Un coltello deposto accanto a un pezzo di pane non è mai cattivo. Un coltello vero, a volte, serve a tagliare ciò che non si vede ed è proprio quello che si vede nella luce
di Giovanni Fontana
Nel bene e nel male, i protagonisti di questi racconti di Serge Pey sono gli abitanti di Nurine, un piccolo centro immaginario da cui si dipartono percorsi montani, aspri e tortuosi, tanto fantasiosi quanto emblematici, che vanno ad individuare luoghi reali nella geografia di un territorio il cui baricentro è Gavoi, cittadina che affonda le radici nel neolitico, che fece parte del giudicato di Arborea e che raccoglie di fatto un patrimonio denso di eventi e di personaggi.
Coprotagonisti nelle narrazioni sono gli animali, con i quali il rapporto della gente è stretto, avvolgente e talvolta inesorabilmente serrato nel gioco perverso della subalternità, che può assumere tinte drammatiche quanto grottesche, che può essere ironico e nello stesso tempo edificante attraversando trasparenti simbologie, in situazioni che però rasentano l’assurdo.
Nei racconti si scoprirà come si possa essere il sosia di un cane o come un cane possa testimoniare ad un processo, come si possa essere l’amante di una mula o il tutore di un corvo, come un topo possa diventare un incendiario o perché il cadavere di un serpente sia stato seppellito in verticale, come le lucertole siano la parola dei morti e come le api li amino ricercando parole nelle loro bocche, come i passeri possano essere in carcere senza perdere la libertà, come sia raffinata l’intelligenza della volpe, perché un’anatra sia stata stuprata su un palcoscenico o perché l’eternità sia <<un lupo che insanguina gli ovili con la sua fame inappagata>>.
***
La vacca e l’ambulanza
O come Bobore e i suoi amici hanno tagliato bistecche
Bobore aveva appena rubato una vacca. Questo non è usuale in paese e, per di più, è molto pericoloso, ma lui aveva bisogno di soldi per finire la casa.
In aperta campagna, lui, Zuvanne e Bachisio, verso le tre del mattino, avevano caricato la vacca sul furgone senza nessun problema. Poi, a fari spenti, tornati alla periferia del paese, erano rientrati in casa da un cancello posteriore che dava sui magazzini. Per non far muggire la vacca, Bachisio aveva preparato un sacco pieno di fieno e vi aveva tuffato il muso della bestia, che, effettivamente, non muggì mai fino al luogo della sua esecuzione. In verità, avevano avuto anche l’idea di ammazzarla nel camion, ma avrebbero dovuto farla a pezzi lì sopra e ciò non sarebbe stato tecnicamente facile. Era meglio sbrigare la faccenda a casa, dove c’era una macelleria da cacciatori, per la quale erano già passati decine di cervi e cinghiali vari.
Fu così che Zuvanne e Bachisio condussero la vacca viva nello spazio al pian terreno, per procedere rapidamente all’esecuzione. Armato di un piccone, Bobore mirò tra gli occhi. La povera mucca stramazzò al suolo senza un gemito. Un lavoro da professionista.
Bachisio, al quale si erano aggiunti Bobore e Zuvanne, cominciò a squartare la bestia sul pavimento della cucina. Vari canaletti di cemento erano pronti a smaltire il sangue che si sarebbe perduto nel ruscello che costeggiava il paese.
Bachisio tagliò testa e zoccoli, con un segaccio, e tolse la pelle, adagio, come fosse un mantello. Bobore afferrò quell’involucro di cuoio sanguinolento, lo lavò in acqua abbondante e lo mise ad asciugare nell’orto retrostante. Nascosto dietro gli alberi, quel mantello ancora intriso di sangue ondeggiava sullo stenditoio, tra le lenzuola del letto.
All’interno della cucina, con sega, mannaia e coltelli, il lavoro di macellazione continuò per la notte intera. All’alba, alla prima messa, non restava della vacca nient’altro che un mucchio di tronconi rossi di sangue, avviluppati dentro vecchie camicie e lenzuola del letto. La testa della bestia, deposta su carta di giornale, li contemplava con gli occhi aperti, quasi in beatitudine e senza alcuna espressione di condanna.
Terminato il servizio, la questione centrale che si pose ai tre amici fu, ovviamente, quella di smaltire tutti quei pezzi, ancora saturi di sangue, portandoli in paese e proponendoli a ristoranti abili nel ripulire il loro crimine. Il furgone che era servito per il furto, anche adesso faceva al caso loro.
Si trattava di organizzare il viaggio senza indugio, perché in questo periodo dell’anno, vista l’assenza di frigorifero, era impensabile conservare un’intera vacca tagliata a pezzi per più di una giornata. Con prudenza, Bobore uscì in strada per controllare se tutto fosse tranquillo e per dare eventualmente il via libera alla partenza. Ma la sua sorpresa fu grande quando vide da lontano alcune camionette dei carabinieri che si dirigevano verso il piazzale delle fiere, sottostante il campo di calcio.
In effetti, subito dopo l’alba, tutto il paese di Nurine era stato circondato da agenti, venuti a reprimere lo sciopero degli operai della fabbrica di plastica insediata nella pianura. Erano stati fortunati a passare tra le maglie della rete.
Trincerati in paese, gli operai tenevano in ostaggio il caporeparto negli uffici del municipio. Un mascalzone, come sempre, di cui un giorno, d’altra parte, alcuni uomini del villaggio si sarebbero occupati nei dettagli.
Per i nostri tre amici, uscire di casa diventò, in queste condizioni, molto difficile e pericoloso. Lasciare la vacca morta così all’aria, senza refrigerazione, apriva la prospettiva di un cataclisma igienico.
