Il collezionista (?) potrà ora godersi on real time un’opera androgina costituita sia dal quadro analogico dipinto da un umano che la sua trasfigurazione digitale NFT realizzata da un robot, magari affiancando, in una sorta di dittico, le due ibridate versioni

di Antonio Gasbarrini

Come lacqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo,
provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni,
così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni,
che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano.[i]

Paul Valéry 1928 – Walter Benjamin 1936

L’esergo non tragga in inganno. Pur non essendo stato scritto a quattro mani – quasi un secolo fa – , di fatto possiamo darne una interpretazione assertiva. La profetica frase di Valéry, tratta dal saggio La conquête de l’ubiquité (1928) è stata poi citata integralmente da Benjamin nel suo insuperato ed intrigante testo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936). Riproducibilità tecnica trasmutata, ora, da analogica (materica, cioè, con la stampa tipografica prima, con i multipli xilografici, acqueforti, serigrafie…, poi) in eterei bit circolanti, alla velocità della luce, vale a dire circa 300 mila kilometri al secondo, nel nuovo tempospazio curvo einsteiniano dominato, al momento in cui scriviamo, dalla materia ed energia oscure di cui sappiamo pressoché nulla. Annotava, ancora,Valéry:«Né la materia, né lo spazio, né il tempo non sono più, da vent’anni in qua, ciò che erano da sempre. C’è da aspettarsi che novità di una simile portata trasformino tutta la tecnica artistica, e  così agiscano sulla stessa invenzione, fino magari a modificare meravigliosamente la nozione stessa di Arte»[ii].

Aveva avuto la vista lunga, molto lunga Valéry. Benjamin anche se ne sarà suggestionato, ma non condizionato, approfondirà in particolar modo il rapporto esistente tra l’originale (dell’opera d’arte) e la sua replica (d’après incluso): «Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova. […] L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità […]. Ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’“aura” di un’opera d’arte. […] Moltiplicando la riproduzione essa (la tecnica, n.d.a.) pone al posto di un evento unico, una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. […] Il valore unico dell’opera d’arte autentica trova una sua fondazione nel rituale»[iii].

Alla luce di questa premessa, come coniugarla con la dematerializzante rivoluzione digitale che sta modificando radicalmente produzione e fruizione delle opere d’arte? Come orientarsi, anche teoricamente tra i neologismi di “Realtà aumentata”, “Metaverso”, “Crypto Art”… e, con l’ultimo arrivato cronologicamente, l’acronimo NFT?

Nel precedente intervento su questa stessa rivista, oltre ad accennare ad alcune questioni aperte esistenti nel metamorfizzabile ciberspazio immateriale emergente, avevamo ritenuto opportuno riproporre integralmente il nostro testo Arte Digitale scritto agli inizi degli anni Novanta [iv]facendo già una netta distinzione d’ordine estetico tra arte e non-arte: «Il rivoluzionamento nel frattempo verificatosi nell’etereo universo digitale, in cui i computer quantistici faranno fare un ulteriore balzo in avanti all’attuale velocità di elaborazione dei dati, non dovrebbe inficiare più di tanto la tesi di fondo qui sostenuta: non confondere, cioè, l’Arte analogica con l’A maiuscola, con la tanta “similarte” digitale in circolazione»[v].

Ebbene. Proprio il dilagante avvento degli NFT, in cui l’hic et nunc benjaminiano è andato letteralmente a farsi friggere, ci obbliga a formulare alcune ulteriori riflessioni. Lungi dal voler demonizzare tale pratica digitale produttiva-mercantile (non solo in ambito artistico) ed in attesa che l’auspicio di Valéry – con una tecnica artistica agente sulla stessa invenzione «fino magari a modificare meravigliosamente la nozione stessa di Arte» – si concretizzi, cerchiamo di tracciare alcuni chiarificatori spunti.

I Non-Fungible Token (traducibili grosso modo in “gettone non riproducibile”) certificano la proprietà esclusiva di un prodotto digitale irrepricabile (immagine statica, video, testi ecc. non necessariamente riconducibile nell’alveo creativo-culturale) registrato in una piattaforma  blockchain che «consiste in un registro condiviso e immutabile che serve per registrare le transazioni, tenere traccia degli asset e consolidare un rapporto di fiducia».

