Non c’è spazio in rete per questa poesia, né c’è compatibilità con i compartimenti stagni e i distanziamenti imposti dal Covid19
di Giovanni Fontana
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Il panorama poetico degli anni Settanta fu caratterizzato dalla moltiplicazione delle testate. Nascono riviste di ogni genere: di ricerca, di riflessione teorica, di cultura alternativa con connotazioni politiche, d’informazione e controinformazione, di generica promozione culturale, di gruppo, di tendenza, di scambio. L’obiettivo era quello di farsi sentire e di stabilire relazioni. In particolare c’è tutto un proliferare delle testate più o meno legate alla sperimentazione verbo-visiva.
Le riviste erano strumenti di contatto, così come la mail art, che in quegli anni, era uno strumento di promozione di collegamenti internazionali per una folta schiera di artisti e di poeti fuori dal giro istituzionale.
La stessa poesia costituiva uno strumento di dialogo e di raccordo dei differenti gruppi di ricerca. In un certo senso si tendeva alla formazione di una grande comunità, dove il gesto creativo assumeva in qualche modo anche valore etico: nella cerchia, che tendeva ad espandersi senza confini geografici, l’amico degli amici era un tuo amico. Si tendeva a costruire una rete, quando la rete telematica ancora era di là da venire. Ma con una fondamentale differenza: mentre nella rete telematica ogni rapporto viene stabilito digitalmente e persiste in genere quasi esclusivamente nella dimensione digitale (più o meno effimera, più o meno superficiale, più o meno viziata dalla fisionomia mediatica), nella rete di relazioni generata nell’ambito poetico sperimentale, uno dei principali interessi era quello di creare connessioni reali, in praesentia, in carne ed ossa, magari in atmosfera conviviale, dove non potevano escludersi collisioni estremamente produttive.
Il tessuto relazionale veniva costruito da una miriade di realtà che, prima ancora di caratterizzarsi come centri di elaborazione estetica, giustificavano la loro sopravvivenza in quanto fondata sul valore “politico” del rapporto umano. Di questo spirito, di certo non sgombro da vene utopistiche, era pervaso il Mulino di Bazzano, laboratorio di ricerche poetiche a tutto campo (lineari, concrete, visive, sonore, performative), punto di riferimento a 360°, povero, ma efficiente e determinato, così come tante altre realtà, da oriente a occidente nel mondo, che avevano considerato la performance come uno strumento essenziale di comunicazione. È innegabile che in tutto ciò si avvertissero echi di derivazione Fluxus.
La libertà di comunicazione, al di fuori dei vincoli del business dell’arte, ha favorito la diffusione di valori condivisi su larga scala: opposizione al sistema mediatico dominante e sostegno delle alternative portatrici di valori non compromessi con la logica del profitto, che già da allora andava favorendo un mercato artatamente costruito facendo convergere l’attenzione su valori nominalistici, mentre si allargava sempre più distintamente la forbice tra i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
In questa dimensione si venne a costituire in ambito internazionale una schiera nomade di poeti-performer, portatori di nuove istanze sotto il segno della voce e del corpo. Poeti che rivalutavano a pieno l’importanza dell’oralità, non più legati al solo lavoro sul testo, ma determinati a considerare il gesto poetico come atto intermediale, che avesse la funzione di connettere in un’unica azione, fortemente sinestetica, ogni tipo di linguaggio. In questa attività si resero subito evidenti le analogie tra il nomadismo in senso proprio, geo-politico, legato alla dimensione del viaggio, e il nomadismo in senso metaforico, facendo riferimento al continuo attraversamento di linguaggi diversi: dove la voce è in movimento, tra parola, suono, gesto, immagine, tecnologie.
Negli anni Ottanta, questi luoghi della performance, veri e propri spazi interartistici caratterizzati dalla fusione dei linguaggi, vennero definiti come fondamentali occasioni di relazione per nuove «Espèces nomades». Sul concetto si tenne un importante Festival a Québec, nel 1986, a cura di Richard Martel. In quell’occasione ci fu chi evidenziò il rapporto tra la pratica artistica e la dimensione esistenziale, sottolineando le analogie tra i trovatori medievali e i performer contemporanei, che in realtà già da tempo tendevano a misurare arte e vita in problematiche confluenze. Con una consistente vena di utopia, le cose sono andate avanti così per anni e ancora andavano avanti in questo modo fino all’esplosione della pandemia del coronavirus. Ora certamente i quadri di riferimento sono radicalmente cambiati. Ma oggi, comunque, continuare a muoversi su quelle basi è una speranza, poiché è innegabile che proprio quei fondamenti e quei comportamenti possano ancora essere funzionali alle strategie operative che collocano i principi del pluralismo e i temi del destino tecnologico dell’uomo in uno spazio critico di ferma opposizione alla melassa mediatica, asservita alla logica dell’immediato profitto, principio collocato dai gruppi di potere sempre al di sopra di qualsiasi altro valore.