Erano le otto del mattino e già le mosche giravano come elicotteri intorno alle costate e alle bistecche della speranza. Bobore, da stratega, mitigò l’ampiezza della catastrofe nel momento in cui s’illuminò con un’idea geniale.
Nell’autorimessa di Micheleddu, c’era, in stazionamento permanente, per oscure ragioni, un’ambulanza per il soccorso rapido, che l’ospedale Zonchello, di Nuoro, aveva rivenduto. Micheleddu l’aveva restaurata come un gioiello: tergicristalli, sirena e lampeggiatore funzionavano a meraviglia.
Bobore andò quindi da Micheleddu e in cambio di una decina di bistecche non tardò a convincere l’amico a prestargli l’ambulanza per qualche ora.
La vacca a pezzi fu caricata nel veicolo e fu ricoperta con un lenzuolo, come se si trattasse di un ferito di guerra, poi l’ambulanza si avviò verso l’uscita di Nurine, a sirene spiegate. Come si può ben immaginare, la tensione era estrema.
Allo sbarramento, vestito con un camice biancastro, alquanto discutibile, Bobore spiegò agli agenti che trasportava il corpo di un contadino ferito all’ospedale San Francesco di Nuoro. Ciononostante i carabinieri, diffidenti, aprirono la portiera posteriore dell’ambulanza. Davanti alla fleboclisi che traballava sul suo piedistallo, con il condotto che si perdeva sotto il lenzuolo bagnato di sangue e, soprattutto, davanti a Zuvanne, anche lui vestito di bianco, come un infermiere, immediatamente alzarono la sbarra e spostarono i cavalli di frisia. Davanti a uno spettacolo così toccante, il comandante ordinò a due motociclisti di scortare il convoglio fino in città.
Bobore non aveva mai superato in vita sua tanti semafori rossi, così che a un certo punto s’immaginò di essere diventato il Presidente della Repubblica.
All’arrivo, a qualche traversa dall’ospedale, Bobore si fermò un istante per ringraziare gli agenti, spiegando che, a quel punto, potevano ben tornare indietro per continuare la loro operazione di mantenimento dell’ordine. E riuscì a sputare, comunque, un bel «figli di puttana» tra quei pochi denti che sembravano bloccarglielo. Ma con sua grande sorpresa, i motociclisti declinarono l’invito e pretesero di accompagnarli fino all’ospedale, poiché quello era l’ordine del comandante.
Bobore sentì colargli tra le spalle un sudore freddo, quasi un trasudo di formaggio. Non aveva previsto quella scorta, né d’altra parte aveva in programma di recarsi all’ospedale. A sirene spiegate e lampeggiatori accesi, fu obbligato ad obbedire. Prese la strada panoramica, rinunciando a girare sulla sinistra, verso il viale che conduceva giusto al ristorante di suo cognato, e si precipitò sulla strada dell’ospedale.
Pronto soccorso. Il convoglio arrivò subito nel parcheggio degli ingressi urgenti. Impaziente di finirla con la scorta dei carabinieri, Bobore abbassò il finestrino dell’ambulanza e ringraziò il primo motociclista, supponendo che, così, sarebbe tornato indietro con il suo collega. Ma no! Dotato di uno zelo sospetto, quasi inquisitorio, il diligente rappresentante della legge si offrì di assisterlo per il trasporto del ferito. Bobore insistette, tutto sorridente, spiegandogli cortesemente che la sua missione poteva considerarsi terminata e che si sarebbero arrangiati molto bene senza di lui. Ma non funzionò, perché il motociclista insistette ancora. Era la vigilia di San Costantino e Bobore meditò sul fatto che sicuramente avrebbe festeggiato in prigione, con i suoi compagni, le celebrazioni per il fondatore del cattolicesimo.
Bobore, a quel punto, indirizzò un’angosciata preghiera a San Francesco. Una seconda colata di sudore freddo, al formaggio, gli bagnò le reni. Pur così vicino alla meta, ancora uno scacco e lo avrebbero beccato con tutto il suo carico di carne.
L’altro figlio di puttana di carabiniere, con la sua testa da idiota, sbirciava ora dal finestrino posteriore dell’ambulanza. Zuvanne allora decide per una trasfusione e mima il gesto di avviare la flebo nelle bistecche.
– Stronzi di carabinieri! Che se ne andassero! Ma che se ne andassero, ‘sti froci!
Bobore non si fermava di pregare tra i denti:
– San Francesco! Te ne supplico! Aiutami, cazzo, a piazzare le mie bistecche!
L’infermiere delle urgenze si avvicinava ora all’ambulanza. È la fine. Il loro stratagemma era sul punto di crollare definitivamente. Bobore e Zuvanne s’immaginarono già in prigione, a pane secco e senza bistecche.
Ma San Francesco ha la reputazione di essere un santo efficace ed ebbe pietà di loro. Aveva ascoltato le preghiere di Bobore e aveva deciso di esaudirle. Il miracolo arrivò quando Bobore riconobbe immediatamente la faccia ilare di Marieddu, in camice bianco, davanti all’entrata delle urgenze. Ritenne così di essere ormai quasi salvo.
– Marieddu! Ciao! Era un po’ che stavo giusto cercando di vederti!
Marieddu era un vecchio compagno con il quale aveva una volta disputato numerosi campionati di morra in tutta la Barbagia.
Con la testa affacciata al finestrino, gli lanciò appena appena una strizzatina d’occhio:
– Zitto. Chiudi la bocca. Non è un malato: è una vacca! Ti spiegherò… Aiutami, e non te ne pentirai.
