Dai suoi versi il dramma del suo popolo diviene universale, si innalza a tragedia dell’umanità, raggiunge tutti coloro che lottano per la dignità e la libertà, dando loro coscienza e memoria
di Anna Maria Giancarli e Alessandra Di Vincenzo
Mahmoud Darwish, poeta palestinese fra i più grandi al mondo, fu ospite d’onore al Premio letterario internazionale “Città dell’Aquila” – intitolato a Laudomia Bonanni – e portò anche in questa città la sua voce tormentata con cui, attraverso la poesia, aveva espresso in modo radicale il dramma del popolo palestinese, divenendo così un simbolo collettivo dell’atroce sofferenza della sua gente e del suo bisogno d’una patria e d’una terra. Per lui fu molto importante il significato dell’invito, come riconoscimento alla Resistenza e alla creatività del popolo palestinese, oltre che come solidarietà con esso per l’occupazione da parte di Israele.
Un’autentica identificazione, appunto, fra il poeta ed il suo nobile popolo che, vergognosamente, tra l’indifferenza del mondo, continua a subire soprusi, violenze e vessazioni d’ogni genere.
Il traduttore Saleh Zaghloul, suo connazionale, ha pubblicato nel 2020 il libro “Inni universali di pace dalla Palestina – Elogio dell’ombra alta”, con poesie di Darwish, per diffondere sempre attraverso le sue parole le sofferenze, gli esili, le ingiustizie, l’occupazione, insomma la tragica Storia di questo eroico popolo. Un libro, quindi, che intende proteggere la memoria dei tanti avvenimenti che hanno segnato la vita del poeta, come l’invasione di Beirut nel 1983 e l’atroce massacro che ne seguì ad opera degli israeliani, e che vuole mantenere alta l’attenzione sulla condizione sempre più difficile della Palestina.
“Elogio dell’ombra alta” è il poema dell’orrore, del massacro dei 3000 civili di Sabra e Chatila e della disperata resistenza dei partigiani palestinesi dell’OLP. Darwish scrisse, forse, il poema durante l’assedio, per sottrarre i fatti all’oblio e per far conoscere al mondo la furia omicida degli israeliani, da lui paragonata a quella nazista nei confronti degli ebrei.
Il poeta risiedeva da esule in Libano, dal 1971, per sottrarsi agli innumerevoli arresti da parte di Israele a causa del suo impegno civile e della sua poesia. A soli 7 anni era stato costretto a fuggire da Birwa, il suo villaggio, in seguito all’invasione armata degli israeliani avvenuta nel 1948. Quando tornò non trovò che macerie. La sua poesia è, di fatto, l’identità del suo popolo che combatte, dell’esule, dello straniero illegale nel suo stesso paese, del partigiano irriducibile, della resistenza che rinasce dalle sue stesse ceneri, come la Fenice.
Dai suoi versi il dramma del suo popolo diviene universale, si innalza a tragedia dell’umanità, raggiunge tutti coloro che lottano per la dignità e la libertà, dando loro coscienza e memoria. Al contempo, nelle sue poesie, condanna la mancata solidarietà di molti regimi arabi e addita l’America come colei che muove veramente i fili di tutta la Storia, invocando il ritorno ai confini del 1967 e la fine dell’occupazione. Questo il sogno del poeta, un sogno di giustizia e di pace.
Purtroppo, dalla morte di Darwish, avvenuta nel 2008, la situazione in Palestina è – se possibile – peggiorata di anno in anno. Israele continua a portare avanti la sua opera di furto di terra, acqua, case, a imprigionare, a uccidere, a bombardare la tristemente famosa “prigione a cielo aperto” di Gaza, a costruire muri chilometrici dell’apartheid e colonie illegali, tanto che ormai le zone della Cisgiordania amministrate dall’Autorità Nazionale Palestinese sono ridotte a piccole aree, completamente scollegate tra di loro (da qui, l’impossibilità de facto di attuare la soluzione dei “due Stati”, se mai ce ne fosse stata davvero, o ce ne fosse l’intenzione).
Tutto ciò, nel silenzio consapevolmente e sfacciatamente complice dei governi occidentali, Stati Uniti in primis, che finanziano gli insediamenti illegali, e con la connivenza anche della cosiddetta attuale “sinistra”, ormai avvezza a praticare l’”equidistanza”, quando non addirittura a appoggiare gli oppressori.
La situazione appena descritta è ancor più lacerante e lampante se si verifica di persona – anche con una visita breve – in quei territori che vengono definiti da tutti ‘occupati’, senza però mai dire da chi. Il sostegno alla causa palestinese, inoltre, nulla ha a che fare con l’”antisemitismo”, propagandato dai sionisti e invocato appena si tenta di affrontare il problema delle politiche messe in atto dallo Stato di Israele. L’accusa va rispedita, senza dubbio, al mittente; perché anche i palestinesi sono semiti e perché le stragi e i tentativi di annientamento di questo popolo sono fatti reali, concreti, perseguiti con lucidità dal 1948 in poi.
In questa sanguinosa situazione, Mahmoud Darwish ha vissuto un’esistenza dura, dando però forza e speranza a tutti i palestinesi in lotta come lui.
Il ritmo delle distruzioni ha scandito la sua vita, nella quale ha disseminato anche sentimenti di amore, dolore e nostalgia. In un colloquio immaginario con sua madre, scrive:
[…] Sono invecchiato rendimi le stelle dell’infanzia / fammi tornare come tornano gli uccelli / al nido della tua attesa […]
[…] Ho nostalgia del pane di mia madre / del caffè di mia madre / delle sue carezze ho nostalgia.
Il poeta, che da bambino non aveva capito – da profugo – chi avesse distrutto il suo villaggio e come fosse accaduto che l’intero suo mondo fosse sparito, divenne la stella polare della tragedia palestinese e del suo popolo indomito, che tuttora resiste, nonostante tutto.
Le sue parole travalicano le vicende temporali, per fissarsi nel pensiero collettivo anche dopo la sua morte:
E cammina con me sulle orme dei miei antenati / silenziosamente al ritmo di un flauto / verso la mia eternità / E non mettere una viola sulla mia tomba / è il fiore di chi è depresso / e ricorda ai morti come l’amore sia morto troppo giovane. / Metti sette spighe di grano verde sulla mia bara e un po’ di anemoni rossi devi trovarli.
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