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Non tutti coloro che leggono versi hanno la precisa coscienza di cosa significhi praticare la vocalità in chiave poetica. Siamo stanchi di sentir biascicare parole stente imbucate malamente nel microfono. La voce, il respiro, il flatus sono elementi fondamentali nella ricerca poetica. E fortunatamente sono molti quelli che ritengono che non sia più sufficiente, oggi (io lo penso da 50 anni!), considerare la poesia come una forma di creazione artistica legata esclusivamente alla tiposfera, o comunque alla semplice scrittura inchiodata una volta per tutte su un foglio di carta: quella scrittura che tanti vogliono ancora muta, temendo forse qualche destabilizzazione di poteri o semplicemente avendo in antipatia lo scandalo della vocalità. Del resto la voce assume un chiaro significato nel quadro della politica della comunicazione per la forza del suo impatto, specialmente se è immediata, non rimaneggiata ad arte. Sappiamo che la voce è di per sé portatrice di senso (nella buona e nella cattiva sorte), è presenza attiva, dunque “temibile”, specialmente se racchiude germi antagonisti. In genere le pratiche ascrivibili alla cosiddetta “nuova oralità” innervano il repertorio di un manipolo di artisti che non lavora certo per produrre consensi negli ambiti convenzionali.
Questo modo di vedere (o meglio di sentire) ha comportato nel tempo qualche forma di ostracismo (specialmente in certi ambienti accademici, popolati da critici sordi e da poeti muti). Ma, comunque si voglia abbordare la questione, resta sempre il fatto (inequivocabile) che la poesia è soprattutto un fatto sonoro (ritmico e fonico). Il testo, per tutti coloro che hanno scelto di misurarsi con le nuove dimensioni orali, non può che essere una partitura, perché la “musica” è tutta dentro il testo e bisogna saper tirarla fuori. Non si tratta di inventarsi una melodia di accompagnamento. Un sottofondo, come si sente spesso. Sarebbe ovviamente una banalità. Un imperdonabile scivolone. Si tratta invece di organizzare e armonizzare il flusso sonoro insito nella struttura testuale attraverso l’uso sapiente della voce (strumento principe, generatore di significanza). La voce: che sostiene il testo, ma che può anche temporaneamente abbandonarlo, per dissolverlo nello spazio, per scomporlo in grumi di fonemi, in frammenti di corpo, in particulae volanti, in germi temporali, in pure vibrazioni capaci di ricoagularsi intorno a un concetto, a un’idea, a un ulteriore gesto poetico, a una sorta di corpo glorioso, che si fa corpo di poesia. Tutto ciò senza perdere mai di vista il progetto, senza mai perdere il controllo della situazione performante, che è essenzialmente una riscrittura in termini spazio-temporali, sonora e non solo, che fa i conti con i metri, le battute, le durate, le pause, le cesure. Il testo è un pre-testo. E un pre-testo, per un poeta-performer, deve sempre essere oralizzato (pur non escludendo momenti speculativi di lettura mentale) tenendo in gran conto il fatto che “la grana della voce” di barthesiana memoria ha un peso fondamentale nell’atto creativo, come tutti quei parametri legati alla qualità del suono (timbro, volume, armonici, riverberazioni, ecc.). La poesia nasce insieme al teatro e implica un’esecuzione. Ma ben inteso, fare operazioni di questo tipo non significa fare poesia sonora. Per me significa fare poesia tout court. D’altra parte la nozione di poesia sonora è legata ad un passato storico pervaso da volontà dissacranti nei confronti del linguaggio allora corrente, considerato consunto e compromesso, stantio ed inefficace: ciò aveva spinto alcuni poeti particolarmente attratti dalle risorse delle tecnologie magnetofoniche a lavorare come musicisti concreti.
Io ho sempre sostenuto la funzione del testo, ne ho sempre difeso l’importanza, anche se, in taluni casi, ho dovuto ridurlo all’osso, alla sola idea di progetto, appunto. E ovviamente non sono stato l’unico. Basti citare ad esempio Bernard Heidsieck, che considerava i suoi testi come trampolini per lanciarsi nello spazio-tempo.
03
La poesia d’azione si fonda sulla phoné, sulla musica del dire che esalta il piano del significante, ma nello stesso tempo deve sprigionare un’enorme forza centripeta, capace di coinvolgere elementi diversi nella ricostruzione di un testo che si dilata oltre la pagina. La poesia è una struttura complessa che deve poter scegliere tutti quegli elementi che, in un modo o nell’altro, devono o possono entrare “in situazione”. Ma si richiede estrema chiarezza. Niente escluso? Tutto incluso?
La certezza, in ogni modo, è che la poesia è una sorta di organismo vivente che chiede grande rispetto e che necessita di relazionarsi ad un pubblico, ma con i tempi giusti e le giuste modalità, di volta in volta scelti. Posso decidere di gridare versi in una piazza con diecimila persone o di sussurrarli nell’orecchio di ciascuno degli spettatori nella platea di un teatro o sulla riva di un lago (come talvolta mi è capitato – per esempio nel 1997 in Transilvania: AnnArt, International Living Art Festival, St. Ann Lake, Romania, a cura di Gusztav Uto).