Non c’era bisogno di spiegare la situazione a Marieddu. Lui già stravedeva per un avvenire di grigliate.
Senza pronunciare una parola, fecero uscire la «moribonda», con calma, con professionalità, davanti ai carabinieri. Abilmente Bobore tendeva il cannello della trasfusione al di sopra della barella. Zuvanne, previdente, aveva nascosto nelle casse il resto del corpo e i due cosciotti anteriori. La testa era dietro, nascosta nello scompartimento degli attrezzi e della ruota di scorta. Nascondere una vacca intera in un’ambulanza non era cosa facile.
Bobore, ritenendo che la situazione fosse provvisoriamente salvata, ripreso il suo sangue freddo, si cimentò in una sviolinata sulla gentilezza dell’Arma.
A quel punto, gli agenti, considerando che tutto fosse in ordine, salutarono e ripartirono.
Ovviamente, nella sala delle urgenze, Marieddu, l’infermiere della morra, chiese la sua parte: qualche pezzo della coscia. Poi, nel corridoio dell’ospedale, provò ad aumentare la tariffa per il suo servizio. Si scherzò. Si tergiversò. Cercarono di fregarsi a vicenda. Ma non c’era tanto tempo per parlare e contrattare: non era bene attardarsi. Gli riservarono due bistecche in più. Era stato pagato caro! Gliele avrebbero date più tardi. Cazzo! Gli intermediari un giorno bisognerà fucilarli! Ma tutto ciò valeva bene il sacrificio: si caricò il cadavere amputato della ferita su una nuova barella.
La decisione più saggia era di riuscire da dove si era entrati. Si procedette così. Ma Bobore aveva sempre un sudore al formaggio, che ora gli colava tra le chiappe e gli solleticava nel buco del culo.
Alla fine ripresero l’ambulanza, risollevati, in direzione del ristorante del cognato di Bobore. Non ci fu bisogno di tracciargli il quadro della situazione, capì immediatamente di cosa si trattava.
Un colpo di clacson salutò la vittoria. La guerra era stata vinta. Definitivamente. Mentre la fanteria di famiglia stava sistemando l’ambulanza in garage, ci si divise il bottino. Si saltò di gioia. Ci si baciò sulla bocca. Si appesero i quarti di vacca nei frigoriferi. Dopo aver tagliato la lingua, si interrò la testa per evitare che qualcuno la identificasse o che lei denunciasse i suoi assassini. Non si può mai essere sicuri di niente. Avrebbe potuto testimoniare nonostante la sua innocenza.
Il giorno di San Costantino mi proposero una bistecca tagliata nella carne dell’eroina dell’ambulanza. Era così che scorticavo la storia.
Mentre la mangiavo, loro mi raccontavano la loro odissea: come estraendo le trippe, la mucca aveva scoreggiato compulsivamente, in quale maniera accurata loro l’avevano avvolta nelle lenzuola e nelle fasciature, come avevano ammassato la carne sotto la lettiga e sotto i sedili anteriori del veicolo.
Era una tarentaise di 600 Kg, alta m 1,30 al garretto, con un’adorabile mantello fulvo. I suoi occhi evocavano quelli di Maria, la cugina di Bobore. La vacca ormai, nel ristorante, si nascondeva sotto il nome di Maria. Tranquillamente, a voce bassa, ma senza scrupoli, si ordinava al cuoco una bistecca di Maria. Lui capiva subito, sorridendo, di quale carne si trattasse.
Da Maria alla Madonna non c’era che un passo. E lo si fece. Ormai, quando si parlava della Madonna, nel territorio di Nurine, si parlava della vacca. La Madonna delle bistecche aveva di certo un piatto dietro la testa, come un’aureola. È per questo che vi racconto questa storia.
Io non sono mai stato spettatore dei fatti. Soltanto un testimone privilegiato del miracolo delle bistecche.
Tuttavia non riuscivo a deglutire quella carne: era troppo dura. A mio parere non era abbastanza lavorata, malgrado i fagioli neri che la guarnivano. Alla fine del pasto, comunque, mi si chiese di recitare poesie. Fu ciò che feci scoppiando dalle risate.
Era la prima volta, a memoria di ladri, che le bistecche di una vacca assassinata finissero in un ristorante della città di Nuoro.
Si banchettò per quindici giorni. Se ne chiese ancora. Si trovò che era un’eccellente idea per trasportare la carne. E si ricominciò. L’ambulanza fu elevata a carrozza permanente di madonne. Credo che ciò si ripeta sempre. Tante volte, e perfino non più tardi di ieri, un’ambulanza ha tagliato la strada al crocevia, con Bobore al volante. Mi rendo conto che non è ancora un autista provetto. Ma la sirena era a tutto spiano.
***
Il cimitero dei cani
O come Zuvanne e Bobore hanno seppellito il loro nonno
Lello, l’addetto alle pompe funebri, mise Rosa sul tavolo e curò il suo aspetto. Domandò a Chiccu se dovesse lasciarle il collare. Chiccu gli rispose di no, perché era sua intenzione tenerlo in ricordo, accanto alla sua fotografia, sul caminetto. Chiccu piangeva. L’addetto alle pompe funebri aprì la bara di cartone e vi sistemò Rosa. Sembrava che dormisse. Chiccu voleva credere che presto si sarebbe risvegliata, che avrebbe mugolato, come sempre, prima di passare alle consuete feste di benvenuto. Chiccu in lacrime le infilò una rosa rossa tra le labbra. Rosa aveva diritto di essere comunista anche se non tesserata.