Una sorta di suk (dove si può comprare/vendere di tutto e di più, anche con le tradizionali modalità dell’asta, ed i cui pagamenti/incassi possono essere effettuati sia in criptovalute come i bitcoin, che con le monete tradizionali).

Slides

Questo slideshow richiede JavaScript.

Un solo esempio, per tutti. Il primo tweet “ just setting up my twttr” regolarmente incorniciato a mo’ di una opera d’arte nella sua nuova veste di NFT, a suo tempo postato nel 2006 da Jack Dorsey, è stato acquistato da un imprenditore per 2,9 milioni di dollari. Quest’ultimo, che lo ha paragonato alla leonardesca Monna Lisa, ha tentato di rivenderlo – sempre come NFT – con un’aspettativa d’incasso di almeno 25 milioni di dollari, predestinandone la metà in iniziative solidaristiche di carattere umanitario, ma ricevendo offerte reali (questa volta sì), di miserrimi 6800 dollari (una fake news?)

In tale contesto, e mettendo ora la lente d’ingrandimento solo sul mercato dell’arte, vanno subito rilevate, quanto a quotazioni, le analoghe stratosferiche cifre a suon di altrettanti milioni di dollari, incassate da artisti emergenti come Beeple (al secolo Mike Winkelmann). Il quale, per la sua “enneffettizzata” opera digitale “Everydays: the first 5.000 days”, ha spuntato nel marzo dello scorso anno, nella criptoasta della londinese Christie’s, ben 69 milioni di dollari.

Ma di che tipo di opera stiamo parlando? Di un semplice collage digitale di circa 5000 immagini pubblicate quotidianamente su Instagram dal 1 maggio del 2007. Immagini poggianti tra una resa iconica ora ludica, ora grottesca, spesso post-Pop, visibili in rete una per una ingrandendo opportunamente le stesse.

Nel titolo di questo testo abbiamo messo in relazione la Crypto Art alla Beeple, con «la presa in giro dell’est-etica».

Una piccola digressione ci consentirà di chiarire subito il senso della predetta affermazione. Nel 2009, a stretto ridosso del tragico sisma aquilano, curavo nel Porto di Genova la rassegna “Dalle 3.31 alle 3.33: il prima e il poi degli artisti aquilani”[vi], mentre l’anno successivo proponevo nella sconquassata città terremota l’altra iniziativa espositiva, della durata di 24 ore, “La deriva  debordiana alle 99 Cannelle”[vii]. In entrambe, avevo invitato, tra gli altri artisti, Domenico Boffa. Scrivevo, in catalogo,  a proposito della sua ricerca germinata dalla tragedia delle vittime sismiche e veicolata anche da facebook: «Domenico Boffa completa alle 99 Cannelle il suo lavoro Duecentonovantanoveterzi iniziato all’indomani del sisma su facebook, esponendo tre teche bianche in rovere contenenti 299 “sorrisi mancati” incisi sulla paglierina carta da pacco. Affianchiamoci al suo sconvolto e sconvolgente attraversamento del Web: «Ho realizzato un trittico incidendo con un taglierino su carta-pacco duecentonovantanove sorrisi, le vittime del sisma [tante erano al momento dell’input su facebook, ne diverranno 308, n.d.a], sorrisi alla Ensor. Era ancora poco, troppo poco. Ho pensato subito a internet, la rete che mi ha mantenuto in contatto con la vera realtà dei post-terremotati. Facebook poteva essere usato creativamente in maniera diversa. Come una tela. Ho iniziato a pubblicare sul mio profilo dall’undici giugno (del  2009, ed a due mesi dal sisma, n.d.a.) ogni giorno, un sorriso diverso che componeva il trittico accanto al nome e alla data di nascita della persona scomparsa. Ogni giorno un nome, una data di nascita e un fantasmatico sorriso cartaceo. Questa operazione mi ha aiutato a stare un po’ di più vicino al popolo aquilano, a non dimenticare»[viii].

Il semplice confronto, non solo estetico, ma anche etico (preciseremo oltre la chiamata in causa dell’est-etica) tra le migliaia di figurine musive di “Everydays: the first 5.000 days” e il work in progress della rammemorante vicinanza, su facebook prima e su un trittico anche analogico poi, di “Duecentonovantanoveterzi” di Boffa con le persone scomparse, consente di percepire al meglio l’abisso esistente tra un autore impegnato anche civilmente con la sua arte ed un altro gratificato da insulse e speculative quotazioni di un mercato iperdrogato.