Se la poesia è qualcosa di vivo, il suo organismo si sviluppa in relazione all’ambiente esterno, alle sue potenzialità. Infatti, ogni organismo ha necessità di scegliere il proprio ambiente, tanto più che l’organismo di cui si tratta è spiccatamente autopoietico, in quanto aperto a dimensioni diverse da quelle della pagina. Lì il testo pulsa di vita interiore. La pulsazione (sempre che ci sia – e qui parliamo di valori fonici e ritmici affidati in prima base alla composizione testuale) preme verso l’esterno. Ma il gioco è simile a quanto avviene con la scrittura musicale. C’è la necessità dell’espansione nella dimensione spazio-temporale. Ciò che è in nuce nella partitura si realizza in vibrazioni materiche che coinvolgono tutti i nostri sensi. La percezione non è soltanto uditiva, è anche ottica e aptica.
Ma quell’organismo conserva la propria identità nella sfera delle trasformazioni. Si rigenera dall’interno con un processo (appunto) autopoietico, che sostanzialmente è definito proprio dalla rete delle relazioni. Esso è aperto in quanto cerca (deve cercare) rapporti con l’esterno, ma è chiuso in quanto continua a rinnovarsi mantenendo la propria fisionomia strutturale, pur nella diversità. Il livello di organizzazione degli elementi interagenti è determinante ai fini della qualità dell’opera, intesa come vero e proprio sistema. Evidentemente molto dipende dalla complessità di tale organizzazione, da leggere sempre in chiave intermediale, nel senso che ciascuno degli elementi interagenti non ha senso se considerato nella sua propria autonomia.
In altri termini, nella dinamica delle trasformazioni, pur complessa, il processo autopoietico garantisce l’identità nella diversità. In un certo senso si verifica ciò che si osserva in biologia nel rapporto tra genotipo e fenotipo. Diciamo pure, comunque, che tutto ciò deve riferirsi ad un concetto di equilibrio, al centro del quale c’è sempre un responsabile: il poeta, appunto, il motore, il redattore del progetto, la coscienza creativa, l’artifex, il poietes, il performer (perché il performer è sempre un poeta, come il vero poeta è sempre un performer).
Il poeta pre-testuale, dunque, fa; plasma; agisce; la sua voce in-forma operando una sintesi di opposti che determina una realtà altra; egli coniuga scrittura e vocalità, immobilità e movimento, azione e progetto, oggetto e soggetto. La poesia pre-testuale appare, dunque, doppia, inquadrandosi perfettamente in una dimensione alchemica. Nella tradizione ermetica il mondo è sintesi di contrari; Paracelso, mago e alchimista, afferma che ogni cosa è doppia.[1] E il frutto della “coniunctio oppositorum”, il “filius philosophorum”, è il Rebis, l’androgino immortale, l’essere doppio. Piedi a terra e braccia levate in alto, verso il cielo, l’androgino, l’orante archetipico, l’Y presente in tutti gli alfabeti conosciuti, partecipa del principio uranico e di quello ctonio.
Ma già Aristotele asseriva che “un carattere specifico della sostanza, benché identica e numericamente una, è di essere costituita in modo tale da accogliere i contrari mediante un processo di autotrasformazione”.[2]
Al genio del poeta, insomma, è demandata la sincronizzazione dei processi di congiunzione (performance) affinché possano essere liberati i valori più alti delle forme. Il poeta alchimista, alle prese con la trasmutazione della materia alfabetica e verbale, si cimenta nella ricerca delle possibili facce della sostanza, per perseguire il fine ultimo della nascita dell’Y, pietra filosofale, aurea apprehensio, axis mundi. Il poeta trasforma così parole e cose, come il contadino tramuta l’uva in vino e le spighe in pane bianco; e tutto si confonde nella ruota del tempo e dello spazio.
Ma questo processo autopoietico, assolutamente necessario per garantire la continuità dell’organismo, non è ovviamente sufficiente a definirne la qualità, che, per una percentuale variabile, dipende anche dalla gestione delle relazioni con il contesto, che saranno scelte secondo un pacchetto di regole precostituito nel progetto: l’organismo, in ultima analisi, sceglie di sottoporsi a certe sollecitazioni piuttosto che ad altre. Nella fattispecie, pertanto, organismo e ambiente sono legati a filo doppio: c’è piena interdipendenza, tanto che per molti versi è addirittura ravvisabile la specularità.
In pratica, un lavoro poetico vive e vivrà in relazione e in funzione delle regole stabilite alla base del progetto, alla qualità dei suoi attrattori e alle caratteristiche degli elementi attratti e da attrarre. Tali regole, esplicite o implicite, sono parte integrante della costruzione testuale e ne regolano i processi di espansione.
Non c’è spazio in rete per questa poesia, né c’è compatibilità con i compartimenti stagni e i distanziamenti imposti dal Covid19.
[1]Paracelso, Paragrano (a cura di F. Masini), Bari, Laterza, 1973.
[2]Aristotele, Le Categorie, 5, 4a10-11.
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