Come convenuto, l’addetto alle pompe funebri caricò Rosa nel bagagliaio della vettura. Durante il percorso fece attenzione ad evitare le buche e le spaccature della strada dissestata che portava al cimitero. Risalì tutto il viale Gramsci, girò in via Garibaldi, poi imboccò la stradina della chiesa di San Gavino. Erano quasi arrivati. Fece il giro della piazza dell’archeologo Lilliu, girò per via Grazia Deledda e infine entrò nel viale che portava al cimitero. Lello, l’addetto alle pompe funebri, guidava lentamente e aveva anche sul tetto della vettura una segnalatore rotante da convoglio eccezionale. Un voluminoso fascio di dalie e girasoli troneggiava sulla cappotta.
L’addetto alle pompe funebri faceva oggi un extra e si chiedeva se ciò fosse legale, ma ritenne che, dopotutto, seppellire un cane o seppellire un uomo fosse la stessa cosa. Rosa era più che un cane, talvolta anche più che un essere umano. Il suo amico Chiccu l’aveva amata quasi come un bambino. Per anni Rosa era stata la sua compagna fedele. Non si poteva mai incontrarli l’uno senza l’altra, a pesca o a caccia, nelle feste o davanti alla chiesa, aspettando che la cerimonia terminasse fumando una sigaretta, per così dire, atea. Nelle osterie Rosa era un’attrazione. Si alzava sulle zampe posteriori e si metteva a parlare! Sì, a parlare! Rosa aveva imparato le intonazioni di Chiccu e lo imitava con abbaiamenti modulati. No, un cane che parla non è completamente cane. Rosa era perfino di più che un essere umano.
Gavino, un amico di famiglia, seguiva la vettura delle pompe funebri in bicicletta. Rosa era stata anche sua amica. Ogni giorno le offriva in un sacchetto di plastica i resti del suo pasto.
Chiccu aveva sistemato corone di fiori nel carrello che Gavino trascinava dietro la bici. Ci aveva anche issato una bandiera sarda col più sorprendente degli effetti.
Lo strano corteo, traballando e lanciando colpetti di clacson, si diresse verso la squallida uscita dalla città, dietro la collina.
Accanto ad una vecchia fabbrica dismessa, Chiccu scoprì l’ingresso della discarica, una parte della quale era stata graziosamente trasformata in cimitero.
Il corteo si arrestò davanti al cancello. Una catena immensa pendeva dalla bocca di una campana smisurata. Chiccu la scrollò vivamente.
– C’è qualcuno? – gridò Chiccu.
– Sì! – rispose una voce rauca e avvinazzata – Che c’è?
Lello, l’addetto alle pompe funebri, ebbe un sussulto vedendo spuntare da un mucchio di pneumatici un personaggio irsuto con un fucile a canne mozze.
Rimpianse immediatamente di essere là, quando gli si parò davanti Emiliano. Un barbone riconoscibile per il suo eterno vestito a quadri, ricoperto di medaglie, di marchi di salsicce e di bottoni dell’Armata rossa. Davanti all’aspetto minaccioso del personaggio, Lello fu sul punto di riprendere la strada del ritorno e di lanciare la bara di cartone nei rifiuti, ma la sua coscienza professionale gli ordinò di portare a termine la sua missione. E poi c’era Chiccu, il proprietario del cane, e c’era Gavino, che accompagnava il morto, e poi lo avevano già pagato. Doveva conservare un atteggiamento dignitoso, solenne ed onorevole, compiendo il suo dovere.
– È per una sepoltura – disse Lello.
– Ah, bene. Credevo che fosse per un’altra cosa – rispose urlando e ridendo il gestore.
Chiccu bofonchiò tra sé di averla scampata bella, sbirciando con la coda dell’occhio il fucile a canne mozze.
– Andiamo! Entrate! – sbraitò accarezzando il suo cane, rimasto stranamente muto al suo fianco.
L’addetto alle pompe funebri parcheggiò la sua vettura davanti all’ingresso circondato di filo spinato.
Davanti a lui un cartello indicava laconicamente: Cimitero dei cani.
Chiccu aveva ovviamente immaginato qualcosa di più dignitoso per la sua cagnetta, tuttavia il luogo era reso solenne da vasi di gerani e da statue di cemento recuperate da un giardino abbandonato.
Più lontano, a una cinquantina di metri, si ergeva una baracca per attrezzi e pneumatici, ricoperta di teloni di plastica.
Era là che viveva Emiliano Bubbu, il gestore del cimitero. Aveva reso più gradevole la sua pattumiera (questo era il nome con cui aveva battezzato la sua baracca) con vasi di fiori rubati. Da lontano faceva un effetto delizioso. Tanto più che sul tetto della capanna ondeggiava una superba bandiera nera accanto all’antenna televisiva.
Emiliano aveva l’elettricità gratis. Viveva al di sotto di una linea che alimentava la città e, naturalmente, aveva innestato una pinza metallica ai fili. Era contento: aveva la corrente per la luce e per la televisione e aveva perfino un sistema per il recupero del gas dai rifiuti, perfettamente funzionante.
Quel cimitero era un immenso terreno libero che Emiliano aveva ereditato da suo zio.
Malgrado i suoi settant’anni era ancora in forma e insultava tutti quelli che si arrischiavano a passare da quelle parti. Girandosi, interrogò laconicamente Lello, l’addetto delle pompe funebri.
– Che cos’è che volete seppellire?
– Rosa.
– E chi è?
– È un cane!
– Allora è là, dietro le gomme, laggiù, a fianco alla Fiat rossa.
Una vecchia croce fabbricata con cartelli stradali di senso vietato indicava il percorso. Il viale era curato e i bordi erano costeggiati da vasi di fiori. Davanti a ogni vaso, su un’etichetta, risaltava in maiuscolo il nome di un cane.