Le chiavi di lettura benjaminiane dell’ “Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, in apparenza – negli NFT– sembrano esserci tutte. Sostanzialmente manca, invece, nel qui ed ora dell’immagine originale digitale residente in una piattaforma e che ti viene incontro con il medium di uno strumento elettronico che hai nella mano, o è poggiato su un tavolo, o, ancora, la stai vedendo su uno schermo o in realtà aumentata, proprio quell’ “aura” della distanza cultuale-sacrale. Chiarisce Benjamin in una nota: «Definire l’aura un’«apparizione unica di una distanza, per quanto questa possa essere vicina» non significa altro che formulare, usando i termini delle categorie della percezione spazio-temporale, il valore cultuale dell’opera d’arte. La distanza è il contrario della vicinanza. Ciò che è sostanzialmente lontano è l’inavvicinabile [corsivo nostro]. Di fatto l’inavvicinabilità è una delle qualità principali dell’immagine cultuale. Essa rimane, per sua natura, «lontananza, per quanto vicina». La vicinanza che si può strappare alla sua materia non elimina la lontananza che essa conserva dopo il suo apparire»[ix].

Ma, ben al di là di queste cesellate parole, cosa avranno di estetico, oggi, gli “enneffettizzati” diecimila esemplari delle figurine (prima gratuite) dei “CryptoPunk”, di “Nyan Cat” e via dicendo? Per esser più vicini al tradizionale concetto di “opera d’arte”, chiamiamo ora in causa il ritratto del celebre robot “Sophia” dipinto da Andrea Bonaceto, e poi – grazie all’Intelligenza Artificiale di cui è ben dotato –metamorfizzato dalla “creatura tutto cervello, ma senz’anima” nel video morphing “Sophia instantiation” della durata di 12 secondi visibile nel sito dell’artista[x]; aggiudicato in asta lo scorso anno (sempre nella versione NFT) per 688 milioni di dollari. Il collezionista (?) potrà ora godersi on real time un’opera androgina costituita sia dal quadro analogico dipinto da un umano che la sua trasfigurazione digitale NFT realizzata da un robot, magari affiancando, in una sorta di dittico, le due ibridate versioni.

Pur essendo in presenza di un’indubbia “avanguardia informatico-tecnologica”, non si può negare che in fatto della lingua viva e vitale dell’arte, siamo – a parte qualche debita eccezione – in piena “retroguardia civile ed etica”.

L’impegno dell’artista, di fronte all’aberrante crudeltà con cui il popolo ucraino è attualmente massacrato dalla disumana aggressione russa con conseguenze nefaste anche per l’ambiente naturale avvelenato dalle esplosioni di bombe su bombe e l’altra sessantina di guerre che continuano ad insanguinare il pianeta, si fa urgente come non mai. Alla Picasso e alla sua rivoluzionaria “Guernica”, possiamo invocare.

Attingendo magari il meglio dall’eredità lasciataci dalle prime tre avanguardie storiche (escludendo, secondo la nostra ottica il “guerrafondaio Futurismo”, ma non il Dadaismo) e quelle neo (New Dada e Situazionismo, incluse), tenendo ovviamente conto anche di tutte le altre che hanno maggiormente inciso nel rinnovamento formale-linguistico dell’opera d’arte.

Opere d’arte non necessariamente “belle” e gratificanti secondo l’accezione storicamente consolidatasi, ma “taglienti e urticanti”. Antagoniste ad ogni sistema di potere, a cominciare da quelli dittatoriali o autocratici, attingendo qualche spunto, se necessario (ma con i dovuti cambiamenti raccordati alla con/figurazione della società contemporanea), alle insuperate lezioni dadaiste e situazioniste. Rileggendone, magari, per le prime, la folgorante interpretazione benjaminiana: «Ogni formulazione nuova, rivoluzionaria, di determinate esigenze, è destinata a colpire al di là del suo bersaglio. […] I dadaisti davano all’utilizzabilità delle loro opere un peso molto minore (corsivo dell’autore) che non alla loro inutilizzabilità nel senso di oggetti di un rapimento contemplativo. Essi cercavano di attingere questa inutilizzabilità, non in ultima istanza mediante una radicale degradazione del loro materiale. Le loro poesie sono insalate di parole, contengono locuzioni oscene e tutti i possibili e immaginabili cascami del linguaggio. Non altrimenti i loro dipinti, dentro i quali essi montavano bottoni o biglietti ferroviari. Ciò che essi ottengono con questi mezzi è uno spietato annientamento dell’aura dei loro prodotti, ai quali, coi mezzi della produzione, imponevano il marchio della riproduzione»[xi].

