, riconoscere l’altro per la sua interiorità, per la sua voce, per le parole che sa dire, per il suo volto, per il bene che ci può dare davvero.
L’esistenza di ognuno di noi è appesa al filo sottile della morte che ci separa dagli affetti, dagli amori. Anche questa è stata abolita dal nostro vivere quotidiano fatto di prolungamenti, di vissuti frenetici, dove il pensiero della morte è relegato alla dimensione cimiteriale; bisogna disfarsene e impedire che ci rovini il piacere di godere, mangiare, viaggiare, sprecare far sesso. Siamo invece tutti esposti alla morte anche quando cerchiamo di dimenticarla, di allontanarla. Essa è già in noi da quando nasciamo. Fa parte del nostro essere umani.
La morte è un passaggio, un’esperienza che ognuno di noi deve fare da solo e bisogna saperla vivere la morte. Meditare su questa condizione umana è quasi necessario alla stessa vita, fa fiorire dimensioni nuove che abbiamo lasciato alla sfera religiosa sebbene essa sia un bene che non va trascurato. Pregare in questo momento deve essere un’esigenza autentica delle persone e non ancora un salvacondotto verso l’eternità. Bisogna farlo con il nostro cuore, con costrizione, per una mediazione, una possibilità che è per altro e non per altri e non per riempire i social di preghiere, figurine e paroline dolcificate tanto per far sapere che ci siamo, che siamo sullo schermo, che insieme ce la faremo. Rassicurare gli altri e sperare in una presenza divina che ci salverà è ancora una volta una menzogna; vuol dire che non abbiamo capito nulla. Né può farlo l’arte se continuiamo a pensarla come abbiamo fatto finora.
Scrivevo:
Né possiamo credere che con l’arte, la cultura, la scrittura, la poesia si raggiunga una forma di coscienza che ci libera dalle ingiustizie e dalla sopraffazione, dal regime misto della comunicazione. Le medesime forme dell’arte a tutti i livelli sono anch’esse coinvolte nel processo di convenzionalità mediale, di abbrutimento linguistico e comportamentale, di mondo spettrale che livella le menti e ne azzera il libero pensiero.
Occorre, dunque, trasformare gli spazi individuali, modificarne gli aspetti e ricorrere a stratagemmi di adattamento che includano anche la possibilità di pensare interrogandosi, pur dentro il sistema delle apparenze e dell’organizzazione tecnica delle immagini nella società intermediale.
L’altro aspetto che viene spesso riportato con insistenza dai media è quello che riguarda la nostra vita in casa, senza potere uscire e incontrare gli amici, partecipare a eventi sportivi, andare nei musei, viaggiare ecc. Anche in questo caso la retorica è tanta. E gli inviti per impegnare il tempo da trascorrere a casa sono litanie costanti e arrivano da più parti, usare il computer, connettersi in rete, leggere un buon libro, dedicarsi alla famiglia, fare le pulizie ecc. Improvvisamente tutti scoprono che c’è ben altro nel mondo.
Lasciatemi poter dire, senza peraltro pensare di dire alcunché di nuovo che è proprio della condizione umana, fin dall’inizio dei tempi, occorreva trovare un modo per sopravvivere alle proprie sventure che nel corso della storia sono state tante e ribadire una presenza, una speranza. Questo modo si chiama arte, scrittura, letteratura, poesia. Le medesime non sono solo delle pratiche o delle utopie che ci mettono il cuore in pace ma forme di conoscenza, testimonianze, forme che ci mettono a contatto con altre esistenze, con il passato con la storia. Anche qui abbiamo relegato queste conoscenze, queste verità, al mercato, alle aste, alle fiere, ai Musei e alle biblioteche. Ci siamo accalcati in file interminabili, stretti fisicamente l’uno con l’altro per fare il nostro selfie, per scambiare chiacchiere insignificanti e poter dire ci siamo stati, abbiamo visto quella mostra, visitato quella fiera, comprato quel quadro, quel libro. Insomma tutto per la nostra vanità.
Quante volte non abbiamo potuto leggere i classici, i grandi della letteratura moderna perché non ne abbiamo avuto il tempo e invece abbiamo preferito qualche facile e breve romanzetto e a volte neppure quello? Oppure non abbiamo saputo scegliere un buon quadro di pittura, sceglierlo con cura, conoscere l’autore, tenere quell’opera accanto a noi in casa e riguardarla più volte interrogandola. Abbiamo invece inseguito le mode, le consuetudini con la convinzione che l’arte fosse un riempitivo un arredamento, una specie di decorazione per il salotto e non un bene prezioso, apertura a un mondo, ad una visone del mondo, a qualcosa di differente che ci riempie la vita e lo spirito e di cui possiamo godere ogni volta uscendone rinnovati. Abbiamo preferito, invece che accrescere il nostro spirito e viaggiare verso mete impensabili, andare in vacanza, spendere i nostri soldi per piaceri momentanei, trastullarci con il turismo di massa.
Non siamo mai andati in profondità, non abbiamo fatto nessuno sforzo per conoscere noi stessi, da dove veniamo, quale il senso della nostra vita, quel che gli antichi chiamavano il nostro destino e arrivare al vero piacere visivo, letterario, comprendere la natura del nostro vivere e della nostra esistenza, leggere il Mondo e contemplare studiandola un’opera d’arte, la sua storia, la sua altra natura. Questo è il momento di farlo. Guardiamo lo spazio del nostro vivere senza sotterfugi e fughe ora che siamo costretti. Solo se sappiamo rinunciare alle nostre consuetudini, ne potremmo uscire vittoriosi, cambiati in bene senza che il coronavirus ci intacchi ulteriormente.
Oltre a riordinare il mio studio e a fare il punto su dove mi trovo con la pittura ho letto in questo periodo di isolamento e solitudine due classici della letteratura. Sebbene ne abbia letti tanti, questa volta ho trovato il tempo non solo di leggerli ma di calarmi nella storia e nell’epoca in cui sono stati scritti. Si tratta del Doctor Faustus di Thomas Mann e David Copperfield di Charles Dickens.
Sono due autori completamente diversi ma emblematici sia per lo stile narrativo sia per il contesto storico in cui sono stati scritti e si svolgono le vicende narrate. Ho fatto fatica a leggerli sebbene ne avessi il tempo. L’averli letti, goduto della loro scrittura e compresi fino in fondo mi ha riempito di gioia. Alla fine ho pianto di commozione. Mi sono allora ricordato di un libro esemplare di James Elkins, storico dell’arte e teorico della cultura visuale, dal titolo Dipinti e lacrime. Il libro racconta la storia di gente che ha pianto davanti a un quadro. È stato dirimente per me aver fatto una simile esperienza anche con la letteratura.
Secondo un’immagine della tradizione Kabbalistica sono le nostre autentiche lacrime che come gocce di dolore cadono nell’oceano immenso dell’eternità a fluire in un isola ascensionale e discendente di speranza e amore. Esse sono un contatto con Dio nel processo della creazione attraverso le Sefirot. Sono le lacrime, la parola, la preghiera, la contrazione del cuore che ci avvicinano alla trascendenza, al soffio divino. Sono loro a produrre la manifestazione della luce divina e una seconda nascita. Piangendo a calde lacrime in segreto come in un pozzo, un torrente traboccante si raggiunge la speranza, quel contatto, quella possibilità che davvero ci cambierà e forse ci farà diventare migliori all’ombra del Coronavirus.
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