– Arrangiatevi voi, io ho ancora una sepoltura da fare oggi.
Emiliano parlava con un accento cagliaritano da tagliare col coltello. Terminava le frasi, e perfino le parole, con cadenza interrogativa.
L’addetto delle pompe funebri, coscienziosamente, svolse il suo ruolo di maestro di cerimonie: con un piccone scavò una buca e vi trascinò dentro la bara. Poi, leccandosi le labbra, prese un’etichetta di plastica dove era già scritto il nome di Rosa e la piantò come un prezzo su una torta. L’onore era salvo. Il dovere compiuto. Per far buona misura, sistemò anche qualche fiore, un’immagine di Sant’Antonio Abate e una reliquia avariata della Vergine di Sa Itria.
Chiccu, asciugandosi le lacrime, si preparò a pagare la locazione del terreno a Emiliano, il gestore, quando un assembramento all’entrata del cancello attirò l’attenzione di tutti.
Una ventina di persone in costume di velluto nero, accompagnati da bambini, stavano tenendo un lungo tubo di plastica. Non erano di qui, visti i costumi con cui si erano agghindati. Sembravano uscire da un libro illustrato e i loro abiti erano ante-guerra. Doveva essere gente venuta dalle montagne di Padinas. Sì, con le loro ghette e le cassette di birra a portata di mano, sembravano proprio arrivare da quelle contrade.
Emiliano, il gestore del cimitero dei cani, incuriosito, si domandava che cosa facessero là. Si trattava di un’altra sepoltura, di un gruppo di idraulici o di un plotone di assassini venuti a saldare vecchi regolamenti di conti? Ma aveva un bel cercare e ricercare nei suoi ricordi: non aveva mai avuto storie con la gente dell’altra parte della montagna. Li aveva evitati per tutta la vita. Le genti che abitano l’altro lato della montagna, sulla strada per Popoda, erano dei veri barbari, molto peggio di quelli di Tortorai. Molti, sfortunatamente, lo avevano capito a loro spese: ammazzavano come gli Indiani, soprattutto il giorno di Carnevale. Quello, comunque, sembrava il portamento di un gruppo che volesse seppellire qualcuno. Le corone di fiori, il crocifisso e i canti orientavano verso questa interpretazione. Emiliano, per precauzione, infilò un pallettone nel suo fucile e aumentò così il livello di sicurezza.
Zuvanne, sì, proprio lui, si staccò dal gruppo e si avvicinò ad ampi passi, lentamente, verso il gestore del cimitero.
– È per il seppellimento di Nonno, sospirò Zuvanne.
– Chi?
– Nonno.
– Da me non si seppelliscono uomini – disse Emiliano.
– Ma non è un uomo!
– E che è allora?
– Nonno è il suo nome! Ha vissuto tutto il tempo con noi. Sono stati i bambini a battezzarlo così – aggiunse Zuvanne.
– E che cos’è? Un cane? Nome bizzarro per un cane!
– No. Nonno è un pitone – rispose Zuvanne con le lacrime agli occhi, vitrei e rossi, come quelli di chi ha bevuto molto mirto.
– Un pitone? Ma questo è un cimitero per cani, e là dietro c’è l’area per i gatti.
Emiliano, il gestore del cimitero, che comunque di storie ne aveva vissute tante, era rimasto interdetto, ma poi domandò ancora, incredulo:
– Dov’è il corpo?
– È qui con noi, noi lo conserviamo in un tubo in PVC. Nonno è lungo… Nonno misura ben sei metri. Noi l’amavamo tanto.
Emiliano esclamò:
– Cazzo! Sta diventando un zoo qua! Ma noi non siamo razzisti. Seppelliamo anche i pesci!
Emiliano, senza dubbio, non aveva fatto studi di zoologia, né di etologia, ma tutti avevano capito. Zuvanne, che tutti consideravano con rispetto, dichiarò di nuovo, nel silenzio:
– Signore, noi esigiamo una degna sepoltura.
– Sì, ovviamente, ma in quale modo immaginate di seppellirlo? – domandò Emiliano.
– Beh, possiamo seppellirlo verticalmente per pagare meno superficie o orizzontalmente. Dipende dal prezzo che voi ci proponete – rispose Zuvanne, degno figlio di Nurine.
Emiliano, buon capoccia e infastidito dalla dialettica del rituale che si stava avviando, lasciò che si instaurasse il dibattito tra le parti. Come specialista consapevole di questioni funerarie, alla maniera di un saggio, ascoltò i due schieramenti. Dopotutto, era il suo ruolo: era lui il gestore del cimitero.
Stappata qualche bottiglia di Ichnusa, la conversazione si accese, aspra, attraversata da riferimenti filosofici, esoterici e qualche volta abitati da bagliori poetici.
Benché i bambini reclamassero di seppellirlo in piedi, bisognava capire che era difficile praticare un buco di sei metri di profondità. Una tomba non è un pozzo di petrolio. Il dibattito si fece senza dubbio animato, tra chi parteggiava per la tomba orizzontale e chi per la verticale.
Bobore, che nella delegazione se ne stava dietro a Zuvanne, era per il pozzo. Zuvanne e i bambini erano per il fossato. Emiliano alla decima birra, accalorato per l’aspetto teorico che sollevava la sepoltura, suggerì di scavare con una pala meccanica che era in un cantiere giusto a fianco. Era sabato, nessuno lavorava e il conduttore piazzava le chiavi in cabina, sotto il sedile. Se avessero spostato il mezzo, nessuno se ne sarebbe accorto. Ci si mise all’opera. Chiccu, disponibile, si piazzò al volante e spostò la ruspa al riparo da sguardi indiscreti.