Se le loro insalate di parole avevano comunque un obiettivo anti-lirico-elegiaco diretto a denudare i  decadenti valori borghesi, le insalate di immagini di “Everydays: the first 5.000 days” e quelle vendute alle sconcertanti, assurde cifre dai tanti epigoni scesi nel frattempo nel kripto mercato digitale degli NFT, attendono, forse, un radicale ripensamento ideativo, «fino magari a modificare meravigliosamente la nozione stessa di Arte», come già si è sottolineato citando Valery.

Senza peraltro considerare l’enorme spreco di energia connesso alla tecnologia del Blockchain e alla stessa produzione degli NFT. Qualche domanda dovrebbe pur imporsi (agli artisti, ovviamente), sulle tante problematiche d’un ambiente “analogico” violentato oltre ogni ragionevole limite, anche con questa neo-svolta anestetica.

Rileva a proposito e, lucidamente,Vincenzo Trione: «Gli esiti raggiunti da Beeple e dai suoi compagni, appaiono ancora ingenui. Simulacri policromi, privi di ogni fisicità, illustrazioni digitali 2D e 3D, eredi delle lontane utopie di Apollinaire e Duchamp dell’arte fatta di niente»[xii].

Un rutilante, caleidoscopico, illusionistico niente che ha trovato approdo persino alla fiorentina Galleria degli Uffizi. Con l’accordo stipulato dal suo direttore, con una società privata, circa la possibilità per la stessa di trasformare in “multipli di NFT”, alcuni suoi sommi  capolavori in collezione: quali il michelangiolesco “Sacra Famiglia” (Tondo Doni), il botticelliano “Allegoria della Primavera”, il caravaggesco “Bacco”, l’“Annunciazione”  di Leonardo, “La Madonna del Cardellino” di Raffaello ed altri ancora.

Da che mondo e mondo, “l’opera analogica moltiplicata”, a tiratura limitata e con numerazione progressiva in numeri decimali o romani (più le cosiddette “prove d’autore”) è stata sempre firmata dal suo artefice, per attestarne sia l’autenticità che l’eventuale diverso valore di mercato attribuibile in base alla predetta numerazione (le prime copie, per una serie di ragioni, sono maggiormente appetibili).

Nel caso specifico degli Uffizi, l’autenticità della versione digitale dall’originale –  ad altissima definizione, risemantizzata “serigrafia digitale” ed anch’esse a tiratura limitata – è certificata dalla firma (sempre digitale) del direttore del Museo. Il prezzo base di ogni singola copia, varia dai 90 mila euro ai 250 mila, com’è avvenuto per il Tondo Doni. Con un particolare in più. Insieme all’immagine, per quest’ultimo quadro, è stata ceduta anche la cornice (ripresa sempre dall’originale, nella sua nuova vita tridimensionale in 3D), talché proiettando l’NFT al suo interno, l’illusionismo, per il collezionista, di possedere l’originale, raggiunge il suo acme.

Di fronte a questo inedito scenario de “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, ci piace ricorrere, ancora, alle illuministiche parole di Walter Benjamin:«Nella misura in cui il valore cultuale del quadro si secolarizza, le rappresentazioni del substrato della sua unicità diventano più indeterminate. Nell’appercezione del fruitore l’irripetibilità delle immagini, che appaiono nell’opera cultuale, viene sempre più sostituita dalla unicità empirica dell’esecutore o della sua esecuzione. […] (Ciò si rivela con particolare evidenza nella persona del collezionista, il quale conserva sempre alcuni tratti caratteristici del servo di un feticcio e che, attraverso il possesso dell’opera d’arte, partecipa alla virtù cultuale di questa)»[xiii].

Quanto all’attuale balbettamento avanguardistico – non solo nel comparto visuale, analogico o digitale che sia – nel contesto internazionale del massacro putiniano del martirizzato popolo ucraino con larvate minacce all’Occidente del ricorso all’uso di iper-mortifere bombe atomiche, se dovesse essere necessario, possiamo ricorrere, come esempio paradigmatico d’una est-etica resiliente, alla prurinstallazione performativa dei situazionisti  Destruction of the RSG-6. Si trattava di una distruzione più semantica che simbolica, di un rifugio antiatomico dove era allestita anche una mostra con opere di Debord, Bernstein e Martin, organizzata alla Galleria Exi, ad Odense in Danimarca, nell’estate del 1963.