Ma siccome era mezzogiorno e l’ebbrezza dell’aperitivo era diventata matura, il dibattito si animò di nuovo calorosamente. Il partito degli orizzontali e quello dei verticali finirono quasi per arrivare alle mani.
A un certo punto Emiliano si ricordò di essere il proprietario del cimitero. Non aveva intenzione di realizzare una tomba orizzontale di sei metri di lunghezza, che avrebbe occupato troppo spazio accanto all’appezzamento dedicato ai cani. E una tomba verticale era ugualmente impossibile da realizzare con la pala meccanica, poiché bisognava considerare i disastri collaterali che ciò avrebbe comportato nella discarica.
Ma a fine corsa, spossato, Emiliano, alla ventesima birra, ebbe un’idea luminosa che raccolse tutti i suffragi.
Propose di seppellire Nonno, Grand-père, per un terzo del tubo, dalla parte della coda, in una buca, e per i due terzi del tubo in aria. Tutto il gruppo dei consulenti trovò l’idea maestosa.
Si dette corso al progetto. Il tubo fu elevato sul cimitero con fierezza, come una colonna. Nonno era sicuramente contento nel suo tubo! Come un menhir, il tubo in PVC si levava nel cielo e amoreggiava con gli uccelli. Nonno era in piedi, come un segnale e dominava tutto il cimitero.
Zuvanne, tuttavia, ebbe un dubbio: prima dell’installazione finale volle che il tubo si scoprisse al fine di verificare se Nonno avesse il muso fuori terra o se fosse invece interrato. Si verificò. Aveva ragione. Ci si era sbagliati. Si girò il tubo.
Ognuno desiderava scrivere una parola sul sarcofago verticale. Emiliano, che aveva da tempo deposto il fucile, distribuì pennarelli a colori. Il tubo si coprì presto di scritte: «A Pepé per la vita», «A presto», «Noi saremo presto tutti riuniti».
«Nonno» aveva partecipato al battesimo dell’ultimo bambino della famiglia di Gavino Pirras. Quest’ultimo diventato suo figlioccio preferito, poiché non ne aveva altri, scrisse con errori d’ortografia: «Al mio padrino carro che nondimenticcherròmmai». Bobore, sempre pratico, applicandosi, e tracciando la sua scrittura come alle scuole elementari, scrisse in minuscole laboriose: «Noi ti permettiamo di ritornare e di procurarti topi ai pasti».
Anche Emiliano, il gestore del cimitero, si ritagliò lo spazio per un epitaffio, benché non avesse mai conosciuto il morto. Scrisse, con un pennarello più grosso, un enigmatico: «Che Dio ti venga in aiuto», come se il pitone avesse dei peccati da rimproverarsi.
Zuvanne, in qualità di capofamiglia, invece, scrisse in lettere maiuscole:
«QUI RIPOSA NONNO
CHE CI ACCOMPAGNÒ IN TUTTE LE NOSTRE LOTTE
PER L’EMANCIPAZIONE DELL’UMANITÀ.
CHE TUTTI RICORDINO.
I SUOI FIGLI E COMPAGNI DEVOTI».
Prima di andar via, Zuvanne ebbe l’idea di appendere la bandiera sarda sulla punta del tubo. Emiliano parteggiava per la bandiera rossa. Bobore optava per una girandola. Per poco non si litigò. E il dibattito ricominciò: si optò alla fine per la girandola. Si fece una corta scala. Si cercò del fil di ferro. Si sollevò sul palo Andrea, il figlio di Kiodo, che allacciò con mano esperta un mulinello in plastica trovato nella discarica.
Era veramente una tomba splendida. Nonno era contento.
Ovviamente ci si trattenne là. Si procurò qualche gallone di Cannonau, l’eroico vino dell’Isola. E si bevve tre giorni di seguito.
Siccome si era dalla parte del lago, per tutto il tempo ci fu vento per far girare la girandola.
Nonno era contento. Era il vento che lo diceva in refoli. Perfino le bottiglie che erano state scolate approvavano con il loro tintinnio. Anche l’universo era contento: ammirava la grandezza di Nonno sulla cima della discarica. Il mare, che si poteva immaginare in lontananza, applaudiva senza fermarsi, e con eccitazione, Nonno, non cessava di girare la sua girandola.
Zuvanne, Bobore e tutti gli altri non rimpiansero quella passeggiata al nuovo cimitero.
Nonno aveva una tomba degna di questo nome. La sola che si rivolgeva al cielo.
***
I due coltelli
Dove si apprende come Michele Lavra abbia stretto un’amicizia con un coltello trovato sulla strada
Ci sono due maniere di dare la morte con un coltello.
La prima attaccando di fronte: assestando il colpo nella parte sinistra del ventre dell’avversario, a fianco all’ombelico, per poi risalire tra le costole, orientandosi verso il cuore. Una sorta di enorme asola. Questo per uccidere a colpo sicuro con la precisione di un macellaio.
La seconda maniera consiste nell’afferrare il coltello per il manico, con la parte affilata della lama, ovviamente all’esterno, che si protende verticalmente al di sopra del polso, in modo che il colpo, portato come fosse un pugno, tagli di netto le carni di colui che lo riceve. È un modo eccellente, per esempio, per squarciare la gola di colui che si attacca. Il colpo deve essere dritto, orizzontale. Non si infilza. Non si spinge. Si assesta il colpo come un pugno all’americana, di faccia. Alla gola o tra gli occhi.
Sono astuzie di dominio pubblico, a Nurine: la perdita dell’onore è assimilata alla perdita della vita.
Michele aveva subìto la sua umiliazione in passato, quando avevano ucciso suo fratello, e lui, con la mano sul feretro, aveva promesso a sua madre di non vendicarlo. Era proibito parlare di lui in pubblico. Nelle osterie lo si salutava con la mano sinistra, talvolta gli si passava il bicchiere o il cucchiaio sotto la gamba… tutti segni che lo qualificavano come un codardo integrale. Tutto tendeva ad obbligarlo a portare a termine la sua vendetta, perfino i cani incitati dai loro padroni ad abbaiare al suo passaggio. Così non rimase con quella infamia addosso per più di due anni.
Ed erano passati giusto due anni da quando riuscì a mettere in pratica il suo giuramento. La polizia riteneva che fosse lui. Ma malgrado i sospetti a suo carico, non c’erano prove certe per accusarlo. Era caduto per una semplice storia di furto di vacca.
Non appena entrò in casa, cercò il suo coltello, lo affilò per interminabili minuti e lo contemplò a lungo. Michele aveva imparato ad uccidere da bambino. Si esercitava a lungo ad estrarre il coltello dalla tasca e ad usarlo con una mano sola. In un solo movimento, agganciava la punta della lama del coltello nell’angolo della tasca e, estraendolo, lo affondava in un sacco di paglia appeso ad una trave.
Suo padre gli aveva ben raccomandato che bisognava colpire per primi, altrimenti si era morti.
Michele aveva due coltelli.
Se ne era fabbricato uno nello stile di «Pattada», curvo e lucido come una Ferrari appuntita. Poteva restare perfettamente in equilibrio sulla base dell’impugnatura. Impeccabile come una foglia di mirto o una ballerina. Intorno all’anima di ferro, aveva scolpito il manico con applicazioni di placche di corno di ariete. Una linguetta, di un solo pezzo, assicurava la solidità del montaggio del perno. Il suo amico Peppinu gli aveva lavorato la lama.
Ma da qualche tempo, Michele aveva un secondo coltello che nascondeva nel suo stivale. Lo aveva trovato, scintillante come un pesce fuori dall’acqua, sulla strada per Orgosolo. Una frase era incisa sulla lama: «Dalla discussione scaturisce la luce». Era un coltello di un uccisore di pecore o di uomini. Aveva sicuramente ucciso entrambi. La punta della lama superava il manico di due o tre millimetri: ciò consentiva un’apertura rapida del coltello, estraendolo dalla tasca con quella sola mano che premeva sull’apertura dei pantaloni. Michele aveva considerato ovviamente di restituire il coltello al suo proprietario. Non si poteva possedere una tale bellezza senza pagarne le conseguenze. Quel coltello come un fantasma aveva un’anima. Lui la sentiva che gli gironzolava intorno. Ma scrivere un annuncio sulla stampa era fuori discussione. E allora Michele aveva tenuto il coltello e, giorno dopo giorno, ci si era attaccato come un innamorato all’innamorata.
Lo affilava, lo lucidava con il cuoio del suo cinturone. Di tanto in tanto ne ingrassava la molla e lo riscaldava come un bambino nella sua mano. Il manico era fabbricato con la parte superiore di un corno di caprone. Aveva immaginato spesso come quel corno fosse stato lavorato e levigato. Immaginava che fosse stato posto su barre metalliche, a ottanta centimetri circa da un letto di braci, affinché si ammorbidisse lentamente. Michele si vedeva afferrare quel corno che metteva nel porta-pezzo per trasformarlo in manico. Sì, questo coltello lo aveva sognato. Lo aveva amato. Lo aveva accarezzato. Non lo aveva mai bagnato. Alla fine dei pasti, faceva attenzione che non si mischiasse con stoviglie, perché il corno non si scagliasse e il manico non si deformasse. Quel coltello, che aveva trovato sulla strada di Orgosolo come un dono divino, lo aveva modellato, lo aveva reinventato, era lui che lo aveva fatto nascere dalla forgia e dal corno e dal ferro. Se ne era convinto: quel coltello era nello stesso tempo suo figlio e la sua amante.
Michele lo custodì a lungo in un cassetto della sua camera senza mai tirarlo fuori.
Poi un giorno, non potendo più resistere, lo utilizzò per sacrificare un agnello. Era Pasqua: lo fece alla festa di Turnino Otzana, alla quale era stato invitato. Poi, l’indomani, dette il colpo di grazia a un maiale, a casa di Pepino. In seguito, giorno dopo giorno, confidando sempre di più nella sua buona stella, lo utilizzò regolarmente in pubblico e lo brandì fieramente durante i pranzi di nozze e dei funerali. Era un coltello tagliato per l’onore e lui lo aveva apprezzato nella sua giusta misura. Forse un giorno quello che lo aveva perduto avrebbe scoperto che era lui che lo possedeva. Michele, con trepidazione e timore, attendeva quel giorno.
«Dalla discussione scaturisce la luce». La morte s’inventa l’ironia che può nei meandri che la vita ci offre e si riprende. Era veramente il coltello di un omicida, che si rivolgeva agli uomini, in nome degli uomini, poiché gli animali non parlano e nemmeno leggono il giornale.
A Nurine, un bambino era considerato come un adulto quando aveva la capacità di tenere una lama e di servirsene. Una vecchia leggenda non racconta forse che il primo coltello è stato forgiato con una ciocca di capelli di donna?
Un coltello è un oggetto privato, intimo, inviolabile. È come un’anima. Dalla lama all’anima, c’è appena un respiro di differenza. Un orecchio. Una lingua. E così Michele aveva conservato il suo coltello come un essere vivo.