Ecco le istruzioni progettuali, poi concretizzatesi, date da Guy Debord a Martin, sui tre ambienti in cui essa andava a snodarsi: «Il primo (Shelter) doveva dare l’idea di un orribile rifugio antiatomico contenente un letto da campo, scatolame e bottiglie d’acqua minerale; inoltre, come ambientazione sonora un rumore interrotto di una sirena (su registratore), mentre la luce doveva essere fastidiosa. L’atmosfera, poi, difficile da respirare per un eccesso di deodoranti, con la presenza di due assistenti (vestite con tute antiatomiche) che obbligavano il visitatore a restare 10 minuti, durante i quali venivano distribuiti dei medicinali. Per finire, un manichino dentro un sacco di plastica messo in un angolo «pour figurer le cadavre». Nel II ambiente (Rivolta), le foto ingrandite di Kennedy, la regina d’Inghilterra, de Gaulle, Khrouchtchev, Franco, Adenauer, il re di Danimarca e tre carabine con piombini con cui i visitatori dovevano sparare su di esse. Nel III ambiente (Exhibition), una tradizionale “piccola mostra” situazionista, oltre a riviste e volantini»[xiv].

Come reagire oggi, individualmente e collettivamente, alla cloroformizzante spettacolarizzazione mediatica della tragedia ucraina a cui stiamo assistendo (versione visiva contemporanea  della profetica, debordiana  “La Societé du Spectacle” e dei suoi “Commentaires”, 1967-1988), prima che sia troppo tardi per la preannunciata fine del genere umano?

Un suggerimento lo possiamo dare, ricorrendo all’esergo posto da Debord ai suoi “Commentari alla Società dello Spettacolo”, senza alcuna necessità di dover ricorrere al détournement  situazionista al fine di rafforzarne, ideologicamente, il senso: «Per quanto critiche possono essere le situazioni e le circostanze in cui vi trovate, non disperate; è proprio nelle occasioni in cui c’è tutto da temere, che non bisogna temere niente; è quando siamo circondati da pericoli di ogni tipo che non dobbiamo averne paura; è quando siamo senza risorse che dobbiamo contare su tutte; è quando siamo sorpresi, che dobbiamo sorprendere il nemico – Sun Tzu, L’arte della guerra»[xv].

[i] Cit. in Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1977, p. 21. Nella nota n. 1, Benjamin scrive: «Paul Valéry, Pièces sur l’art, Paris, 1934, p. 105 (La conquête de l’ubiquité). Testo la cui prima edizione, risale, come abbiamo evidenziato, al 1928.
[ii] Walter Benjamin, Op. cit., p. 21.
[iii] Walter Benjamin, Op. cit, pp. 22-26.
[iv] https://zralt.angelus-novus.it/zralt-n-30-autunno-2020/la-digital-art-la-kripto-art-e-la-brutta-fine-di-quasi-tutte-le-opere-dematerializzate/
[v] Ibidem.
[vi] https://zralt.angelus-novus.it/zralt-n1-estate-2013/dalle-3-31-alle-3-33/
[vii] https://zralt.angelus-novus.it/zralt-n2-autunno-2013/la-deriva-debordiana-alle-99-cannelle/
[viii] Ibidem
[ix] Walter Benjamin, Op. cit., p. 49.
[x] https://andreabonaceto.com/artworks/categories/1/9388-sophia-instantiation-2021/
[xi] Walter Benjamin, Op. cit., pp. 42-43.
[xii] Vincenzo Trione, Crypto Art: Arte o non Arte?, «Sette – Corriere della sera», 23/7/21, p. 22.
[xiii] Walter Benjamin, Op. cit., p. 49.
[xiv] Antonio Gasbarrini (a cura di), Guy Debord. Dal Superamento dell’arte alla Realizzazione della filosofia, Angelus Novus Edizioni, L’Aquila – Massari Editore, 2008, p. 43, ora in:

https://www.angelus-novus.it/blog/2013/06/07/guy-debord-dal-superamento-dellarte-alla-realizzazione-della-filosofia/
[xv] Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2008, p. 187.