Ma un giorno quel che doveva arrivare, arrivò: alla festa di Sa Itria, che raccoglie centinaia di pastori della regione, mentre tagliava un prosciutto di Villagrande, un uomo di Mamoiada gli si avvicinò.
Michele, sentì subito che era il proprietario di quel coltello. Tuttavia non parlò. Ma ciò che si vede talvolta sconfina in ciò che non si vede. Come in una traspirazione invisibile. Un sudore designato e intangibile.
L’uomo mormorò con tono grave.
– Questo coltello è mio.
Michele capì che l’uomo di Mamoiada non mentiva. Non si mente mai davanti a un coltello aperto. Poiché ogni coltello è carico del potere di chi lo ha affilato e del sangue che ha versato.
Michele, malgrado sentisse dentro di sé che l’uomo era veramente il proprietario del coltello, gli domandò, per una verifica, dove l’avesse perduto. L’uomo rispose che accadde sulla strada di Orgosolo e che due anni erano trascorsi.
L’uomo di Mamoiada brontolò ancora:
– È il mio coltello.
Michele, allora, pulì il coltello con del pane, poi lo lucidò su una salvietta e lo dette all’uomo, fissandolo negli occhi. L’uomo posò il coltello sul tavolo davanti a lui.
Michele gli annunciò, a quel punto, che attendeva la sua visita da molto tempo. E che aveva perfino pregato di ritrovare il proprietario di quel coltello. Poi, si stabilì un silenzio tra i due. Un silenzio rispettoso, pieno di sangue e di luce.
Michele allora stappò una bottiglia di Cannonau de Jerzu e, guardando i cavalieri che attraversavano la piazza, invitò l’uomo a bere.
Quando la bottiglia finì, l’uomo ripiegò il suo coltello e con un sorriso di soddisfazione lo fece scivolare nella tasca. Benché fosse stato lui a fabbricarlo e il coltello gli appartenesse, fece un gesto che non era abituale: tirò fuori una moneta dalla tasca. Ma quello, in realtà, era un rituale obbligatorio quando si riceveva un coltello. Una moneta contro un coltello: era il segno di un nuovo patto d’onore, di una grande riconoscenza e di un contratto con la morte.
L’uomo ringraziò Michele e riprese la strada con il suo cavallo, così come era venuto.
I due uomini si erano fermati là. E Michele, certe volte, prendeva a rimpiangere quel coltello, che aveva avuto in deposito per due anni e che ora gli mancava, come se avesse perduto un amore o addirittura una mano. Ora in lui era rimasto un vuoto e il ricordo del coltello gli rodeva i sogni. Bobore conservò la moneta nella sua tasca.
L’anno dopo alla festa di Sa Itria, Michele era seduto nello stesso posto, davanti alla casetta che affittava ogni anno. Mentre si preparava a tagliare il prosciutto e a tirar fuori il formaggio, vide un cavaliere avvicinarsi. Riconobbe immediatamente l’uomo del coltello.
– Salute Mamoiada!
– Salute Nurine!
Così si chiamavano, perché ancora non conoscevano i loro veri nomi.
– Siediti. Prendi un pezzo di prosciutto.
L’uomo di Mamoiada attaccò il cavallo alla ringhiera della casa e disse con voce grave, tendendogli la mano:
– Tieni, ho qualcosa per te.
Michele si teneva sulla difensiva. Non conosceva veramente l’uomo di Mamoiada. Che voleva da lui? Il coltello glielo aveva ridato. Ma non si è mai sicuri di niente in una storia di coltello e con un uomo di Mamoiada. Le storie di coltello finiscono male spesso.
L’uomo tirò fuori dalla sua bisaccia un lungo pacchetto stretto, avvolto nel giornale, e mollò:
– Tieni, è per te.
Michele sciolse lo spago e spiegò l’involto. Era un coltello. Uguale all’altro. Suo fratello. Scintillava nel sole come un bagliore di luna. Ancora più spettacolare del primo. Un coltello fatto interamente a mano. Il manico scolpito con volute e lettere. Michele lo aprì delicatamente. La lama era di acciaio al carbonio. Le borchie sul manico di corno lanciavano bagliori nell’oro della luce. Su un lato l’uomo di Mamoiada aveva scritto: «L’onore è la poesia del dovere».
– Tieni, è per te. Quando ripresi il mio coltello, l’anno scorso, era impeccabile e perfetto come il primo giorno. Allora ho capito che tu l’avevi nella pelle e che il mio coltello ti aveva amato. Te ne ho fatto un altro…
Michele tremò. Aprì e richiuse il coltello parecchie volte. La lama balenava davanti alle bottiglie di vino e lanciava lampi che sembravano stupire il sole. Poi s’infilò la mano in tasca e tirò fuori la moneta. La stessa che l’uomo gli aveva dato in passato.
– Tieni, Mamoiada, è per te.
– Grazie Nurine.
– Io sono Luigi Galante – mormorò l’uomo di Mamoiada.
– E io sono Michele Lavra…
Era tanto tempo che una amicizia così non cominciava alla festa di Sa Itria.
Seduti a tavola, i due uomini s’intrattenevano mangiando e guardando i loro coltelli.
Un coltello deposto accanto a un pezzo di pane non è mai cattivo. Un coltello vero, a volte, serve a tagliare ciò che non si vede ed è proprio quello che si vede nella luce. Michele Lavra e Luigi Galante fissavano il sangue del silenzio colare nella polvere. La luce così ha sacrifici che non si possono vedere.
* Dal libro di Serge Pey Storie sarde di animali particolari, di delitti e di speranza (a cura di Giovanni Fontana), Fermenti, 2021.
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